Ero soddisfatta per i progressi che stavo facendo nel corso del primo anno accademico. Ma avvertivo qualcosa che mi preoccupava, anche se non capivo cosa fosse. Qualcosa che non potevo controllare. Qualcosa ben piu’ grave di un fallimento ad un esame.
Il primo indizio provenne direttamente da mio padre. “Ho gli attacchi di panico”. Come e’ possibile? Aveva sempre impersonificato la razionalita’ e l’autocontrollo e ora anche lui era vulnerabile all’angoscia e al disagio? La sua affermazione mi scosse. Non sapevo cosa rispondere. E poi che consiglio potevo dare dal momento che non sapevo ancora fronteggiare la mia angoscia per gli esami? “Perche’?”. Ma non mi rispose. Non sapeva neanche lui. Passava sempre meno tempo in casa. “Mi sento impazzire altrimenti”. Mi confidava. Lo capivo. Aveva bisogno di tranquillita’ e di qualcosa che in casa non trovava. Ma cosa? Anche lui come me soffriva del disagio familiare? Da quando era andato in pensione lo vedevo stressato. Uno stress negativo che nasceva dal sentirsi inutile alla societa’. E lui aveva ancora molte energie fisiche e mentali che voleva trasformare in lavoro, ma che non stava impiegando ed esse si stavano disperdendo dentro di lui, trasformandosi in rabbia, frustrazione o peggio depressione.
Si teneva occupato con le piu’ svariate attivita’, oltre che con il ciclismo, che aveva sempre praticato regolarmente anche nel periodo lavorativo. Frequentava biblioteche, seguiva caffe’ letterari, frequentava un corso di piemontese, trafficava sempre di piu’ con le sue diavolerie elettroniche e, piu’ recentemente, con il computer, si appassionava al simulatore di volo... Inoltre, era assolutamente informato su tutte le attivita’ fiscali e giuridiche che riguardavano la gestione familare. Era in grado di compilare autonomamente le dichiarazioni fiscali, di cui io ero ancora completamente ignara, pur essendo ragioniera.
Ma probabilmente non bastava. C’era ancora qualcosa che lo rendeva insoddisfatto. “Ma non sei felice per quello che fai?”. “Le attivita’ pubbliche a cui partecipo sono interessanti. Ma quando guardo i frequentanti, vedo tutte teste bianche.”
Allora aveva paura di invecchiare. Ma perche’? Se si e’ soddisfatti della propria vita, non si dovrebbe aver paura di invecchiare. Forse si sentiva troppo vecchio per fare qualcosa che avrebbe voluto? Ma cosa?
Decise poi di impegnarsi in un’associazione di volontariato per attivita’ ricreative dei disabili. Il suo umore miglioro’ notevolmente. Ora si sentiva di nuovo utile per la societa’. Probabilmente i suoi passatempi individuali, per quanto lo intrattenessero, non facevano che esaltare il suo isolamento da pensionato. E lui odiava l’isolamento, ma non la solitudine. Era molto individualista e indipendente e di certo non soffriva a trascorreva il tempo da solo. Al contrario, ne aveva bisogno. Ma non tollerava di sentirsi emarginato. Anche io sono cosi’ e vivevo la sua condizione come se fosse la mia.
Ma la febbre lo colpi’. Diverse ricadute nell’arco di un mese. Mia madre agi’ portandolo in ospedale. Lui non esito’ a infilarsi le scarpe e seguirla.
Fu il secondo indizio. Mio padre si arrendeva a mia madre, ma soprattutto andava in ospedale senza opporsi. Non era mai stato in ospedale. Non andava nemmeno dal medico di base. Erano anni che non faceva un’analisi del sangue. Non si sarebbe mai fatto ricoverare se non in stato terminale. Quando usci’ dalla porta sospettai che non sarebbe piu’ rientrato.
L’ultimo indizio provenne dai medici. “Gli esami sono tutti a posto. Chiunque vorrebbe avere una cartella clinica simile.” Ma non lo dimettevano perche’ la febbre continuava a salire. E procedevano con le indagini: esami sempre piu’ invasivi e nocivi. Mia madre era sollevata poiche’ i medici non potevano diagnosticare alcuna patologia. Ma non capiva. Non capiva che non individuare la causa del male equivaleva a lasciar vincere il male.
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