sabato 29 ottobre 2011

La strega di Natale

Luci, bancarelle, addobbi, torte, dolciumi e cibi festivi nazionali e internazionali. A Londra anche l'atmosfera natalizia e' multietnica, ma sempre alla stessa festa ci si prepara: regali, pranzi, cene, parenti... Tutto il mondo e' paese in quanto a consumismo e feste commerciali.
In quei giorni non ci si preoccupa della crisi economica, ci si dimentica della dieta che si stava seguendo, ci si sente felici e buoni, facendo gli auguri anche a gente che normalmente si odia e trascorrendo il tempo con parenti indesiderati.
Finite le feste, l'incantesimo svanisce: ritornano i problemi, i malanni, ci si sente pesanti...
Natale era ovviamente la mia festa preferita da bambina, quando ancora non conoscevo l'ipocrisia. Pensavo veramente che la gente festeggiasse e facesse regali spontaneamente e non per convenzione sociale. Poi, nell'adolescenza, cambiai idea. “Mamma perche' mi hai regalato quella maglia? Lo sai che quel colore non mi piace. Non devi farmi i regali per forza solo perche' e' Natale. Preferisco piuttosto non ricevere nulla”. E cominciai ad odiare il Natale anche perche' mi immobilizzava a casa dove mi annoiavo e percepivo il disagio familiare. Ma non avevo alternative perche' nessun amico era disponibile ad uscire il giorno di Natale o a venirmi a trovare a casa perche' ognuno lo trascorreva con la propria famiglia.
Dopo la crisi adolescenziale, vissi il Natale in maniera tollerabile fino alla morte di mio padre. Da quel momento in poi la ricorrenza natalizia comincio' a suscitarmi malinconia e tristezza, ricordandomi la disgrazia. Anche mia madre condivideva il mio sentimento, pur celandolo con un sorriso. Ora che non c'e' piu' neanche lei, la sensazione e' terribile.
Un unico giorno in cui sembra che tutte le famiglie siano unite, d'amore e d'accordo, mentre la tua non esiste piu'. Tutti festeggiano, mentre tu puoi solo recarti al cimitero per far visita alla loro tomba. Un unico giorno in cui sembra che la famiglia sia l'unico ruolo sociale esistente e sei un emarginato se non ne possiedi una o se vivi da solo. Un unico giorno in cui ci si sente in dovere di festeggiare e si attacca l'etichetta di “sfigato” a colui che lavora, che non si puo' permettere di trascorrere il tempo in famiglia, celebrando il consueto rituale, ma che intanto ti serve il cibo al ristorante per farti festeggiare o ti cura all'ospedale quando stai per scoppiare. Ma se e' un obbligo allora che festa e'? La festa dovrebbe essere un divertimento piuttosto che una forzatura.
Inoltre, se vivi all'estero, devi necessariamente ritornare nella tua patria natale, perche' il tuo convivente vuole rivedere la sua famiglia e perche' e' giusto far visita a tua sorella, anche se poi lei se ne va a casa della famiglia del suo fidanzato.
L'anno scorso trascorsi il Natale, il primo dalla morte di mia madre, in compagnia dell'altra mia sorella non autosufficiente. E' come se l'avessi trascorso da sola perche' lei non parla e non e' consapevole della sua esistenza, ne' della societa', ne' di tutte le sue feste. A lei non fa nessuna differenza se sia Natale o lunedi' lavorativo. A lei interessa soltanto che ci sia una persona che pensi a lei e l'unico modo per fartelo capire e per ringraziarti della tua considerazione e' tramite gesti, non parole. Ma preferisco il silenzio alle parole ipocrite di una famiglia apparentemente felice e senza problemi. Penso che in fondo molte famiglie non siano realmente felici, altrimenti perche' si sente il bisogno di celebrare la felicita' familiare in un unico giorno dell'anno?
E' gia' la seconda atmosfera natalizia che respiro a Londra dove i supermercati esordiscono ancora prima che in Italia, ricordandoti che devi comprare, mangiare e scoppiare ancor prima di Halloween.
L'anno scorso a dicembre, in prossimita' del Natale, passai un fine settimana da sola a Londra, poiche' il mio convivente si trovava in trasferta per una conferenza di lavoro. Abbandonando ogni pregiudizio sul Natale, visitai un mercatino sul lungofiume Tamigi. Volevo acquistare dei regali con intento sincero, ma sconforto e repulsione per la banalita' mi pervasero. Decisi allora di trascorrere un'intera giornata al British Museum. Anni di storia, di oggetti ritrovati sparsi per il mondo appartenuti a civilta' passate mi distrassero ricordandomi che in fondo le disgrazie personali non sono nulla in confronto alla storia dell'umanita', anche se noi le percepiamo come tragedie di rilevanza universale.
Pertanto divento la strega, quella che al Natale non fa neanche una piega, quella che in vista delle feste preferisce il museo al mercato, quella che non ha mai finto, neanche per le feste, che non ci fossero conflitti familiari e con i parenti, quella che manifesta apertamente noia per i passatempi natalizi e che non vi partecipa, quella che vorrebbe trasformare in zucche tutti i panettoni per poterci mettere il sale.
Ma in fondo la vita e' cosi' semplice e dolce se accompagnata da una fetta di panettone o da un buon bicchiere che ti aiuta a digerire l'acidita' che ti porti dentro. 

