mercoledì 6 dicembre 2017

Linfomania

Stavolta fu un pezzo di pelle ad essere asportato, un neo nel dito medio del piede sinistro. L'intervento fu breve, in anestesia locale, ma per due giorni ne portai a passeggio il dolore e l'inabilità a camminare.

Ero scettica, non credevo che la biopsia potesse rivelarmi qualcosa di nuovo, di utile. Quasi volevo evitare, volevo rifiutarmi, ma la mia mente razionale, la mia curiosità e la mia deformazione professionale mi spinsero all'intervento senza esitazione.
Dovevo classificare questo “dato”, come feci tempo fa in uno studio statistico, dove analizzai le biopsie. Tutti tumori, a vari diversi stadi. Tutti pezzi di persone di cui non conoscevo nulla e che apparivano ai miei occhi soltanto come variabili “categoriche”. Chissà quante lacrime legate a quelle categorie, quanti progetti andati a monte e in fine quanta sofferenza ….

La mia mente si era preparata, come l'anno scorso, ad ogni eventualità, al punto da essermi già orientata verso un nuovo percorso che nessuno avrebbe voluto compiere, la cui destinazione rima con desolazione.

Ma anche questa volta l'esito negativo della biopsia e le parole del dottore “adesso può sorridere” mi lasciarono invece in uno stato di confusione e smarrimento.

E' incredibile come si possa provare delusione o persino infelicità per una bella notizia, soltanto perché questa si scontra con le aspettative, contro ciò a cui si era preparati.

Stavolta durò poco questa sensazione di abbandono, di sconforto di fronte all'evidente ignoranza clinica del sentimento umano, dello stato interiore, di come ci si possa sentire con l'unica certezza della malattia di cui non si soffre. E tutto il resto? Qual è la spiegazione?
Durò poco, perché tornai subito al lavoro, con la certezza della mia mansione. Tornai subito a frequentare le persone conosciute in questi mesi, con la certezza della loro amicizia o della loro simpatia.

In fondo sono le persone del luogo a farti sentire parte del luogo. L'anno scorso non avevo ancora molti legami e non avevo nessun ruolo. Giravo con mia figlia da un posto all'altro, con l'intento di esplorare la città, ancora titubante di fronte al multilinguismo incalzante.
Ed il fatto che nessuno riusciva a capire il mio malessere fisico e continuava a dirmi che non avevo nulla, mi faceva sentire ancora più straniera, più smarrita.
Mentre quest'anno tale sensazione durò giusto il tempo della visita, per poi svanire ed essere dimenticata.

“E' sicura che non ha bisogno di parlare con qualcuno per accettare questi linfonodi?”

Sì, non ho più bisogno di parlare di questa storia. Non solo accetto ciò che ho e ciò che non ho, ma ne decanto persino la follia, l'ebbrezza. Non ho bisogno di parlare, ma devo vivere, celebrando la mia esistenza ai limiti della “linfomania.”


martedì 28 novembre 2017

Il sangue nell'avena

In fondo la mia vita non è che un esperimento, come questo blog. Cosa deve riuscire, non è chiaro e non se ne possono conoscere a priori la durata e gli sforzi.

L'anno scorso ho vissuto settimane nel dubbio di avere il cancro e invece quest'anno ho trascorso settimane nel dubbio di poter avere l'incremento percentuale di collaborazione sul lavoro.

Come cambiano le prospettive! A volte ci vuole un anno, a volte un solo giorno o addirittura un attimo.

E infatti, non appena ebbi conferma, non solo del rinnovo del contratto, ma anche dell'aumento di percentuale lavorativa, cambiarono di nuovo le “carte in tavola”.

Ed ecco ripresentarsi lo spettro della malattia.

