mercoledì 28 settembre 2011

L'oceano delle alternative

Londra e’ talmente piena di possibilita’ da confonderti. Diverse offerte di lavoro, diverse opportunita’ di svago, intrattenimento, incontri. Bisogna sempre stare all’erta in Internet, leggere continuamente gli annunci e le offerte, per non lasciarsi sfuggire nulla.
In realta’ cerco un modo costruttivo per impiegare il mio tempo libero, per “integrarmi” alla comunita’ locale e migliorare la mia confidenza con una lingua che non padroneggio come quella italiana.
Cerco un’attivita’ che mi faccia sentire personalmente legata alla citta’ e non solo contrattualmente, come nel lavoro. Un’attivita’ che mi dia la motivazione per restare. Eppure mi perdo, nell’oceano delle alternative. Vaglio diverse opportunita’ di volontariato o svago, per acquisire nuove competenze ed esperienze che potrebbero essere utili anche per un eventuale cambiamento professionale. Ma ogni proposta richiede un impegno costante di un certo numero di ore alla settimana per un determinato numero di mesi. Vorrei recarmi di persona dagli organizzatori e chiedere informazioni personalizzate per capire se il ruolo e’ adatto a me. Infatti le informazioni fornite nell’annuncio sono precise, dettagliate e non lasciano spazio al malinteso, ma faccio fatica ad inquadrarmi in qualsiasi descrizione di schema, profilo, ruolo. Pero’ in UK l’approccio “face to face” e’ deludente. Si crede che tutto cio’ che occorre sapere sia reperibile sul web e convertibile in carta. Pertanto se ti presenti a chiedere pensano che sei tecnologicamente sottosviluppato ed allora ti stampano l’offerta e la domanda di candidatura per iscritto (application form)  in cui occorre fornire le proprie generalita’, “vocazioni” e referenze. Poi aspetti giorni o settimane per ricevere una risposta ed eventualmente fare un colloquio.
Avere un “ruolo sociale”, anche se a titolo gratuito, richiede superare selezioni analoghe a quelle di una posizione remunerata.
Il mio spirito d’iniziativa e’ stato spesso frenato dalla “carta” o meglio dal documento elettronico da compilare. Sono una persona impaziente che vuole soddisfare immediatamente i suoi desideri, ma che e’ anche capace di reprimerli per mezzo della ragione. “Ma no, lasciamo stare. In fondo quando torno dal lavoro non ho voglia di far nulla e il fine settimana e’ sempre corto...”.
Pertanto considerare tutte le opportunita’ equivale di fatto a non valutarne alcuna. Sul “tutto” il “niente” prevale.
Ma la curiosita’ verso la citta’ rimane. Allora usufruisco di attivita’ ricreative gratuite, sponsorizzate dal luogo o dal quartiere in cui lavoro o da quello in cui vivo, dove ci si ritrova, per esempio, per partecipare a camminate guidate di decine di chilometri, in zone di Londra che il turista, ma anche il residente spesso ignorano. In tali occasioni si incontrano diverse persone di diverse nazionalita’. E’ divertente chiacchierare per farsi un’idea della loro esperienza nella citta’. Ma finita la passeggiata, ci si saluta e ognuno ritorna al suo “rifugio”. E’ difficile stabilire nuovi legami in una citta’ straniera. Sembra tutto cosi’ effimero, o forse sono io che mi sento fuggevole. Uso la citta’, sfrutto i servizi offerti. Ma non offro nulla in cambio. Nulla, a parte il lavoro previsto nel contratto.
Se vivessi da sola e non fossi fidanzata sarei piu’ motivata ad integrarmi o a confondermi nell’ebbrezza e nella promiscuita’ londinese?
A volte vorrei non avere nessun legame, neanche familiare, e farmi trasportare la’ dove mi porta il vento.
Sono i legami pero’ che vincolano ad un luogo particolare. Il mio convivente e’ italiano, le mie sorelle e i miei amici pure. Per quanto io possa divertirmi e stare bene a Londra il mio pensiero si rivolge sempre alle persone che pur essendo lontane sono sempre a me vicine. Cio’ che ci lega e’ l’affetto oppure la complicita’. Se tornassi in Italia, nella mia citta’ natale, forse mi sentirei quasi soffocata dalla provincialita’ che spesso ho criticato. Non potrei avere le stesse possibilita’ e le stesse prospettive di carriera. Non potrei soddisfare la mia curiosita’ per la varieta’ del cibo proveniente da tutto il mondo e per la diversita’ culturale. Ma potrei ancora essere d’aiuto alle mie sorelle, potrei frequentare i miei cari amici, ristrutturare la mia casa e forse “stabilizzarmi”.
La propria terra va coltivata con tutte le cure necessarie altrimenti e’ meglio abbandonarla per sempre. In ogni caso, per quanto ci si possa annoiare tra le mura domestiche, la casa e’ l’unico posto dove si vuole ritornare, l’unico luogo che ci fa credere di possedere qualcosa di stabile.

venerdì 23 settembre 2011

Precarieta'

