mercoledì 13 luglio 2011

La nuvola da ragioniere

Ricercando rifugio nell’astrazione, ma non dimenticandomi che in fondo avevo studiato ragioneria, decisi di iscrivermi ad un corso di laurea all’epoca nuovo di zecca e anomalo per la facolta’ di Economia della mia citta’, basato principalmente sulla statistica e sulla matematica applicata ai mercati finanziari e assicurativi.
Gli iscritti al corso sarebbero stati i primi ad esordire. Lo percepii quasi come un “segno del destino”: il corso aspettava me per iniziare e sarei stata tra i primi laureati in quel settore nella mia citta’.
Avrei dovuto faticare, studiando argomenti nuovi e forse all’inizio avrei avuto un po’ di difficolta’, visto che non possedevo le stesse conoscenze di base matematica degli studenti provenienti dal liceo.
Ma ero pronta ad accettare la sfida e avevo voglia di lasciarmi alle spalle “la nuvola da ragioniere” di cui comunque ero responsabile.  
Cosi’ con spirito di avventura, ma con intento di dedizione, iniziai il primo anno di universita’.
E non fu per nulla facile, ma non perche’ avessi difficolta’ nell’apprendimento e nello studio individuale, che erano invece i miei punti di forza, ma perche’ faticavo a gestire le mie emozioni.
Dovevo assolutamente cambiare atteggiamento, altrimenti non avrei mai conseguito il titolo.
L’atteggiamento antipatico da prima della classe, in un ambiente universitario, non aveva piu’ senso e, se non fosse per la natura elitaria del corso di laurea, che contava un esiguo numero di iscritti, non avrebbe neanche avuto senso essere la prima della classe, dal momento che all’Universita’ le classi non esistono.
Il nostro corso invece era un caso particolare. Presentava i vantaggi sia della scuola che dell’Universita’. Infatti, essendo in pochi, ci conoscevamo tutti e i professori ci trattavano da studenti e non da semplici anonime matricole. Il primo anno il professore che aveva “fondato” il nostro corso organizzo’ periodicamente degli incontri in cui “faceva l’appello” come a scuola, per conoscerci e monitorare  la nostra partecipazione.
D’altra parte usufruivamo di tutti i vantaggi dell’ambiente universitario: il “quarto d’ora accademico” di ritardo per l’inizio delle lezioni, la liberta’ di frequenza delle lezioni, anche se di fatto partecipare aveva i suoi vantaggi. Inoltre l’ambiente universitario e’ molto piu’ rilassante della scuola: nessuna tensione “sociale”, nessun protagonismo od ostruzionismo ... Si seguono le lezioni e se non se ne ha voglia se ne sta a casa senza suscitare clamore. Gli esami sono come dei treni: fissati ad intervalli regolari. Lo studente decide quando partire e se perde la coincidenza ne e’ responsabile in prima persona.
Nessuna critica ai fini sociali  e nessuna accusa da parte dei professori. Quel che conta alla fine e’ il risultato e non ammuffire o meno in aula.
Per quanto cominciai a rendermi conto che il mio comportamento nel triennio delle superiori era stato ridicolarmente astioso, avevo comunque paura ad abbandonare una maschera che seppur odiata, mi dava sicurezza.
Pertanto, ero restia ad abbandonare l’ideale del senso del sacrificio e dell’astinenza per il conseguimento dei risultati. Quindi non perdevo una lezione, studiavo sempre giorno per giorno e prima dell’esame ripassavo a nausea, anche perche’ in fondo mi sentivo insicura delle mie capacita’, soprattutto di quelle matematiche.
Ricordo che durante i corsi di insegnamento ero piuttosto serena e tranquilla, anche se temevo il momento dell’esame, dove in una o due ore  veniva valutato il frutto di mesi di studio. Vissi i primi esami di matematica con una tale ansia da prestazione da non riuscire quasi a scrivere per il tremore. E non riuscii a dimostrare la qualita’ del mio lavoro. Pensai quasi di abbandonare gli studi per l’insostenibilita’ dello stress. Ma non potevo rinunciare soltanto per codardia. Se il problema era l’emotivita’, dovevo affrontarla e non scappare. Inoltre avevo come unico obiettivo lo studio e le materie d’esame mi interessavano. Come avrei potuto vivere con la frustrazione se avessi rinunciato agli studi soltanto perche’ era piu’ comodo non stressarsi? Non avrebbe la frustrazione causato uno stress ancora piu’ pericoloso?
Chiesi anche aiuto ad uno psicologo, anche se lo consultai per pochissimo tempo. Infatti avevo soltanto bisogno di parlare, di sfogarmi. Raccontare le mie vicissitudini a qualcuno che mi ascoltasse senza giudicarmi o darmi consigli derivanti dal luogo comune.
Inoltre avevo bisogno di un po’ di incoraggiamento.
La prima votazione lodevole per un esame di matematica, dopo un tentativo fallito, mi diede la motivazione per proseguire. “Ora ho una dignita’ da mantenere”, pensavo.
Passo dopo passo, migliorai il rapporto con me stessa e la mia emotivita’ e di conseguenza, mi comportai con l’Altro in maniera piu’ socievole e aperta al dialogo, anche se in fondo la paura di intaccare la mia intransigenza, spesso mi induceva a mantenere le distanze, evitando di concedere troppa confidenza.
Ma se stavo imparando a convivere con me stessa e a gestire la mia vita in maniera piu’ pacata, evitando di essere la causa  delle mie sofferenze , presto avrei dovuto imparare anche a convivere con le sciagure, che invece richiedevano  placida rassegnazione.
La nuvola atmosferica si prospettava seriamente minacciosa. 

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