In effetti questi linfonodi inspiegabili e questi miei continui malesseri, mi avevano lasciato perplessa, anche se i medici, dopo tutte le dovute investigazioni, dicevano che non era nulla di cui preoccuparsi. Eppure non volevo rinunciare a capire, a scoprirne la causa, perché penso che se non ne conosce la causa, non se ne possono stimare gli effetti e nemmeno prevedere o fronteggiare le conseguenze. Di fatto si resta in balia degli eventi. Certo, a volte non c'è altra via, altro rimedio. Ma se invece ci fosse stato? Chi me lo avrebbe assicurato? Quale medico si sarebbe accollato la responsabilità di dirmi di non farmi vedere mai più a meno che non mi fosse successa un'altra disgrazia per altri motivi?

E così passarono diversi mesi in cui stetti, in qualità di paziente, lontano dai medici, seppur influenze, febbri, infezioni e continui malesseri, continuavano a suggerirmi di avvicinarmici (anche se spesso fu sufficiente andare dalla pediatria di mia figlia per intuirne l'origine).

Ma avevo sempre il timore della “maledizione” che avevo azzardato romanzare. Mi chiedevo allora, scherzandoci, quale pezzo di me sarebbe stato prelevato quest'anno. Quale anestesia? Di fatto però non mi sono mai fatta suggestionare da questa profezia, da questa prescrizione ineluttabile del destino. Tuttavia la mia curiosità mi spinse a sfidare la sorte e ad andare dal medico. Stavolta scelsi il servizio dedicato al personale dell'ospedale dove lavoro.

La dottoressa, molto disponibile e scrupolosa, mi visitò dalla testa ai piedi. Stavolta il problema apparve dal basso, ai piedi, calpestato, ed emerse in superficie.

“Da quanto tempo ce l'ha questo neo o questa macchia anomala?”

Anomalo? Sinceramente, non me ne ero mai preoccupata. L'avevo visto spuntare, forse l'anno scorso, ma non ricordavo.

“Credo sia meglio che vada a farsi controllare da uno specialista dell'ambulatorio dermatologico decentrato dall'ospedale. Con l'occasione, si faccia vedere anche gli altri nei sul corpo, anche se quelli non mi preoccupano.”

Due uomini, dopo avermi chiesto di spogliarmi completamente e dopo avermi osservato attentamente nei dettagli, mi fotografarono il dito medio del piede sinistro.

Se non fossero stati medici, avrei forse dubitato della loro sanità mentale o della mia impudicizia.

Ma le loro parole, benché risuonassero in maniera più stonata e assurda della situazione, mi fecero rabbrividire:

“Non possiamo dire con certezza che quella macchia sia maligna, visto che lei non ci sa dire da quanto tempo ce l'ha e se si è evoluta. Rivediamoci a gennaio e vediamo come procedere.”

Pur rimanendo allibita, la parola gennaio mi sollevò perché almeno per quest'anno sarei stata salva.

Dopo due giorni, ricevetti una chiamata dall'ambulatorio:

“Signora, potrebbe venire oggi? Il dottore vuole parlarle. Ha rivisto con più attenzione, e con il capo reparto, le sue fotografie.”

Non avrei mai pensato di essere così fotogenica e che il mio piede fosse così interessante.

Cercai di riprendere ciò che stavo facendo prima della telefonata. Stavo preparando uno spuntino: cracker, casalinghi, ai cereali. Con la mente altrove, incurante, non in linea con i movimenti della mano e con gli oggetti che armeggiavo, mi cagionai un piccolo taglio sul dito.

E fu sangue nell'avena.



sabato 25 novembre 2017

Il confine

La vita in fondo è anche questa: un giorno ti alzi al mattino, senza colpa, né dolo alimentare, senza eccesso, senza sintomo o sentimento e, senza controllo, inizi a vomitare.
Poi senza preoccupartene, senza pensare o senza volertene far condizionare, provi a fare colazione e vomiti pure quella. Allora senza rassegnazione e senza darci peso esci, ma senza aver considerato la necessità, ti ritrovi a vomitare in un sacchetto, che senza essere previdente, non avresti portato.
E poi senza fretta, torni a casa e senza gusto inizi a mangiare ciò che riesci, piccoli morsi di qualcosa di scondito, che poi vomiti.
E allora, senza riuscire a fare nient'altro e senza opporre resistenza, ti sdrai a letto, senza impostare la sveglia, senza programmi, senza domani.
E l'indomani ti risvegli, senza aver preso medicine, e come se niente fosse accaduto, mangi e ti presenti al lavoro piuttosto in forma, senza stanchezza, senza nausea e porti a termine quello che dovevi fare, iniziando pure un nuovo progetto.
E con molto appetito e con la voglia di cucinare, torni a casa e mangi e ti chiedi cosa sia successo. Senza memoria, andresti dal dottore. Ma ripensi all'ultima volta che sei andata, rimanendo più confusa di prima, dubbiosa nell'unica certezza di un altro esame istologico, che nemmeno quest'anno hai potuto evitare.
Con chiaroveggenza avevi azzardato la profezia e questa si è avverata.