Tra pochi mesi “ scadro’ ” a Londra, o forse Londra “ scadra’ ” a me. Spesso e’ reciproco: ti assumono per un anno, con possibilita’ di rinnovo. Poi effettivamente i fondi ci sono e anche le prospettive future, ma nella tua mente e’ subentrata la scadenza. Ti dicono un anno e quindi ti prepari psicologicamente: affitti la casa per un anno, ti vincoli a pagare le bollette per quel periodo, ti concentri su obiettivi annuali che poi raggiungi e con essi si conclude anche il tuo contributo lavorativo. “Consumare preferibilmente entro (vedi contratto di assunzione)”. Tutto cio’ che potevi guadagnare l’hai introitato e cosi’ ha fatto l’azienda, con il risultato di sentirti un consumatore un po’ consumato. 
Con il contratto a tempo indeterminato invece la scadenza e’ molto piu’ naturale: finche’ c’e’ vita, da parte tua e dell’azienda oppure finche’ entrambe vi sopportate.
Non ho mai ricevuto una proposta senza termine prestabilito. Sara’ forse perche’ non cerco la stabilita’ o perche’ essa e’ diventata un lusso che pochi possono permettersi?
Il capo mi rassicura che non ci sono problemi ad ottenere il rinnovo del contratto, ma piuttosto sono io che devo decidere se chiederlo o meno.  Pero’ obietto che sulla carta nessuna proroga e’ menzionata. In realta’ mi fido delle sue parole, ma in fondo vorrei trovare una giustificazione per concludere l’esperienza, per delegare a fattori esterni la responsabilita’ della mia decisione.
In effetti non ho mai lavorato piu’ di un anno nello stesso posto, tranne all’Universita’ dove la scadenza era triennale e vincolata all’ottenimento del titolo di dottore di ricerca. Eppure mi sembrerebbe irrazionale rinunciare a proseguire l’attuale carriera. Non posso certamente lamentarmi della mia posizione: e’ un lavoro che valorizza le mie qualifiche ed e’ anche decentemente remunerato. Inoltre, al momento, non richiede neanche troppa fatica.
Sembra proprio la giusta ricompensa per le difficolta’ e i sacrifici fatti in passato. E allora, perche’ dubito di rimanere? Il lavoro che faccio e’ individuale. Sono l’unica statistica della terapia intensiva. Non ho confronto con i pari, ma solo con i medici ad alto livello o, di recente, con una “stagista”. L’aspetto positivo e’ l’autonomia che ho nell’organizzazione del mio lavoro, subordinatamente al carico stabilito dal capo e alle scadenze fissate dalle conferenze, riunioni, proposte di articoli a cui pero’ non partecipo anche se ottengo il riconoscimento del merito nelle pubblicazioni. Il lato negativo e’ che non ho modo di discutere dei risultati delle mie analisi statistiche con esperti in biostatistica, ma soltanto con i medici che si preoccupano piu’ dei numeri in se’ e della loro rilevanza clinica piuttosto che del processo che li ha generati.
E’ vero che ogni azienda ha i suoi problemi ed ogni lavoro presenta i suoi lati negativi, ma il punto fondamentale e’ che non sono attaccata a cio’ che faccio. Anzi, spesso me ne sento distaccata. Ed e’ per questo che non mi sembrerebbe ragionevole rifiutare una nuova proposta di assunzione, ma neanche accettarla. Penso di non aver nulla da perdere, se non la busta paga, ma nemmeno da guadagnare, oltre al reddito. Infatti nessuno mi insegna il mestiere, ma sono io che devo imparare da sola cio’ che non conosco e che e’ utile per il lavoro che devo fare.  Da un lato mi alletta, ma sento la mancanza di un esperto di riferimento con cui potermi relazionare e confrontare. Inoltre vorrei lavorare di piu' con le persone, elaborare idee, sviluppare concetti piuttosto che limitarmi ad analizzare dati numerici, elaborare tabelle e sviluppare modelli statistici.
A volte penso che mi sentirei piu' utile e sarei piu' soddisfatta se potessi aiutare i pazienti in ospedale, anziche' imbambolarmi davanti al computer a pensare e a produrre risultati che non si sa in quale modo contribuiscano a migliorare la vita dei degenti.
Forse il mio atteggiamento deriva soltanto dalla curiosita' per le novita', per l'incognito, per le strade non intraprese, per le mansioni di cui non sono competente.
Sarebbe tutto piu’ semplice se potessi godere di cio' che ho e non voler abbandonarlo per cercare di conquistare quello che non ho o per seguire i miei “spiriti animali”.
Ma non voglio rimanere ingabbiata in cio’ che ho realizzato finora. Si costruisce una rete per pescare, ma non per caderci dentro. Ho studiato per avere piu’ possibilita’, per essere libera di scegliere, ma non per individuare un terreno dentro il quale infossarmi. Ho studiato anche per essere libera di cambiare o migliorare.
Il cambiamento richiede mettere in discussione cio’ che si ha e vincere l'inerzia dovuta all'abitudine.
La precarieta’ ha il suo lato positivo: induce a pensare che nulla e’ duraturo, che ogni progetto ha un termine, che non si possiede nulla al di la’ delle proprie capacita’, l’unico vero patrimonio che consente la propria sopravvivenza, una volta conclusasi un’esperienza lavorativa. 
Piu’ ci si concentra su cio’ che si ha e piu’ ci si dimentica di cio’ che si e’. Ma allora chi sono? Rimarro’ a Londra o cambiero’ destinazione? 