sabato 22 ottobre 2011

Senza premura (Intervallo)

Di pensieri ne ho sempre tanti e di tempo per formalizzarli poco, soprattutto in questo periodo in cui ho progetti da concludere e commissioni varie da sbrigare prima di tornare in Italia.
Pubblicare per forza, soltanto per incrementare i post nel blog cozza con il mio "codice deontologico". Cio' che scrivo deve essere sentito, ma anche ragionato e richiede tempo e attenzione poiche' non voglio scrivere errori ortografici (anche se purtroppo a volte mi sfuggono e li correggo non appena me ne accorgo).
Quindi, carissimi lettori, mi concedero' una pausa che potra' durare una settimana cosi' come due mesi, il tempo di concludere il lavoro e di traslocare. Per chi fosse appena capitato sul sito auguro il benvenuto e invito a leggere i miei post dal meno recente al piu' recente, ripercorrendo cosi' le fasi piu' importanti della mia vita. Grazie per il sostegno finora dimostrato.
Nell'attesa, vi anticipo quali saranno i miei obiettivi futuri citando la seguente frase che ho letto qualche anno fa su "Narciso e Boccadoro" di Herman Hesse:

"La meta e' questa: mettermi sempre la' dove io possa servir meglio, dove la mia indole, la mia qualita', le mie doti trovino il terreno migliore, il piu' largo campo d'azione.
Non c'e' altra meta".

mercoledì 19 ottobre 2011

Bipolarita'