Ora sei consapevole di quale sia il confine tra l'accettazione e il rifiuto. Se ti ostini a rifiutare ciò che non puoi cambiare, o se continui a voler agire per ciò che non richiede nessuna azione, ma soltanto rassegnazione, oltrepassi il confine dell'accettazione esponendoti al rischio dell'insanità mentale, in preda ad ansie, manie, persecuzioni ed ossessioni. Ma se al contrario ti fermi prima del confine della “reale” e consapevole accettazione, quando invece potresti ancora rifiutare, potresti cambiare, potresti opporti a ciò che non tolleri, potresti agire a tuo favore, ma ti arrendi, anche in questo caso metti a rischio la tua sanità mentale, stavolta in preda a depressione, apatia e abulia.
Per conoscere questo confine spesso bisogna superarlo o rischiare di farlo.

Quando stai male, in fondo, poco ti interessa se i tuoi mali trovano riscontro in una diagnosi clinica, poco ti interessa se questi verranno curati. La tua preoccupazione è riuscire a vivere la tua vita serenamente, trascorrere il tuo tempo, le tue giornate in modo piacevole.
Non ti importa di far parte o meno di un campione statisticamente significativo per essere contemplato dalla scienza, ti importa di trovare una soluzione ai tuoi problemi.

A volte l'unica via è l'accettazione, accettazione dei limiti della società, della medicina, della conoscenza o di quant'altro e trovare la risposta all'interno di sé, la motivazione a fronteggiare qualsiasi situazione, anche quella che richiede la rassegnazione. E' un concetto difficile da spiegare, ma non difficile è capire il momento in cui si crede di aver trovato la risposta. L'importante è ascoltarsi, con pazienza, senza aspettative o pressioni. La risposta prima o poi arriva.

Ma non tutti riescono o possono aspettare e molti hanno paura ad intraprendere un viaggio interiore. Allora cercano un “traghettatore” che li conduca verso l'accettazione. Non sempre si affidano nelle giuste mani di professionisti, esperti, medici ... E non è solo per stupidità che spesso arrivano persino a esorcisti, ma anche per disperazione o smarrimento. 



venerdì 5 maggio 2017

In-segnanti conducenti

Gli insegnanti sono come gli autisti di un bus, che ti portano al capolinea, fermandosi dove previsto, in corrispondenza delle tappe istituzionalizzate. A differenza di un normale bus, in cui i passeggeri salgono e scendono quando vogliono, nella scuola generalmente è il conducente che decide se qualcuno deve scendere dalla vettura e prendere quella successiva, ma non per discriminazione o antipatia, ma soltanto perché reputa che il passeggero non sia pronto per proseguire e che necessiti di ripercorrere la tappa raggiunta con più lentezza o attenzione. 
 
Pur essendo opportuno ringraziare in ogni caso l'autista per averti portato a destinazione, bisogna ammettere che non tutti hanno un modo di condurre piacevole. Alcuni ti fanno venire la nausea o il mal di bus irreversibile per tutta la vita. E nonostante gli si faccia presente che non stanno trasportando patate, quello è il loro modo di condurre. D'altronde la sensibilità e l'empatia sono doti notevoli, anche se sottovalutate, che non tutti hanno e non sono richieste per la patente di autista. Basta che si rispettino le regole stradali, i limiti di velocità e, soprattutto che non si sgarri dal percorso istituzionale. 
 