lunedì 19 settembre 2011

Il Blog

Voglia di esprimermi. Raccontare. Dare forma al mio libero pensiero. Far riflettere e al contempo enucleare la mia filosofia, ma anche comunicare.
I libri a volte cambiano la vita. Leggi qualcosa che ti apre nuove prospettive, che ti mostra cio' che non hai ancora visto, che ti porta a conclusioni a cui da solo non saresti arrivato.
Vorrei scrivere un libro. Un libro che riflette il mio pensiero. Un libro che nasce da me e non dalle mie conoscenze scolastiche, accademiche o professionali.
Ma oltre a descrivere il proprio pensiero, occorre anche circostanziarlo, capirne le origini. E la fonte del mio pensiero e' la mia vita: le esperienze accadute, le persone incontrate.
Il mio pensiero non nasce dalle analisi di dati numerici per cui sono pagata. Il mio lavoro esprime soltanto le mie conoscenze e il mio modo di metterle assieme e padroneggiarle. E tale modo e' subordinato alle richieste che vengono dal mio datore di lavoro. Tali richieste non devono andare contro i miei valori, i miei ideali e i miei principi, altrimenti finirei per odiare il lavoro e quindi me stessa.
Non odio il mio lavoro, altrimenti lo lascerei subito, perche' la mia vita e' piu' importante. Ma nemmeno mi sento troppo coinvolta in cio' che faccio.
Forse il lavoro non mi esprime pienamente? Forse e' utopia voler fare un lavoro che sia lo specchio della propria anima ed e' quindi aberrante pensare che vita e lavoro siano due facce della stessa medaglia? Ma se e' utopia, allora perche' si lavora piu' ore di quelle in cui ci si ferma a pensare? E' utopia vivere?
La ragione della mancanza di sentimenti verso il mio attuale lavoro e' forse dovuta al fatto che empatizzo il comportamento inglese. I "veri" inglesi non esprimono le loro emozioni neanche verso il lavoro. Nessuno sembra che odi il suo impiego, ma nessuno dimostra neanche entusiasmo, passione verso di esso.
Quando ci sono molti progetti e studi in corso da terminare, il lavoro diventa il mio primo pensiero, ma forse soltanto perche' mi sottrae energie mentali per altri pensieri e mi stanca intellettualmente, anche se fisicamente ne risento, stando ore ed ore seduta davanti alla scrivania. E per riequilibrare mente e corpo, durante il tempo libero sento l'esigenza di stancarmi fisicamente. E piu' la mente si affatica, piu' il corpo deve stremarsi. "Prima o poi mi sa che vado a spaccare legna nel week end", penso.
Lavorare, lavorare in continuazione e' il solo modo per annientare il proprio pensiero. Di giorno e in settimana occupare la mente, mentre di notte e nel week end occupare il corpo. Non dormire mai, per non sentire il vuoto esistenziale.
Ma quando nel mio lavoro cominciarono ad esserci tempi morti, ecco che esplosero i pensieri, repressi dalla stanchezza e nati dalla noia. Pensieri che e' pericoloso trascurare.
"Se fossi in te uscirei prima oggi". Anche il capo mi incita. Ed allora che senso ha continuare a far finta di lavorare se non c'e' da fare per oggi? Il lato positivo e' che in Inghilterra l'individualità e' un valore.
Passeggio lungo il Tamigi. Ma cosa mi piace veramente fare da sola, nella mia individualita'?
Il mio ragazzo si appassiona di giochi matematici. Risolve problemi per diletto, problemi che spesso muoiono sul suo computer, che non escono di casa, che nessun altro potra' leggere.
Ma io non riesco ad appassionarmi a qualcosa che nasce da me e muore dentro di me, oppure che rimane isolato tra le mura domestiche. Sento l'esigenza di spalancare la porta e fare uscire la mia espressione. Da piccola, quando non sapevo con chi giocare o cosa fare, uscivo in balcone a cantare a squarciagola ed ero contenta, finche' mio padre o la vicina di casa non protestavano.
La libertà e' il valore per me piu' importante e pertanto rispetto anche quella degli altri. Non voglio fare qualcosa che disturba o nuoce al vicino. Ma sono veramente soddisfatta quando faccio qualcosa che gli altri apprezzano.
Se lavoro e gli altri mi trasmettono il loro apprezzamento allora riesco ad amare il mio lavoro ed essere motivata.
Al momento, nessuno si lamenta di come svolgo il lavoro attuale, ma neanche mi sprona a farlo meglio.
La mediocrità e' il risultato dell'impassibilità. Come si puo' mirare a fare un mestiere bene senza infervorirsi?
Una persona che mira solo alla sopravvivenza non puo' che ottenere solo risultati mediocri, senza infamia e senza lode.
Ma io voglio vivere, non solo sopravvivere.
A differenza delle mie passate convinzioni, realizzo che in fondo sono capace ad accettare la mediocrità nel lavoro. In compenso sento l'esigenza di esprimermi nel tempo libero, come in effetti facevo quando ero ragazzina.
Sopravvivere al lavoro/scuola, ma "vivere" e distinguersi in attività sociali o ricreative oppure "vivere" e distinguersi in ambito lavorativo/scolastico, ma avere una vita privata ordinaria, mediocre, qualunque. In entrambe i casi, mi sono distinta.
Il qualunquismo esprime una persona che non ambisce ad emergere in nessun ambito. Il qualunquismo e' la scelta migliore per una persona convenzionale, ma non per me.
Non rivelo me stessa se resto in ombra. Non sono felice se passo inosservata, se non catturo  l'attenzione dell'Altro o se non comunico alcun messaggio o rivelo i miei sentimenti.
Aspiro a fare qualcosa che non sia ordinario. Ed e' per questo che ho mirato alla perfezione o all'espressione creativa.
Ma ora mi rendo conto che e' piu' forte l'espressione creativa. Infatti la perfezione mira a migliorare qualcosa che esiste gia' mentre io vorrei creare qualcosa di mio, di originale.
Vorrei scrivere un libro, ma un blog puo' piu' facilmente permettermi di raggiungere il mio scopo: manifestare il mio pensiero che vuole esistere al di la' di me stessa.

giovedì 15 settembre 2011

L' "etichetta inglese"