Tra circa due mesi tornero’ in Italia, nella mia citta’ natale. Quale sara’ la mia prossima direzione in ambito professionale non lo so. Ma ho capito che il mio talento naturale e la mia personalita’ non trovano necessariamente applicazione nelle professioni che richiedono il mio titolo di studio. Cio’ non significa che sono destinata a trovare un lavoro che mi renda insoddisfatta, ma soltanto che la mia fonte di soddisfazione deriva da altri aspetti del lavoro che esulano dal lavoro in se’: l’ambiente, l’organizzazione, le persone con cui si lavora, la possibilita’ di esprimermi non soltanto come professionista, ma anche come persona. La situazione e’ analoga a quella scolastica: indipendentemente dal fatto che piaccia o meno studiare, si va a scuola volentieri, o per lo meno non lo si trova opprimente, se si va d’accordo con i compagni, anche soltanto con uno di essi. I voti accademici contano relativamente, cosi' come lo stipendio.
Anni per raggiungere la perfezione accademica a scapito dell’originalita’, perdendo di vista la mia personalita’. Forse non sono mai stata attaccata alla mia vita, disposta a sacrificarla per un ideale, un obiettivo o un desiderio. Le persone che mi amano o che mi hanno amato hanno sofferto per la mia vulnerabilita’ e instabilita’, ma anche per la mia testardaggine a voler seguire il mio istinto nonostante questo volesse dire allontanarmi da loro. I miei cambiamenti di rotta hanno fatto perdere la fiducia e la stima che i miei genitori, i miei amici e il mio ragazzo nutrivano nei miei confronti. E soltanto con gli anni e dopo avervi sofferto, mi sono resa conto di quanto nocivo sia stato il mio comportamento.
Ora ho capito i miei errori e non vorrei piu’ ripeterli. Cio’ vuol dire mediare tra le mie forze contrastanti: quella del controllo e quella dell’ebbrezza. Sono sempre passata da un estremo all’altro, disorientando le persone che frequentavo che spesso mi hanno detto: “Ma non sei la persona che conoscevo.” E invece si’ sono la stessa persona che pero’ adesso vuole esprimere l’altra parte finora oscura. Pero’ per muoversi da un polo all’altro si deve attraversare l'equatore. Se uno studente ha una condotta impeccabile e all'improvviso decide di tenerne una scorretta, insegnanti e compagni gradualmente cambieranno opinione perche' il cambiamento richiede tempo, non tanto per chi lo intraprende, ma per la collettivita' che deve adeguarsi ad esso. 
E se invece di passare da un polo all'altro mi fermassi all'equatore? Sarebbe tutto piu' semplice. Nessuno potrebbe biasimarmi, ma nemmeno lodarmi. Avrei una vita piu' semplice, piu' “normale”. Ma la normalita' e' un concetto relativo che varia nel tempo e che e' definito dalla societa'. Quindi se aspiro ad una vita “normale” vuol dire che la mia vita dipende dai limiti imposti dalla societa', mentre se aspiro ad una vita adatta a me vuol dire che la mia vita dipende dai limiti che mi impongo. E se i miei limiti coincidessero con quelli della societa'? Allora adatta e normale vorrebbero dire la stessa cosa e sarei fortunata. E se cosi' non fosse? Se la vita adatta a me fosse “anormale”? E se la vita adatta a me, come cervello pensante, non fosse adatta alla mia salute fisica e mentale?
Ho capito con l'esperienza che perseguire soltanto uno dei miei estremi contrasta con la mia definizione di vita adatta alla mia persona. Ho bisogno, per vivere, dei miei due estremi che vorrei coordinare armoniosamente. Negli ultimi anni ci ho provato. E' difficile, ma si tratta soltanto di rinunciare all'eccesso oppure eccedere da entrambe le parti nella stessa misura, cosi' da evitare al contempo il disavanzo e la mediocrita'.
Due sono le persone con le quali ho raggiunto l'apice dei miei due estremi contrastanti: la mia “meta'” di sesso femminile, una mia cara amica, e la mia “meta'” di sesso maschile, il mio convivente. La mia amica sa perfettamente fino a che punto sono capace di “perdere il controllo” e sublimare la mia pazzia, mentre il mio ragazzo sa perfettamente fino a che punto posso “mantenere il controllo” e raggiungere I miei obiettivi. Una ha ispirato la mia espressione “artistica”, l'irrazionalita', l'altro la mia espressione intellettuale e la razionalita'. Forse la paura di non sapere gestire simultaneamente le mie due forze mi ha indotto, in diverse fasi della mia vita, a privilegiare una ai danni dell'altra. Ma entrambe sono indispensabili per me e voglio conciliarle per non rinunciare a nessuna delle due.
Ho bisogno di stabilita' cosi' come di instabilita'. Ho bisogno di stancarmi cosi' come di riposarmi. Ho bisogno di lavoro cosi' come di vacanza. Ho bisogno di pensare cosi' come di agire. Ho bisogno di parlare cosi' come di tacere. Ho bisogno di ridere come di piangere. Ho bisogno della mia individualita' cosi' come della societa'. Ho bisogno di tutto cosi' come di nulla.