Benché non sia richiesto che il conducente renda il tragitto piacevole, o sopportabile, se accidentato o in presenza di tornanti, si dovrebbe riconoscere e apprezzare con un riguardo particolare chi ha questo talento. Chi, nonostante le intemperie, riesca a far vedere nitida l'immagine della strada attraverso il finestrino, chi trasmette fiducia e sicurezza in presenza di ostacoli da superare o addirittura passione per le sfide.

Se visiti una città affidandoti ad una guida turistica infatti avrai un bel ricordo del luogo visitato se la guida ti trasmette entusiasmo, curiosità, ti fa apprezzare l'arte, la cultura, mostrandoti la bellezza di un monumento, in relazione con i valori culturali, le tradizioni e la storia locali.

Di fatto però il compito di una guida si limita a far vedere solo ciò che è previsto nel programma, in sequenza, fino al termine, con scadenze da rispettare, con un certo ordine e una disciplina. L'entusiasmo, la personalità particolare della guida non vengono retribuite. In fondo non c'è prezzo per una bella esperienza che ti accompagna per il resto della vita, per una parola in più che ha determinato una svolta, un cambiamento, per un sorriso, un racconto accattivante o toccante. Un ringraziamento a chi ti regala qualcosa in più che non è tenuto a dare, sorge spontaneo anche se spesso ci sembra nulla in confronto a ciò che si ha ricevuto, che non si è in grado di ripagare.

Inoltre un conducente, terminato il suo percorso, non è tenuto a dare indicazioni sulle strade possibili, sui percorsi a piedi o a bordo di altre linee o mezzi di trasporto, sulle coincidenze, sui percorsi più veloci, più economici, più comodi o più adatti alle esigenze e interessi dei passeggeri. Non è richiesto che un conducente osservi un passeggero per aiutarlo a trovare la sua strada. Chi guida deve osservare chi sale e chi scende per motivi di sicurezza e di ordine pubblico e se qualcuno disturba o infrange delle regole deve intervenire, direttamente o chiamando le autorità a seconda delle situazioni. Ma se un passeggero entra sul bus piangendo, l'autista non è tenuto a chiedere il motivo delle lacrime o a cercare di farlo sorridere. Ci si aspetta solo che chiami l'ambulanza qualora la persona stia molto male o perda conoscenza.
Non è nemmeno compito della guida pulire il finestrino o i posti a sedere o rendere la vettura profumata e confortevole, ma solo assicurarsi che ci siano le condizioni perché un passeggero giunga sano e salvo a destinazione.


Dovrei ringraziare tutti i miei insegnanti per avermi istruito e formato. Ma non tutti, devo ammettere, sono stati in-segnanti, nel senso che hanno lasciato un segno, un qualcosa, anche se non troppo piacevole, che ricordo al di là dei concetti e nozioni scritte alla lavagna. Chi ti lascia un segno spesso ti fa delle osservazioni che inizialmente possono sembrare fastidiose perché percepite come una critica nei propri confronti. Ma successivamente le critiche possono rivelarsi costruttive e avere notevoli benefici. Allo stesso modo chi ti incoraggia a far qualcosa, ti fa i complimenti o ti dice ciò che hai bisogno di sentire, ti lascia un segno positivo perché aumenta la tua autostima e la fiducia negli altri.
Tutti coloro che non lasciano un segno, ma si limitano a svolgere solo il proprio lavoro, fanno già tanto, comunque: è un lavoro difficile, faticoso che non viene riconosciuto come si dovrebbe.