Lavorando a Londra, si diventa sensibili alle differenze culturali. Aldilà del modo di vestirsi, della carnagione o delle fattezze fisiche, si nota nettamente la differenza tra un inglese “autentico”, nativo, ed uno “taroccato” (con tutto il rispetto per le signore sottomarche).
A fornirmi un esempio e’ il mio attuale capo che, per quanto risieda da anni a Londra ed occupi una posizione professionale rilevante, non ha l’atteggiamento ed i modi di fare di un tipico inglese. Con lui infatti e’ molto più facile parlare e mi trovo a mio agio. La schiettezza e la spontaneità invece non si addicono certamente all’ “etichetta inglese”. Gli inglesi non parlano mai in maniera diretta, ma piuttosto subdola.
Condivido l’ufficio con persone che hanno diverse origini. Tra di esse, spicca una signora inglese che e’ cortese, non si esprime mai senza mezzi termini, non lascia trasparire i suoi veri sentimenti e la sua vera opinione, interagisce con gli altri seguendo un certo rituale, ripetendo sempre le stesse frasi in occasioni simili, come se recitasse un copione. Il suo modo di socializzare e’ forzato. Segue delle regole particolari, non pone mai domande dirette ed in generale non tende a far domande all’interlocutore.
Usa spesso l’ironia e la falsa modestia che solo un vero inglese possono capire e condividere. Quando parla con altri “inglesi autentici”, usa un tono diverso, parlando quasi in codice e, a volte, bisbigliando all’orecchio chissà quali segreti o pettegolezzi.  Non contraddice mai nessuno, se non indirettamente. Infatti l’”etichetta inglese” impone di assecondare sempre l’interlocutore. “Nice day, isn’it?” (“Bella giornata, non trovi?”) mi chiese. “Mmmh, yesterday was better” (“Mmmh, ieri era migliore”) risposi. Ci fu silenzio. Non mi rivolse più la parola finché non lo impose la necessità. Infatti avevo violato un tabù. “Nice day, isn’it?” non esprime un’ osservazione oggettiva o soggettiva sulle condizioni atmosferiche, ma e’ un “preliminare” , un modo per rompere il ghiaccio, per iniziare un discorso. La mia risposta, pur essendo razionale, e’ stata interpretata quasi come un’offesa, un insulto al quieto vivere, alla cortesia e all’accondiscendenza. Ma cosa dovevo risponderle che la giornata era bella se c’era un sole fiacco? Perché non dialogare esprimendo le proprie vere impressioni? Spesso sento dire: “It’s warm today, isn’it?” (“Fa caldo oggi, non trovi?”). E’ davvero forte la tentazione di rispondere l’equivalente in inglese dell’espressione: “E lo chiami caldo questo? Sei mai stato in Italia?” Ma rispondo: “Yes, isn’it?”. Poi però sto zitta, assorta nei miei pensieri. Non ho voglia di parlare: ho violato uno dei miei tabù: la franchezza. Si può stare al gioco, abituarsi, ma si perde l’interesse verso l’Altro, ci si sente distaccati, con indosso una maschera. E’ come vedere se stessi rispondere senza intervenire, limitandosi soltanto a schiacciare il pulsante della risposta automatica: “Yes, isn’it?”. Le altre persone del mio ufficio, non inglesi autentici, si sono adattate al quieto vivere, ma si vede che non lo esaltano e non ne sono fautori. Sono pacati, educati, ma non con la cortesia inglese, che spesso è solo ipocrisia. Nessuno però osa parlare in termini diretti. Nessuno osa dire: “Possiamo spegnere il condizionatore perché ho freddo”. Il freddo passa se l’altro dice: “It’s warm, isn’it?” (“Fa caldo, non trovi?”) “Yes, it is”. Mai contraddire! Piuttosto meglio morire di freddo. Si risparmierebbe energia elettrica in Italia se le temperature estive fossero ai livelli londinesi. E invece a Londra si accende l’aria condizionata persino se la temperatura e’ di ventitre gradi. Forse si ha paura che le teste diventino “calde”.
Gli inglesi sono flemmatici, rimangono impassibili di fronte ad ogni situazione. Ciò implica anche esprimersi attenuando sia gli aspetti negativi che quelli positivi di una condizione o situazione. Il loro “Not too bad” (“Non troppo male”) corrisponde al mio “Bene” mentre “We have some problems we need to fix” (”Abbiamo qualche problema da risolvere”) corrisponde al mio “La situazione e’ un disastro”.
Avevo da poco iniziato a lavorare quando due persone, che non conoscevo, entrarono nel mio ufficio ad utilizzare uno dei computer momentaneamente disponibili. Parlavano ad alta voce e ridevano, forse approfittando dell’assenza di due mie colleghe di stanza. Dovevo concentrarmi a finire un lavoro e percepii che anche l’altro mio collega sembrava infastidito dalla loro presenza. Mi venne spontaneo chiedere loro se potevano evitare di parlare ad alta voce perché avevo bisogno di concentrazione. Mi lanciarono di sfuggita occhiate malevoli, ma rimasero impassibili. Uscirono. Non dissero nulla, ignorandomi, ma in fondo considerandomi sgarbata. Nessuno protesta se non si rispettano le regole dell’etichetta inglese. Ma se si vuole vivere e non essere di fatto discriminati bisogna adeguarsi. Ciò non tollera l’abbandono della propria individualità.
Infatti, benché le regole sociali inglesi siano piuttosto repressive (ci si ubriaca anche seguendo l‘etichetta), gli inglesi valorizzano la propria individualità. Molte mode stravaganti nascono infatti in Inghilterra. Inoltre per gli inglesi il tempo libero e l’impegno in attività extralavorative è quasi sacro. A qualsiasi livello professionale, a meno che non ci siano situazioni di vera necessità, ben pochi rinunciano alle ferie per motivi di lavoro. Ben pochi stanno in ufficio dopo le cinque e mezza del pomeriggio. Non esiste la classica “pausa pranzo italiana”. Ognuno mangia quando vuole e spesso davanti alla scrivania. In tal modo si riesce a sfruttare meglio il proprio tempo libero. Se il lavoro è fattibile stando a casa, gli inglesi preferiscono non recarsi in ufficio e comunicare via mail. Ciò che conta è il risultato, non le ore di presenza in ufficio, che non ha lo stesso significato sociale dell'ufficio italiano.
Se in Inghilterra le regole sociali sono “repressive”, in Italia invece sono quasi “esplosive”. Per le strade, e negli sportelli degli uffici pubblici, risuonano lamentele e insulti. E’ sempre colpa del Governo, anche se la propria vita privata va a rotoli. La colpa del Ministro infatti si riflette sul dipendente dell’ufficio, sul vicino di casa o sul collega di lavoro. Certamente il Governo fa la sua parte. Ma per quanto riguarda la propria vita privata, ognuno dovrebbe governare la sua. Il Governo, con le tasse, i tagli alla spesa pubblica e le leggi influenza ovviamente la nostra vita privata e le nostre scelte, ma non e’ responsabile per esse. Siamo noi i conducenti della nostra vettura, mentre lo Stato rappresenta il traffico, la polizia e l’inquinamento. Nonostante ciò siamo noi che viaggiamo e che decidiamo la nostra destinazione.
Ma in Italia si tende a reprimere la propria individualità. L’Italiano predilige le attività sociali, si muove in gruppo, si affida e dà fiducia all’Altro. In Italia e’ molto più facile trovare dei veri amici, o persone che sacrificano la propria individualità per gli altri.
Il concetto di società implica però anche quello di conformismo. Ma se l’inglese e’ conformista per preservare la propria individualità nella società, l’Italiano invece lo e’ per sacrificare la propria individualità alla società. Se fosse un animale, l’inglese sarebbe un gatto, mentre l’Italiano un cane. Entrambi comunque sono animali domestici. Ma può una bestia nata nella terra dei cani sentirsi a casa nella terra dei gatti?