domenica 16 ottobre 2011

La trappola dell'indifferenza

La noia e l'indifferenza sono piu' pericolosi dell'odio o di qualsiasi altro sentimento negativo. Infatti e' molto facile abbandonarsi ad esse perche' non richiedono alcun comportamento attivo, mentre l'odio richiede azione sia per essere fomentato che per essere soffocato.
Se odiassi cio' che ho lo distruggerei. Ma se vi fossi indifferente non farei nulla, incurante e ignara dell'effetto negativo che cio' potrebbe comportare: l'abitudine all'indifferenza, ossia al vedere senza osservare, al sentire senza ascoltare, all'esistere senza vivere.
E' molto facile non contrastare la routine poiche' la ripetibilita' da' sicurezza e ci dispensa dal cambiamento, dal dover rinunciare a qualcosa che si ha gia' per ottenere qualcos'altro.
Se il mio contratto prevedesse un rinnovo automatico alla scadenza allora tacitamente mi lascerei intrappolare. Non dovrei fare nulla, soltanto stare zitta e continuare l'attivita' che sto gia' svolgendo. Nel mio caso invece il contratto termina alla scadenza senza alcun comportamento attivo da parte mia. Pero' di fatto il mio capo, poiche' ho svolto diligentemente il lavoro, si attiverebbe per il rinnovo, se decidessi di rimanere. In sostanza il mio assenso avrebbe lo stesso effetto del rinnovo automatico.
Ma il fatto di dover esprimere la mia volonta' e di essere responsabile della mia scelta mi impedisce di cadere nella trappola dell'indifferenza. Non posso continuare a rispondere “Non so, non ho ancora deciso”, altrimenti la mia indecisione comporterebbe la scelta del capo di trovare un'altra persona. 
Non ho mai espresso un giudizio, positivo o negativo, di cui non fossi convinta. Forse il fatto che dubito di rimanere e' segnale di indifferenza, ma nascondo i “dubbi sentimentali” verso il lavoro con le incertezze della vita e con le responsabilita' verso le mie sorelle.
Quando ho lasciato il mio impiego precedente la situazione era diversa: non potevo realmente scegliere il lavoro, perche' la priorita' di vivere insieme al mio convivente ne annullava la possibilita'.
Adesso invece il mio convivente e' con me. Sta per terminare i suoi impegni con l'universita' e dopo trovera' un'altra collocazione. Se fossi convinta di rimanere, cercherei di convincerlo a trovare lavoro a Londra. Le mie sorelle e la loro situazione delicata potrebbero veramente essere la ragione per farmi tornare. Ma se fossi veramente convinta di restare, cercherei una soluzione definitiva per risolvere le difficolta' familiari. In fondo, non posso continuare a vivere dipendendo da loro.
Ma nessun sentimento od obiettivo mi convincono a restare. Inoltre il mio ragazzo vorrebbe ritornare in Italia. E allora, non vedo perche' dovrei rimanere.
Non ho mai continuato a percorrere la stessa strada per inerzia e mi sono sempre chiesta che aspetto avessero i percorsi alternativi. Non ho mai abbracciato il proverbio “Chi lascia la vecchia per la nuova sa quel che perde e non sa quel che trova”. E' vero che si perdono l'abitudine e la sicurezza, ma e' anche vero che si trova sempre una nuova esperienza che, anche se si rivela negativa, ti cambia la vita e ti apre nuovi orizzonti. Nel mio caso, piu' che cambiare ritornerei alla vecchia. Ma cio' non vuol dire percorrere la stessa strada perche' cambierebbe il modo in cui la si guarda. 