L'iniziativa della “Settimana Italiana dell’Insegnante 2017” http://www.youreduaction.it/terza-edizione-settimana-italiana-dell-insegnante-2017/ mi ha dato la motivazione di scrivere questo post, un intermezzo dopo la conclusione della terza parte di questo blog, che forse riprenderò regolarmente a data da definirsi.
In particolare vorrei ringraziare la mia insegnante di italiano delle medie. Credo sia stata l'unica a capire veramente le mie capacità e i punti di forza. L'unica che ha cercato in tutti i modi di spronarmi a valorizzarli. L'unica che anche nei miei difetti trovava una virtù e un'opportunità da sfruttare, a differenza di altri che, seppure riconoscevano il mio merito con degli ottimi voti, spesso aggiungevano: “però la tua calligrafia è pessima, sei una persona disordinata, devi tenere il foglio più pulito e non fare le orecchie, devi fare sempre la scaletta prima di iniziare il tema...” La mia insegnante apprezzava sempre ciò che scrivevo perché apprezzava il mio stile aldilà delle mie opinioni. Mi diceva che ero una persona che rifletteva, rimuginava, rimetteva in discussione ciò che scriveva perché spesso cancellavo, tirando delle righe sopra interi paragrafi. E lo vedeva come un pregio. Non dava importanza all'estetica, a come appariva il foglio tutto scarabocchiato. Lei leggeva ciò che c'era scritto e lo apprezzava veramente. Mi diceva sempre che avevo una bella testa, che dovevo sfruttare le mie capacità di scrittura e di espressione, che avrei dovuto iscrivermi al liceo classico e diventare “un'umanista”.
Purtroppo ero nella fase più difficile della mia vita: l'adolescenza e sottovalutai l'importanza dei suoi consigli. Una volta la sfidai. Scrissi nel tema dell'esame finale ciò che all'epoca pensavo, quali erano le mie aspettative e prospettive dopo le scuole dell'obbligo. Scrissi che a me non interessava avere una “bella testa”, ma piuttosto una bella faccia, un bell'aspetto fisico perché la società (e chi ti sceglie) valuta solo questo. A me non interessava diventare “umanista”, o essere una persona riconosciuta per i suoi studi. Volevo diventare una persona normale. Non volevo andare al liceo perché non pensavo di volere proseguire gli studi dopo le scuole superiori. Volevo seguire un percorso poco esposto alla disoccupazione. E poi volevo che la si smettesse di considerarmi la “prima della classe”, la “brava ragazza” e la figlia che tutti i genitori avrebbero voluto decantare e “sfruttare”.
Anche in quel caso la mia insegnante apprezzò il mio tema dicendo che avevo descritto ed espresso molto bene i miei pensieri e la mia realtà. Lodò il mio lavoro, ma la sua espressione rivelava una certa tristezza per la mia “abnegazione”.
Ricordo una volta, sul bus nel corso del viaggio di ritorno da una gita, si sedette dietro di me con un'altra insegnante. Non so se lo fece volutamente affinché sentissi, ma affrontò il discorso dell'insoddisfazione personale e professionale parlando di un ragazzo molto bravo con talento “umanistico” e predisposizione per la scrittura che stava studiando ingegneria su “consiglio” dei genitori, ma che si sentiva insoddisfatto e per questo non otteneva buoni risultati.
All'epoca non capivo cosa volesse dire sentirsi insoddisfatti nello studio o nel lavoro. Infatti non mi ponevo la questione, avendo delle buone valutazioni in tutte le materie, anche se sottovalutavo che scrivere mi veniva spontaneo, naturale, mentre risolvere un problema di matematica era una cosa che sentivo imposta, “distante” e spesso mi innervosiva perché non arrivavo subito alla conclusione o mi buttavo a risolvere senza leggere con attenzione il testo.
Perciò studiai ciò che sentivo distante, che mi innervosiva e che puntava il dito contro i miei difetti. Ottenni dei risultati perché spinta dalla motivazione di soddisfare le aspettative del mercato e di non essere disoccupata. Ma non pensavo affatto a me, a soddisfare le mie aspettative e a valorizzare il mio talento, mentre la mia insegnante lo aveva fatto, si era preoccupata per me, per la mia soddisfazione e realizzazione. Anche mio padre aveva trascurato questo aspetto, ma forse perché non aveva avuto occasione di osservarmi come aveva fatto lei da esperta.
E la ringrazio davvero. Ho sempre pensato al suo consiglio, puramente interessato al mio bene. Ho sempre pensato alla stima che aveva nei miei confronti. Ho sempre pensato che avrei voluto rincontrarla dopo anni. Ma non l'ho mai cercata. Non ho avuto più notizie di lei. Spesso un grande pensiero rende piccola qualsiasi azione. Forse è per questo che non ho fatto nessuno sforzo per cercarla o forse perché è passato troppo tempo e solo di recente ho realizzato quanto prezioso sia stato il suo consiglio, e quali effetti benefici avrebbe avuto se lo avessi seguito. Non voglio rivelare il suo nome per privacy, ma il suo anagramma “BONTA” perché è autologico (anche senza accento).
Non era tenuta a farlo, ma di fatto è come se mi avesse detto: “Guarda, dopo il capolinea ti consiglio di fare quella passeggiata. Il percorso sarà in salita, ma ne vale la pena. Dalla cima avrai una panoramica stupenda. Tu hai le capacità per affrontare quel percorso e nei momenti in cui troverai difficoltà, sappi che io credo in te e credo che riuscirai a superarle. Perciò non arrenderti e alla fine avrai ciò che meriti, ma ricorda che deve anche essere ciò che desideri perché da lassù vedrai solo quello e se non ti piace ti sentirai desolata e ti sembrerà di soffocare. Ma io ti conosco e penso che amerai ciò che vedrai.”