sabato 10 settembre 2011

Underground

“Mind the gap, please”. “Please mind the gap between the train and the platform” “This is King’s Cross St Pancras change here for the Victoria, Northern, Hammersmith & City, Metropolitan & Circle lines and the National and International Rail Service”.
Lo spazio vitale tra una persona ed un’altra sembra ristabilirsi, ma e' un'effimera illusione. La gente che scende e’ rimpiazzata da quella che sale. Borse, valigie, passeggini, cani. Donne che si truccano e si cambiano le scarpe. Gente che beve il caffe' o che mangia di tutto: dai muffin al pollo fritto. A volte mi chiedo se il mio essere spettatore e non attore sulla metropolitana londinese deriva dal fatto di non essere abbastanza flessibile o se e' dovuto al rispetto per le altre persone e per le minime norme igieniche da osservare in un luogo affollato, dove a malapena si riesce ad entrare e stare in piedi, dove si sente l’odore delle persone e il loro fiato sul proprio collo, nel senso letterale e non figurato. Eppure che invidia! Si truccano senza sbavature tra uno scossone e l’altro della vettura, senza il timore di essere osservate dallo “specchio” altrui. Bevono il caffe’ senza rovesciarlo, mangiano il pollo fritto senza pudore e senza ungere i loro vestiti e quelli degli altri. Il comportamento delle persone e’ dettato soltanto dalle proprie esigenze. Ognuno sembra ignorare il vicino, ma in fondo ogni gesto e’ compiuto in maniera calcolata e discreta, cercando di arrecare il minimo disturbo possibile agli altri, per evitare lamentele e discussioni. Nessuno si guarda intorno, nessuno scambia una parola col passeggero accanto, anche se lo incontra tutti giorni alla stazione. Neanche le persone che si conoscono parlano tra di loro: c’e’ troppo rumore e il cellulare non e' raggiungibile. E allora ci si immerge nella lettura di un giornale o di un libro o si ascolta la musica. Ma non lo si fa principalmente per intrattenersi o evadere dalla realta’, ma per creare mediante il libro, il giornale o il lettore musicale una barriera fisica tra se' stesso e l’Altro. Agli occhi dell’Altro si e' invisibile: nessuno scambio di sguardi, se non casuale. Eppure puo’ essere che ci osservano, ma molto fugacemente e senza farlo capire. Sembra che ognuno sia soltanto interessato a se’ e incuriosito dalle prestazioni del proprio cellulare o dal gossip sul giornale. Ma ognuno e’ indifferente all’Altro. Se si pesta un piede ad un estraneo, per sbaglio, e’ anche facile sentirsi dire “Sorry”, pur essendo colpa nostra. La ragione e' la legge del quieto vivere, per evitare battibecchi, ma anche per difendere il proprio individualismo. Ma ognuno e’ conformista nel suo individualismo. La maggior parte delle persone legge lo stesso giornale. Inoltre dietro il “Sorry”, il “Please”, il “Thank you” si cela un’etichetta ben precisa: la cortesia, non sincera e dettata dall’individuo, ma imposta dalla societa’ come compromesso tra l’Io e l’Altro, sempre per tutelare la propria individualita'. Il conducente spesso bofonchia qualcosa, che dovrebbe essere una comunicazione ai viaggiatori, ma si rivela un monologo, o meglio, la recita del rosario, vista la ripetizione esatta della stessa cantilena ad ogni fermata. Neanche lui in realta' sta comunicando con i viaggiatori. Avvisa disguidi in altre linee, deviazioni, oppure semplicemente: “There is a good service on all London underground lines”. Che senso ha comunicare che il servizio viene erogato in maniera regolare? Non e' gia' cio' che dovrei aspettarmi quando pago il biglietto per la corsa? O forse si vuole ridurre l'impatto delle comunicazioni sgradevoli aggiungendo anche quelle scontate che si vuole far apparire gradevoli? Oppure si vuole soltanto incrementare “l'inquinamento acustico” con informazioni irrilevanti? Un altro esempio e' dato dal conducente che comunica che il treno e' momentaneamente fermo in attesa di segnali, anche se in realta' poi riparte immediatamente dopo. “Mind the doors, please”. “Stand clear of the closing doors”. Il conducente rincara la dose, come se non fosse sufficiente la voce registrata che lo ripete ogni volta, dopo l'annuncio delle fermate. Sembra quasi che vogliano farti rimbecillire, con comandi analoghi a quelli militari, brevi e concisi. “Mind the gap”. “Mind the gap, please” (il please e' di fatto un intercalare!). In inglese il “gap”, il buco, il salto tra il binario ed il marciapiede, delineato dalla linea gialla sul suolo, sembra quasi un'allegoria, il vuoto tra la vita e la morte o il confine tra il “Bene” e il “Male”. “Mind the gap”.
La vettura e' l'unico modo sicuro per superare il “gap”, ma quando si sta per entrare o per uscire, bisogna fare di nuovo attenzione al confine. “Mind the doors, please” o “Stand clear of the closing doors”.
Arrivare alla stazione “King's Cross St Pancras” vuol dire per me essere nel mezzo del cammino sotterraneo che mi porta quotidianamente al lavoro. Tra andata e ritorno, un'ora e mezza della mia giornata trascorre nel sottosuolo.
All'inizio osservavo allibita questa realta' alienante. Mi guardavo intorno. Osservavo la gente che evitava il mio sguardo, sentendosi quasi minacciata. Guardavo la vettura approcciarsi ad ogni fermata, subivo ogni “Mind the gap, please”, ogni “ricambio” di persone. Ascoltavo gli annunci per far fronte ad eventuali disservizi. Ma dopo qualche giorno, mi resi conto che dovevo trovare un modo per evadere o per essere indifferente al sistema. Un libro dopo l'altro e la musica rock ad alto volume sono i miei espedienti per affrontare il lungo tragitto sotterraneo quotidiano. Mi sono adattata a leggere in piedi, sotto pressione fisica degli altri passeggeri e anche camminando durante il cambio di linea. Ho imparato a non patire l'indifferenza della gente. Ma quando cammino con il libro chiuso e vedo le persone muoversi incuranti, che evitano di guardarmi, come se fossi invisibile, mi verrebbe voglia di urlare: “Basta! Se e' questo il quieto vivere, preferisco lo scontro. Insultatemi se e' cio che pensate, ma almeno esprimetevi. L'espressione e' vitale.” Ma proseguo, evitando anche io le persone, pur sentendomi a disagio e incoerente con i miei principi e la mia personalita'.
This train is now ready to depart. Stand clear of the closing doors.”