mercoledì 12 ottobre 2011

La squadra

Downgrading, Bunga Bunga, Bavagli e tutti i balli mascherati del cavaliere senza faccia e senza vergogna. Altro che “Eyes wide shut”! Bisogna stare con gli occhi ben aperti. Ma dove? Su Internet? Sui giornali? Dove posso reperire informazioni utili per trovare la mia collocazione? Persino l'esistenza di Wikipedia e' minacciata. Se leggo le notizie penso: “Ma sono talmente masochista da considerare la possibilita' di un rientro nel Belpaese?” Che faccio se torno in Italia, visto che non ci sono possibilita' per far ricerca? Perche' non si avverte l'esigenza di innovazione? Perche' l'Italia e' ricca di risorse umane valide che scappano all'estero? Non ci sono fondi o non li si vuole impiegare?
In UK i fondi ci sono. Ma e' anche vero che gran parte di essi vengono reperiti tramite le numerose organizzazioni di beneficenza. Diverse spedizioni nel Kilimangiaro, Cina..., maratone, feste in maschera, vendite di oggetti vari hanno l'obiettivo di raccogliere denaro. Ed e' la gente comune a prendervi parte o a contribuire come puo'. Ma se ci sono soldi, non c'e' lo spazio fisico per conservarli: case larghe come latrine, strade strette e ingorgate, mezzi pubblici e uffici sovraffollati Pur essendo disordinata, talvolta inorridisco a dover accatastare libri e documenti a fianco del monitor del computer nel mio ufficio e a dover leggere un documento sotto la tastiera perche' la mia scrivania sembra un comodino. Eppure il lavoro c'e', pur privato dello spazio vitale. Lavoro senza terra.
In Italia invece ce ne sarebbe di spazio che spesso non si sfrutta. C’e’ la terra e ci sono le risorse che si preferisce lasciare disoccupate. Pero' non voglio credere che il Paese sia destinato ad andare in default. In fondo in tutta la mia vita ho sempre sentito lamentele e luoghi comuni: il lavoro non c'e', i giovani non hanno futuro, non possono sposarsi e avere figli. Ho trent'anni, sono precaria, non sono sposata e non ho figli. Ma tranne il fatto di avere trent'anni, il resto l'ho voluto io o l'ho accettato. Ho scelto di iscrivermi al dottorato di ricerca pur sapendo che la carriera futura sarebbe stata un'incognita. Se invece esemplificassi una situazione collettiva allora tutti i miei coetanei sarebbero nelle mie condizioni. E invece, per fortuna. la maggior parte di loro ha gia' una famiglia a carico e anche un lavoro stabile, indipendentemente dal titolo di studio. Un altro luogo comune e' che gli italiani non lavorano. Gli impiegati in ufficio passano le giornate a navigare su Internet per uso personale, mentre quelli degli sportelli pubblici stanno tutto il giorno alle macchinette del caffe' o fuori a fumare la sigaretta. Semmai si puo' dire che gli italiani sono poco produttivi perche' lavorano tanto. Otto/dieci ore in ufficio sono troppe e se per caso in una giornata si ha meno da fare non si puo' uscire prima senza essere penalizzati, con il risultato che si e' meno efficienti perche' stanchi e annoiati. E lavorare negli sportelli pubblici e' stressante. La gente arriva, non vuole aspettare, urla, insulta il dipendente che ha come unica valvola di sfogo la pausa caffe' o sigaretta.
In UK invece si ha piu' flessibilita' di gestire i propri impegni e gli impiegati degli sportelli lavorano in un ambiente molto piu' tranquillo visto che tutti si incolonnano ordinatamente in fila e aspettano il proprio turno senza scannarsi. Ma i problemi ci sono anche qua. Il lavoro flessibile vuol dire spesso comunicare soltanto via mail in maniera non sempre efficace poiche' non ci si vede e si deve aspettare ore per avere una risposta. Inoltre si tende ad organizzare il lavoro in base ai propri impegni e non alle reali esigenze dell'ufficio e delle altre persone che ci lavorano. Inoltre, il fatto che il Paese possieda fondi non vuol dire che li investa bene. Anche qua si scavano le fosse per poi riempirle. La verita' e' che, a differenza dell'Italia, si tende a sopprimere ogni manifestazione di malcontento, come lo hanno dimostrato i tumulti accaduti quest'estate. L'Inghilterra bruciava. Poliziotti in ogni angolo, pronti ad arrestare e a ristabilire subito la normalita'. Ma va tutto cosi' bene allora? Sara' vero che l'euro morira' prima della sterlina? Non posso crederlo. Non c'e' una nazione che ha sempre vinto nella storia e nemmeno una che ha sempre perso. L'Italia al momento e' in difficolta', ma questo non vuol dire che e' destinata al tracollo. E se veramente la situazione fosse cosi' grave allora stare qui ad aspettare di vedere la tragedia sui giornali sarebbe come restarsene a casa tranquilli sapendo che un genitore e' ricoverato gravemente in ospedale.
Non ho mai pensato di appartenere ad un luogo e nemmeno alla mia nazione. Ho odiato il mio Paese, cosi' come ho odiato la mia famiglia. Mi sono allontanata da esso, cosi' come mi sono resa indipendente dalla mia famiglia. Ma vedere il Governo che fa disastri fa lo stesso effetto che vedere la tua famiglia che non sa gestire l'economia familiare. E cosa dovrei fare disinteressarmene e rimanere comoda sulla sedia oppure cercare di fare il possibile per aiutare? E' proprio vero che non potrei rendermi utile?
Ritornare in Italia vorrebbe dire rinunciare alla vita tranquilla che sto conducendo per lottare e arrabbiarmi. Vorrebbe dire lavorare quasi il doppio per essere pagata la meta'. Vorrebbe dire vivere in un posto dove un titolo di studio elevato non viene valorizzato ne' riconosciuto in alcun modo. Ma vorrebbe anche dire giocare nella squadra per cui si tifa.