sabato 25 marzo 2017

Bovarismo

Se i ricordi ti fan stare così male, allora perché non pensi al presente?”

Già, il lavoro, la famiglia, i doveri, le cose da fare … Il presente sarà anche scorrevole, ma in fondo è così vuoto.”

Meglio un cuore vuoto che uno infelice.”

Ti sbagli; meglio infelice. Perché se è vuoto tale rimarrà per sempre, come se fosse morto.
Un cuore infelice invece non potrà sostenere a lungo l'infelicità e quindi spingerà la persona a muoversi verso ciò che conduce alla felicità. Pertanto la sola condizione per diventare felici è mantenere l'infelicità per tutto lo stretto necessario. Certo, è molto rischioso, si rischia di collassare nello sconforto e di non farcela, proprio perché per fronteggiare l'infelicità ci vuole un animo forte.”

E che cosa implica la felicità?”

La completezza e la sensazione di non aver bisogno di nient'altro.”

Pensavo avessi già tutto: un lavoro, una famiglia, un posto tranquillo dove vivere.”

Certamente, ho tutte le condizioni per essere felice, ma credimi, ciò che sento che manca non dipende da cosa ho, ma da dove voglio andare. Non è pertanto legato a ciò che ho già ottenuto, ma alla direzione che vorrei seguire. Schwanden, si va avanti. Ciò che ti rende felice oggi, può non farlo più domani.
Per quanto riguarda il mio lavoro, può piacermi, senz'altro, ma sai che vorrei fare ben altro che statistiche e vorrei realizzare il progetto di cui ti avevo parlato. Vorrei quindi dare dei contributi, che non siano solo numerici o computazionali, ma riguardino un cambiamento di prospettiva che porti ad un miglioramento sostanziale nella qualità di cura e quindi di vita. Per il momento sono felicissima di aver trovato questo posto di lavoro. Ma se mi fermassi qua, svuotandomi delle mie aspirazioni e dei miei ideali, svuoterei il mio cuore, che pur continuando a battere, non seguirebbe il ritmo di cui il mio corpo ha bisogno.”

E la famiglia non ti rende felice?”