mercoledì 7 settembre 2011

La Torre dell'Orologio

Quando arrivai a Londra, diedi maggiore importanza alla capacita’ di adattamento e sopravvivenza, piuttosto che alla salvaguardia della mia “dignita’ professionale”. Pertanto, pur di non restare disoccupata, avrei accettato qualsiasi lavoro. Ma avrei mai potuto fare la barista o servire ai tavoli di un ristorante? Avevo quasi trent’anni ormai. Nessuna esperienza. Sarei stata imbranata, lenta ad eseguire le ordinazioni. Gli anni di studio mi avevano allontanato dalla manualita’ e, in un certo senso, rincretinito. Inoltre, in un paese straniero sarebbe stato doppiamente difficile per le difficolta’ linguistiche e culturali. Ma anche se avessi proposto la mia candidatura, non mi avrebbero certamente considerato.
Ero dibattuta tra due forze dentro di me: quella rivoluzionaria che rinnegava tutte le scelte che avevo fatto finora: l’eccellenza, lo studio, la ricerca e quella conservatrice che mi induceva a mantenere la mia posizione, o possibilmente a migliorarla, focalizzandomi su un lavoro qualificato e in linea con il mio curriculum vitae. La prima forza mi esortava  a pensare soltanto al presente, dimenticandomi completamente del passato e ripartendo da zero. La seconda invece mi incoraggiava ad andare avanti mantenendo la stessa strada. In fondo non si possono vivere tutte le possibilita’ e nel corso degli anni avevo scelto la mia. Ma era cio’ che volevo?. Vivevo con il mio ragazzo. Ora eravamo finalmente tranquilli in una casa solo per noi. Cambiare in questo momento avrebbe voluto dire andare contro la ragione per cui mi trovavo a Londra e forse sperimentare nuovamente la nostalgia e la vacuita’ di vivere senza il mio convivente. Inoltre, non avendo piu’ il padre, cercavo di trovarvi un’impersonificazione nel mio ex relatore della tesi o nel mio ex capo, con i quali avevo mantenuto i contatti. Cosa penserebbero di me se gli dicessi che adesso lavoro in un bar? Probabilmente penserebbero di aver fallito nel loro mestiere, come un padre penserebbe di aver fallito nel suo ruolo educativo. Ma ovviamente non sono loro a dover vivere la mia vita e se la mia vita fosse felice a seguito di una strada non raccomandabile, probabilmente l’accetterebbero pensando che quella sia stata la scelta per me congeniale. Ma se avessi rinnegato tutto sarei stata felice? Non ero giunta alla conclusione che la mia felicita’ era vivere con il mio convivente?
Pertanto mi lasciai guidare dalla seconda forza, in difesa della mia “dignita’” accademica e professionale.
Trovai per caso un annuncio su internet: la terapia intensiva di un importante ospedale di Londra cercava un ricercatore in biostatistica. La posizione sembrava prestigiosa e avevo sulla carta tutti i requisiti richiesti nonche’ l’esperienza nel settore.  Il bando stava per scadere. Mi affrettai ad inviare il curriculum e la domanda di candidatura, la cosiddetta “application form”. Mi sembrava la migliore possibilita’ che si fosse prospettata, anche dal punto di vista remunerativo. Mi selezionarono per il colloquio, che verteva sulla presentazione di un determinato articolo scientifico. Dovevo illustrarne la metodologia e descriverne l’analisi statistica ad un team di medici. Visto che la mia ultima esperienza lavorativa mi aveva dato la possibilita’ di affacciarmi alla realta’ medica, sapevo come approcciare il team e ovviare alle loro difficolta’ di comprensione delle materie statistiche. Sapevo pertanto come condurre il colloquio con successo, se fossi entrata in sintonia con gli astanti e se mi fossi trovata in un ambiente “ispirazionale”.
Lo scoraggiamento per i fallimenti ai colloqui finora sostenuti non vinse la mia grinta, passione e bramosia per la vittoria finale.
Il luogo non sembrava affatto un ospedale: negozi, luci, colori, fotografie e quadri appesi diversi da crocefissi e ritratti dei benefattori.
La segreteria della terapia intensiva mi incuriosi’ e diverti’: oggetti sistemati a caso, dossier e fogli accatastati ovunque. Mi invitarono ad accomodarmi su una sedia posizionata in un angolo, tra una stampante ed un fax. Si capiva che tale disordine derivava dall’ingegno per la mancanza di spazio. “Questo e’ il posto ideale per me”, pensai. “Non ha nulla in comune con gli ambienti asettici, ordinati che non lasciano neanche lo spazio per l’immaginazione e la fantasia. Sembra che in questo posto le persone e gli oggetti non abbiano una sistemazione fissa e organizzata e non mi stupirei se la mia postazione fosse itinerante.”
Arrivo’ il momento del colloquio, in una stanza piu’ appropriata. Quattro uomini dalla faccia simpatica e bonaria si presentarono. Uno di loro mi ricordava il mio ex capo e non solo gli assomigliava, ma lo conosceva anche personalmente, come emerse in seguito nel corso dell’intervista. La mia presentazione fu un gran trionfo, nonostante il mio inglese non britannico. Al termine del colloquio, il segretario mi disse, ridacchiando, che mi avrebbero contattato il prima possibile.
Dopo il colloquio, attraversai il ponte per prendere il bus di ritorno. Il sole si rifletteva sul Tamigi e sul mio volto. La sera stessa ricevetti la telefonata da parte di uno dei medici presenti al colloquio. Mi comunicava che volevano assumermi e che avrei ricevuto un’offerta condizionata al buon fine di tutti i controlli penali, dell’idoneita’ fisica e psicofisica e delle lettere di referenza. Per queste ultime saro’ sempre riconoscente al mio ex capo e al mio ex relatore della tesi. Infatti e’ anche grazie a loro se ancora adesso lavoro di fronte al Big Ben.
Non avrei mai immaginato che il mio orologio biologico avesse dovuto “sintonizzarsi” con quello della “Torre dell'Orologio”.