sabato 8 ottobre 2011

La descrizione di un viaggio

Tra il dire e il fare c'e' di mezzo il viaggiare. Di vacanze se ne parla, si discute, si passano ore a reperire su Internet informazioni sulla meta prescelta o da stabilire. Poi di vacanze si fruisce: si visitano le attrazioni turistiche, si frequentano i locali, gli alberghi, si affollano i negozi.
Ma cio' che consente la realizzazione dell' idea o progetto di vacanza e' il viaggio, inteso come spostamento fisico, ma anche “mentale”, tra il luogo di residenza e quello di villeggiatura.
Quando si viaggia si lasciano momentaneamente alle spalle i pensieri e le preoccupazioni abituali e subentra la curiosita' per il luogo da visitare. Dove dormiro' domani sera? Cosa visitero'? Fin dove arriveranno i miei piedi? La mia piu' che una vacanza e' un' avventura. Parto, ma non prenoto il pernottamento ne' organizzo a priori le singole giornate. Ho solo una guida turistica e di giorno in giorno decidero' cosa fare e dove andare. Quando mi trovo in una localita' diversa dalla mia dimora abituale mi dimentico del mio titolo di studio, del mio lavoro, delle mie responsabilita' quotidiane. I miei pensieri sono dettati soltanto dalle impressioni sul luogo, dall'ambiente che mi circonda, dalle mie esigenze fisiche e dal mio impulso e non sono condizionati dalle mie conoscenze o dalla mia posizione lavorativa. Pensieri che se non nascono come riflessioni o opinioni si traducono subito in azione e non vanno a popolare la lista delle cose da fare.
Io e il mio convivente abbiamo viaggiato parecchio in Europa, usufruendo a nostro tempo anche dell'offerta “InterRail” che ci consenti' di vedere diverse citta' e di viaggiare di notte come alternativa al pernottamento in albergo.
A Londra invece occorre prenotare sempre con largo anticipo anche i biglietti dei treni o dei bus per viaggi nazionali. Altrimenti si rischia di pagare delle cifre esorbitanti.
Pertanto circa due mesi prima della partenza, decidiamo di approfittare di un'offerta economica per il tragitto in bus Londra – Bruxelles. Il risparmio e' notevole in confronto al comodo e veloce Eurostar. Ma occorre viaggiare di notte. In fondo a me piace viaggiare di notte e dormire in posti diversi dal comodo letto. Quando viaggio cerco l'evasione, non la comodita' e me lo posso permettere, non avendo ancora raggiunto l'eta' fisica o cerebrale in cui non ci si puo' muovere di casa senza rinunciare ai propri agi o abitudini o addirittura senza pretenderne di maggiori.
Per me viaggio vuol dire transizione o scoperta. Come posso lasciarmi trasportare dai luoghi, dalle strade, dall'ambiente, dalle novita', da nuove idee e riflessioni che ne possono scaturire se mantengo gli stessi comfort e abitudini di casa?
In effetti questo viaggio e' stato particolarmente insolito. L'autista esordisce: “I bagagli diretti in Germania da questa parte, quelli diretti in Belgio dall'altra”. “Ma scusi, non ferma anche in Francia?”, chiede un passeggero. “Si', si” risponde l'autista, ma non gli dice dove deve mettere la valigia. Dal modo di parlare e dai comportamenti capisco che l'autista non e' inglese. Infatti saliamo a bordo e parte deciso senza preamboli come “Benvenuti signori e signore ...”