Schwanden, sai quanto amo mia figlia e il mio compagno! Ma stando esclusivamente con loro, spesso mi sento privata o limitata. Privata del mio spirito di avventura, della mia curiosità di esplorare diverse realtà per meglio comprendere il mondo. Limitata nella possibilità di frequentare altre persone con i miei stessi interessi. Spesso mi sento intrappolata nel ristretto ambito familiare. Vorrei sentirmi socialmente attiva, anche se so già che se mi impegnassi in qualche attività sociale, anche la società ben presto finirebbe per apparirmi stretta. Schwanden, vorrei poter frequentare persone che condividono pienamente ciò che penso e costruire qualcosa con loro, seguendo la direzione dei nostri ideali. E' qualcosa che va oltre la famiglia. Per questo motivo sento il bisogno di esprimere liberamente le mie idee, per poter capire con chi poter condividere un certo percorso.
Devo ammettere che spesso ciò non va di pari passo con la famiglia. Ovviamente seguo le mie idee e valori nell'educare mia figlia. Ma se li lasciassi circoscritti in famiglia, credo che prima o poi si spegnerebbero. Schwanden, se fare famiglia è un atto idealmente altruistico, di fatto può rivelarsi come l'espressione più egoistica di un essere umano che vede i figli come un futuro strumento di realizzazione personale o di garantito servilismo. Io non mi aspetto nulla da mia figlia. Voglio esserle accanto, essere una guida in questo pazzo mondo. Ma voglio vivere anche io. Colei che crea una vita non può distruggere la sua, altrimenti usa il figlio come mezzo per soddisfare un proprio istinto masochista o, peggio, suicida.
Pertanto non voglio che la famiglia spenga quella fiamma che c'è in me. Ma non voglio nemmeno che questa fiamma incendi la mia famiglia.
Schwanden, non so se il mio sia una sorta di bovarismo.
Adesso non vorrei cambiare professione. Ma credo sia soltanto perché al momento il lavoro mi impegna meno di due giorni alla settimana. La mia mansione mi piace, in fondo, ma la eseguo con la testa, non ci metto nient'altro. E' vero che nel modo in cui lavoro ci metto del mio. Ma nella statistica non posso esprimere nessun sentimento, ma soltanto produrre dei risultati. Il mio lavoro è pertanto una distrazione da ciò che sento dentro. Distrarsi è certamente una necessità per sopravvivere in questa società. Ma tu sai che vorrei vivere in un'altra società, anche se dove vivo ora perlomeno vedo un futuro, un notevole miglioramento, non auspicabile in Italia.
Credo di essere sulla strada per essere veramente felice, ma soltanto se non mi svuoto di questa infelicità che per adesso lascio libera di esprimersi.”

Ma perché sei infelice?”

In effetti non so rispondere. O meglio, ne conosco il motivo, ma non la soluzione.”

E allora vuoi solo lamentarti invano.”

Ti sbagli. Lamentarsi vuol dire solo vedere gli aspetti negativi di una situazione e limitarsi a parlarne senza prendere provvedimenti o aspettandosi che lo faccia qualcun altro. Di fatto si inquina solo l'ambiente esterno. Io non mi sto lamentando. Ti ho detto che sto bene dove sono, non critico nessuno e non mi aspetto nulla da nessuno. Soltanto vedo delle lacune nella mia vita e voglio cercare di far il possibile per colmarle.
E poi, se ci penso bene, non sono infelice. Sono soltanto irrequieta.
In particolar modo, di recente, speravo accadesse qualcosa che poi non è avvenuto. E questo mi ha reso triste. Ma ora il mio animo è tornato sereno. Non mi aspetto più nulla, anche se spero prima o poi accada, e non dipende molto da me. Non posso dirti di cosa si tratta. Alcuni desideri è meglio che restino segreti. Forse un giorno te ne parlerò. E forse un giorno ti racconterò più in dettaglio di quella ragazzina che ero, del suo spirito che è rimasto intrappolato in anni di studio e di falsi miti, ma che è ritornato a vivere, grazie anche a questo blog che mi ha concesso, in questi anni, di liberarmi di tanti pesi che mi portavo dentro.