lunedì 5 settembre 2011

Impressioni londinesi

Promiscuita’: orgia di culture, odori e colori. E’ difficile sentirsi stranieri a Londra. Lo sono un po’ tutti e non lo e’ nessuno, ognuno mantenendo i propri usi e costumi, la propria identita’ e dignita’ culturale, ma adeguandosi ai ritmi lavorativi e alle condizioni di ospitalita’ e soggiorno che la citta’ impone. Negozi aperti di notte e bus notturni. E la citta’ prospera, non si ferma mai: un pullulare di persone che si alternano per le strade: lavoratori, studenti, turisti, donne con bambini. Non esiste ora di punta, il traffico e’ un flusso costante. Le vie risuonano dei linguaggi piu’ disparati e sono impregnate di miscugli di esalazioni provenienti dai ristoranti, dagli scarichi ...
Ognuno conduce la vita che gli pare, si veste alla sua maniera e mangia ovunque: in mezzo alla strada, sul bus o in piedi sulla metropolitana affollata. L’economia e il lavoro sono il collante del mosaico. Il consumismo unisce, elimina le barriere culturali e linguistiche. Finche’ ognuno puo’ spendere, va tutto bene, e’ tutto lecito, ma quando i soldi finiscono allora insorgono i conflitti. E non si e' piu' ruote dello stesso meccanismo. Infatti non importa se le ruote siano diverse, ma l'importante e' che girino nella stessa direzione del sistema.
A Londra, e penso in generale in UK, uno straniero si trova di fronte al paradosso retorico: “E' nato prima il conto o il contante?”. Infatti non si puo' aprire un conto in banca se non si ha un lavoro. Ma non si puo' neanche trovare lavoro se non si ha prova di avere una dimora stabile. Tale prova viene fornita dall'intestazione delle bollette, contratti di locazione, conti in banca … Pero' non si puo' trovare neanche una dimora stabile se non si hanno i soldi e quindi un conto in banca e pertanto un lavoro. Ma cosa puo' fare uno che si presenta, come se arrivasse dal Nulla, con nome, cognome, documenti e valuta stranieri?
Quando arrivai a Londra abitai con il mio ragazzo in un alloggio che aveva affittato in condivisione con gente che non conosceva. Anche lui trovo' difficolta', a suo tempo, ad aprire un conto e a cercare casa, fintanto da chiedere l'intervento dell'Universita', dove lavorava e studiava, per fornire tutte le dichiarazioni necessarie. Aveva avuto la fortuna di essere stato assunto prima di lasciare l'Italia. Io invece arrivavo li' senza “sponsor” locale e non conoscendo nessuno tranne lui. Nonostante tutto, essendo mesi che non ci vedevamo, all'inizio la situazione sembro' idilliaca, anche in un appartamento coabitato. Ma dopo un certo numero di giorni, realizzai: “Ma chi e' 'sta gente fra i piedi? In Italia, pur nell'inferno della mia situazione, potevo vantare una signora casa spaziosa e adesso non posso neanche permettermi una piccola abitazione da condividere solo con la persona amata?”
Ma le case costano una fortuna a Londra, pur la qualita' essendo ben inferiore alle case italiane. Per trovare un'abitazione decente ed uno spazio tutto nostro dovevo necessariamente trovare lavoro, visto che non potevo neanche aprire un conto depositando i risparmi che avevo nella mia citta' di provenienza.
E avrei anche potuto avere difficolta' a trovare impiego perche' non avevo nessun documento che certificasse la mia dimora.
Per fortuna mi rilasciarono con facilita' il “national insurance number”, un codice senza il quale non si puo' ottenere un lavoro regolare perche' tale numero consente di individuare i contributi versati. Teoricamente, ogni cittadino europeo che vuole lavorare in UK ne ha diritto. Me lo rilasciarono dopo avermi fatto alcune domande sul mio titolo di studio, sulla mia attuale dimora e sulle mie intenzioni di lavoro. Per fortuna mi chiesero soltanto l'indirizzo e non anche la sua prova. Altrimenti mi sa che non restava altro che ritornare nella mia citta' natale.
In seguito ebbi anche difficolta' a trovare lavoro, nonostante le possibilita' di carriera come ricercatore o statistico non mancassero. Al di la' del mio disagio linguistico, cominciavo a dubitare di possedere le capacita' richieste per i lavori attinenti al mio titolo di studio e alla mia esperienza lavorativa. Ma era perche' non ero coerente con il mio titolo di studio o perche' il mio titolo di studio non era coerente con quello conseguito in UK? Dovevo riconoscere che i colloqui apparivano di taglio piu' tecnico rispetto a quelli sostenuti in Italia. Infatti non mi chiedevano soltanto domande personali, ma anche domande “operative” del tipo “come farebbe a modellizzare quel fenomeno”, “quali sono i pro e i contro dell'analisi x?” E forse le mie risposte, benche' dimostrassero conoscenze teoriche, apparivano poco pragmatiche e “filosofiche”.
A peggiorare la situazione, contribui' anche la padrona di casa che ci comunico' che avevamo un mese di tempo per trovare un altro alloggio. Nel “contratto verbale” che aveva stipulato con il mio convivente, non era stabilita una durata fissa, bastando soltanto il preavviso mensile per chiudere ogni pendenza da ambe le parti.
La convivenza con quella gente mi stava stretta, ma comunque mi sarei adeguata finche' non avrei trovato lavoro. E invece le circostanze mi offrivano una duplice fonte di incertezza: il lavoro e il tetto.
Ci attivammo per visionare un po' di case. Incontrammo “trafficoni”, gente che offriva case sguarnite o ancora da sistemare promettendo che sarebbero state in ordine al momento della nostra dimora. Un tizio, che non era neanche il proprietario ma il conduttore, ci fece vedere un alloggio in un sotterraneo. Constava di un'unica stanza dove si cucinava e mangiava dietro l'ingresso in un tavolo pieghevole, si faceva la doccia guardando direttamente il letto, anche se per fortuna da “un oblo'” e si dormiva circondati dal guardaroba. C'era il router pero', questo era un vantaggio, e anche la TV. Il bagno invece era fuori, in condivisione con una coppia. La lavatrice era pure condivisa dal “condominio” e funzionava a gettoni di sterline. C'era anche un terrazzino in condivisione, piuttosto raro nelle case inglesi, anche se l'odore dei bidoni dell'immondizia e l'acqua che avrebbe potuto condurre in casa, rischiava di annientarne la “poesia”. L'alloggio non era nemmeno cosi' economico. Inoltre non avevo alcuna garanzia di ottenere un contratto in regola da cui risultasse il mio nome e che quindi costituisse valida prova di indirizzo, necessaria per trovare lavoro ed aprire un conto in banca. Benche' fossi abituata ad adattarmi e a trovare “letti di fortuna”, non mi sembrava giusto pagare cosi' tanto per vivere in una topaia. Per pochi mesi si poteva fare, ma non per un anno o piu'.
Speranzosi di trovare una sistemazione migliore, continuammo a visitare case che pero' si rivelarono una peggio dell'altra. E la padrona dell'appartamento dove stavamo diventava sempre piu' insopportabile. Faceva vedere la stanza da noi occupata, per affittarla ad altri, a nostra insaputa e pretendeva ancora che facessimo il sorriso deficiente al visitatore. “Io non la reggo”, dicevo al mio convivente. E uscivo di casa per evitare di insultarla ad alta voce. Andavo a sdraiarmi sull'erba, nel parco vicino e piangevo. Mi sembrava di non possedere piu' nulla: territorio, famiglia, casa, dignita' e non confidavo piu' nemmeno nei miei studi. A Londra non ero nulla, non avevo niente. Se non avessi trovato lavoro non avrei neanche potuto vivere a fianco della persona che amavo.
Ma mi consolavo pensando che e' piu' facile ricostruire dopo aver distrutto tutto, piuttosto che partire dalle fondamenta danneggiate.
Io e il mio ragazzo concordammo di alzare il budget di spesa e interessarci ad offerte di appartamenti piu' costosi. Visitammo una casa gradevole. Ma la padrona, l'unica “vera inglese” finora incontrata, non ci prese in considerazione, pur avendole in buona fede e onesta' illustrato la nostra situazione: il mio ragazzo studente di dottorato con borsa di studio ed io, da circa un mese, “sbarcata sull'isola” senza aver ancora trovato un'occupazione.
Finalmente trovammo la casa ideale, dove mi trovo tuttora, con contratto regolare, luminosa, spaziosa per due/tre persone anche se arredata in maniera spartana. Non e' economica, ma la spesa e' ragionevole per la qualita' offerta e in paragone a cio' che offre la realta' londinese. Inoltre il proprietario e' una persona affidabile e si dimostro' comprensivo e disponibile a venire incontro alle nostre esigenze, dopo aver inquadrato la nostra situazione.
Forse fu il rifugio confortevole, a farmi ritrovare la tranquillita', la dignita' e l'autostima necessari per trovare un lavoro qualificato.