. A Londra c'e' traffico, ma l'autista sfrutta tutte le occasioni per accelerare e sorpassare. Dopo quasi due ore si ferma e dice: “Facciamo dieci minuti di pausa per un caffe' o cosa volete”. Tutti rientrano in tempo, ma lui riparte senza nemmeno controllare. Mi tolgo le scarpe e mi riposo un po', reduce di una giornata lavorativa. Ad un certo punto sento: “OK, Let's go”. Siamo arrivati alla dogana. Occorre scendere per esibire i documenti. Mi affretto a mettere le scarpe e a superare I controlli. Quando rientro a bordo, freno l'intenzione dell'autista di ripartire senza il mio convivente: “Guardi che c'e' ancora una persona dentro”. Gli dico. Arrivati a Dover, prendiamo il traghetto per novanta minuti. L'autista incita a sbrigarsi a rientrare non appena finisce la navigazione. L'autista lascia il microfono acceso per alcuni minuti dopo questo annuncio ed i successivi. “Che tipo buffo”, penso.
E' notte. Il mare e' bello, anche se tira il vento. Tutti rientramo in fretta non appena giunti a Calais. Ma dell'autista nessuna traccia. Stiamo tutti fuori per un paio di minuti. I passeggeri di altri bus sono gia' tutti di nuovo a bordo. I bus a fianco suonano. Ricompare l'autista. Si era addormentato sul bus. Tutti risalgono, senza fare una piega. Se fossi arrabbiata con l'autista glielo direi espressamente. Ma in fondo sono divertita, anche se non mi fido troppo di lui e spero ci porti sani e salvi a destinazione. Dopo mezz'ora ferma l'autobus e scende a far benzina e a sgranchirsi le gambe. Quando riparte, riesco a dormire per un'ora o piu', finche' ad un certo punto avverto una frenata improvvisa che fa urlare una persona. Dopo un po' l'autista avverte i passeggeri dell'arrivo a Bruxelles. E' in orario. Sono le sei meno un quarto del mattino, ma sembra notte: nessun bar e' aperto. Ci rechiamo in diversi ostelli, ma nessuno ha disponibilita' di camere per la notte da venire.
Grazie all'ente del turismo troviamo sistemazione in un albergo che, pur essendo quattro stelle, offre per la notte una camera doppia a prezzi davvero competitivi.
Per le notti successive troviamo sistemazione in due ostelli diversi. Preferisco l'ambiente dell'ostello, dove mi sento piu' a mio agio e che mi incuriosisce di piu' per la sua varieta' e le persone che lo frequentano. Invece l' albergo a quattro stelle e' spesso frequentato soltanto da gente “addobbata” in uniforme, giacca e cravatta o tailleur e tacchi a spillo, che pur in vacanza sembrano recarsi a lavoro.
Quando sono in vacanza, la mia unica pretesa e' non annoiarmi. Ma in fondo la noia e' conseguenza della tranquillita' e del vivere agiatamente, potendosi permettere tutto. Se non fosse pericoloso, dormirei in stazione. Cosi' almeno capirei veramente cosa significa vivere senza pretese.
Bruxelles e' una bella citta', ricca di opere artistiche. Il fatto di essere bilingue, rende gli abitanti molto flessibili culturalmente e linguisticamente. Nei negozi si parlano correttamente anche altre lingue. Inoltre le persone non sono aliene o distanti come a Londra. Ti guardano in faccia quando cammini. Anche la vicina Gand, che abbiamo visitato e' molto bella.
Tre giorni vissuti intensamente, camminando e fermandosi solo quando lo decidono le proprie gambe.
Ma finita la vacanza, c'e' il viaggio di ritorno che riporta alla normalita' della propria routine. In realta' il viaggio di ritorno non e' stato per nulla ordinario. Abbiamo viaggiato con lo stesso autista del viaggio di andata. Si e' presentato subito vestito senza uniforme con un bicchiere in mano. Saliti a bordo attacca il navigatore. Poi a, differenza dell'andata, ci annuncia il benvenuto, pur sbagliando a dire la destinazione. Ma il suo sbaglio voleva essere uno scherzo, dice. Stavolta sembra molto loquace. Non sta zitto un attimo. Ride e scherza ad alta voce con due ragazze con le quali sembra flirtare. Dice che non dorme da giorni e racconta tutti i suoi viaggi e le politiche della compagnia dei bus dove lavora. Sono stanchissima, voglio riposare. Ma non riesco. Sono incuriosita dai suoi discorsi e dal suo comportamento non troppo professionale. Anche le ragazze vorrebbero riposare e lui le incoraggia a stare sveglie. Arriviamo alla frontiera. Stavolta dobbiamo fare il doppio controllo dei documenti: quello francese e quello inglese. Al controllo francese, il poliziotto si accanisce con la carta di identita' del mio ragazzo. Non si capisce qual'e' il problema. Sembra non riconoscerlo dalla foto oppure soltanto nutre pregiudizi riguardo al suo nome francese, cognome spagnolo, nazionalita' italiana e destinazione inglese. Vedendo la situazione, mi allineo a far la coda nell'altro sportello. Il tizio se ne accorge e, al mio turno, ferma l'altro poliziotto che mi stava gia' facendo passare. Ci chiudono per qualche minuto in uno stanzino. “Cosa succede? Qual e' il problema?” chiedo. “Solo controlli”. Sono agitata solo perche' ho paura che l'autista se ne vada senza di noi. “L'autista ci aspetta? Me lo garantisce?”. “Si'.” Mi risponde. Allora cerco di calmarmi. Vedo che continuano a passarsi tra le mani i nostri documenti, come se si divertissero. Dopo un po' arrivano con un foglio illeggibile perche' stampato da una stampante povera di inchiostro o toner. “Firma”. Mi dicono. “Non leggo”, rispondo. E' un foglio in italiano. Sembra quasi una dichiarazione, ma non si legge bene. “Firma”. “Abbiate pazienza, non riesco a leggere”. Poi mi decido a firmare perche' capisco che vogliono solo verificare la firma del documento. Ma non potevano farmi firmare un foglio bianco?. Penso. Firmo. Non basta. Mi fanno firmare un'altra volta. Poi mi chiedono il codice fiscale. Mi trema la mano. “Guarda, e' in panico”, dice il poliziotto all'altro. “Veramente sono stanca, non ho chiuso occhio” rispondo. Poi uno di loro mi guarda bene, confrontando la mia faccia con la foto nel documento. “Ero piu' bella, lo so. Ero appena uscita dal parrucchiere.” Gli rispondo. “Vai a Londra? Sei italiana? Parli francese?”. “Conosco il francese, ma non sono abituata a parlarlo. Oramai mi viene naturale parlare in inglese con gli stranieri. Senta, tra circa quattro ore devo andare a lavoro. Lavoro in un ospedale a Londra”. Tiro fuori il mio badge con la foto. Allora si convince. Ci lascia andare. Ritorniamo sul bus. Prendiamo il traghetto. Non ho dormito per nulla, svegliandomi con caffe' e musica ad alto volume.
Torno a Londra e al lavoro. “Allora pensi di chiedere il rinnovo del contratto?” Mi chiede il capo. Ma ne' il viaggio ne' il sonno hanno ancora portato consiglio.