giovedì 1 settembre 2011

Vivere senza frontiere

Mia sorella si riprese e dimostro’ di essere in grado di andare avanti da sola, anche se con il mio supporto e con quello del suo fidanzato. Tutta la sua attenzione si sposto’ verso l’altra mia sorella, della quale ancora adesso ne cura l’assistenza. “Non devi sentirti obbligata solo perche’ la mamma le badava in via continuativa”, le dico sempre. Ma per il momento e’ ferma nella sua decisione. Se la mia famiglia e’ ancora in vita, nonostante la mancanza di entrambe i genitori, e’ merito di quest’altra sorella, che ci lega ancora insieme e che ci impedisce di vivere le nostre vite senza legami, indipendentemente l’una dall’altra.
Tuttavia, dopo aver sbrigato alcune pratiche, avrei potuto permettermi di seguire la strada che mi avrebbe condotto alla felicita’. Mi riconciliai con il mio ex-convivente. Dopo aver lottato contro il mio orgoglio e la mia indipendenza, realizzai che il sentimento che provavo per lui era piu’ forte di qualsiasi altra mia convinzione, ideale o filosofia che ci aveva allontanati. Se era vero che stavo bene da sola, era anche vero che stavo meglio con lui. E se da sola potevo fare molto, con lui avrei potuto fare di piu’.
“Non voglio sposarmi. Non voglio avere figli”. Era stata questa la mia ferma convinzione, quando frequentavo il dottorato di ricerca. Ma esprimeva una Volonta’ o una Legge? Nasceva come volonta’, motivata  dalla ricerca del piacere e della soddisfazione personale attraverso la realizzazione dell’Ideale. Ma poi divenne una vera e propria Legge che, se seguita religiosamente, conduceva all’estraniazione, alla rinuncia ad ogni “istituzione sociale” e rischiava di allontanarmi da qualsiasi relazione umana e dalle mie stesse funzioni vitali.
Inoltre, era accompagnata dall’esperienza familiare personale che spesso era stata la causa della mia sofferenza. “Fare figli? Che assurdita’!” Pensavo.”Generare per trasmettere la mia rabbia, la mia ribellione, il mio malessere. Assolutamente no. In fondo, se non ho mai chiesto di venire al mondo, come posso decidere per un altro? Inoltre, non voglio che la realizzazione della mia vita avvenga attraverso un’altra vita: il bambino non deve servire per completare il mio essere.” Ma allora, perche’ quando vedevo un bambino per la strada distoglievo l’attenzione verso i miei pensieri e lo guardavo intenerita e sorridente? Non avrei forse anche io voluto stringere una creatura fra le braccia? Perche’ pensavo di non aver nulla di positivo da insegnare e da trasmettere? “Gia’ e’ difficile occuparmi e prendermi cura di me stessa, come potrei prendermi cura anche di un’altra persona?”.
Il mio convivente invece pensava fosse scontato e naturale che prima o poi avessimo avuto dei figli. In effetti, quando siamo andati a vivere insieme pensavo che, benche’ la famiglia non fosse mai stata il mio sogno, lui era l’unica persona con la quale la progenie avrebbe avuto senso e valore. Certamente i miei problemi personali hanno contribuito alla nostra separazione, ma il vero motivo sono state le incomprensioni per mancanza di dialogo. Infatti spesso,  immersi nelle nostre discussioni intellettuali e distratti dal nostro rispettivo lavoro, trascuravamo alcuni aspetti pratici della convivenza e della gestione casalinga, ma soprattutto evitavamo di discutere del futuro e di eventuali obiettivi da realizzare insieme. Pertanto pensai che fossimo entrambi due edonisti e che non saremmo stati in grado di gestire il menage familiare.
Inoltre la parola matrimonio era per me sinonimo di gabbia, di appiattimento dei desideri, di ruolo sociale anziche’ personale, tutte conseguenze della verbalizzazione di un comportamento spontaneo. Invece la convivenza non mi spaventava perche’ mi consentiva, o semmai mi dava l’illusione, di mantenere la mia indipendenza e liberta’, pur di fatto comportandomi come se fossi sposata. La parola famiglia invece mi evocava depressione, vecchiaia, problemi e grane. Ma in realta’ cio’ era causato dal pensiero di mio padre e della sua ricerca di evasione dall’ambiente familiare che lo soffocava. Ed empatizzavo questo malessere.
D’altro canto pero’ la mia famiglia mi ha trasmesso dei valori inestimabili che valgono di piu’ di qualsiasi contributo lasciato su una rivista accademica o su una pubblicazione scientifica. Infatti questi valori sono unici, poiche’ nessun’altra famiglia puo’ trasmetterli allo stesso modo. In fondo, trasmettere dei valori non e’ analogo ad “illuminare” gli studenti in classe? E allora, perche’ mi sarebbe piaciuto diventare professoressa e non madre? Insegnare la vita non e’ piu’ importante, interessante e complesso di insegnare la matematica?  Ma in fondo sapevo che dovevo ancora imparare a vivere e che attribuivo alla vita un significato troppo dannoso da poter divulgare. E il predicare bene e razzolare male  non si addiceva alla mia natura, ne’ si addice tuttora.
La malattia di mia madre pero’ mi aveva cambiato e dopo la sua morte la mia sola ambizione era quella di poter vivere. Vivere giorno per giorno, non mirando al raggiungimento di alcun obiettivo, ma vivendo in sintonia con la propria natura e con i propri sentimenti, libera da ogni pregiudizio su me stessa e da ogni condizionamento esterno. Soltanto cosi’ avrei potuto imboccare la via per raggiungere la felicita’. In fondo, pensare di non essere una buona madre o di non trarre soddisfazione dalla condotta di una vita ordinaria era un preconcetto che mi avrebbe allontanato da un percorso che forse avrebbe potuto piacermi.
“Non devo impormi nessun limite”. Si puo’ arrivare dappertutto, basta solo non vincolarsi a determinate strade da seguire.
E volevo ritornare a vivere con il mio ex-convivente. Cio’ voleva dire abbandonare ogni principio anti-familiare e, soprattutto, abbattere ogni confine geografico. Infatti il mio ex-convivente, dopo la nostra rottura, si era trasferito per studio e lavoro a Londra.
Ma nulla piu’ poteva impedirmi di raggiungerlo, visto che lui mi voleva e che mi avrebbe accolto di nuovo fra le sue braccia.