Per ora ti lascio così, Schwanden. Ho bisogno di chiudere qua. Concludo così questa parte. Sai che ritornerò. Sai che oramai non posso più fare a meno di scrivere. Ma forse non scriverò più a te. Forse incontrerò il “vero Schwanden” quello che vuole capirmi fino in fondo e quindi conoscere la parte peggiore di me, quella che io accetto con piacere perché è il mio istinto: è ciò che mi consente di esprimere liberamente ciò che ho dentro.
Forse deciderò anche di farmi rivedere dai medici come paziente. Quei linfonodi ci sono sempre. Alcuni sono cresciuti ancora e non di poco. Al momento sto bene perché il mio animo è in pace. Non mi tormento più. Non mi tocco più in continuazione, come farebbe un adolescente a cui viene raccomandato di non masturbarsi. Oramai non mi preoccupa nemmeno più conoscerne la causa. Mi chiedo soltanto, razionalmente, se sia giusto ignorare completamente la questione e pensare che l'esito negativo della biopsia possa esonerarmi da qualsiasi altra futura investigazione.
Per adesso ti lascio qui Schwanden, con la voglia di fare tante cose. Ti lascio così: felice, ma irrequieta, con una figlia altrettanto irrequieta da guidare. Ti lascio qui.

We'll meet again, I don't know when, I don't know where.”


martedì 7 marzo 2017

TRAURIG

A volte non sai se è peggio andare avanti sentendoti alleggerito di qualcosa di cui in realtà non vorresti essere stato privato, perché è qualcosa di cui avevi bisogno, oppure appesantito di qualcosa che ti porti addosso che non vorresti avere, che ti pesa. In entrambi i casi, senti la fatica di dover andare avanti. Nel primo caso capisci come sia difficile proseguire senza qualcosa che ritieni indispensabile per la tua vita. Nel secondo caso invece senti lo sforzo di camminare con qualcosa che ti pesa.

A volte non sai se sia peggio voler rivivere una situazione che probabilmente non rivivrai più, oppure voler dimenticare una situazione che non vorresti aver vissuto. In entrambi i casi ti senti bloccato, smarrito.

Se ti è successo qualcosa che vorresti rivivere, il suo ricordo ti fa sentire svuotato di qualcosa di fondamentale che hai perso. Se ti è successo qualcosa che vorresti dimenticare, il ricordo di quel qualcosa ti appesantisce, ti opprime, ti impedisce di andare avanti in armonia.

A volte capisci quanto i ricordi siano dolorosi, belli o brutti che siano.

E allora piangi, sperando che le lacrime ti liberino da ciò che vorresti dimenticare o che ti irrighino la pelle, ridandole il nutrimento del bel ricordo che porti con te e che con le lacrime speri si sciolga e con la sua bellezza possa ritemprarti il corpo e lo spirito.

E celebri la tristezza, perché festeggiando speri di dimenticarne il patrono. Senti alla gola che sei ebbro e che vorresti vomitare tutto quel dispiacere. E ti gira la testa. E poi, stanco, vorresti dormire, per rivivere nel sogno ciò che non puoi vivere nella realtà oppure per dimenticare ciò che ti ossessiona. In entrambi i casi vorresti una vita diversa.

E poi ti svegli. Cadi. Ti rialzi. Vai a lavorare. Il lavoro ti aiuta perché ti obbliga ad andare avanti, a concludere quel compito nonostante il tuo fardello o la tua mancanza.

Ma fuori dal luogo di lavoro barcolli, pur proseguendo la strada verso casa con la stessa velocità. Ti senti bruciare, ma nessuno ti vede incandescente.

Ciò che è difficile, infatti, non è andare avanti, ma mettersi l'animo in pace.


venerdì 10 febbraio 2017

Riflessioni libere

Libertà vuol dire più responsabilità e consapevolezza.

Se si vuole essere rispettati veramente dagli altri, non bisogna imporre regole, ma concedere più libertà. Sembra un paradosso, eppure pensate all'individuo che diventa responsabile e acquisisce maturità e consapevolezza dopo aver ottenuto la libertà di andare a vivere da solo.

Finché i genitori lo controllano, finché dettano regole, il fatto che lui le rispetti non significa maturità e consapevolezza del fatto che sia giusto o meno rispettarle, ma vuol dire soltanto ubbidienza. Se ottieni ubbidienza, non stai veramente formando un individuo, ma vuol dire soltanto che hai trovato un individuo che si accontenta di non opporsi. Di fatto non c'è nessun risultato di un processo di maturazione e consapevolezza.

Un figlio che ubbidisce non sta veramente rispettando il genitore, ma gli sta rendendo solo il compito più facile. Il rispetto richiede consapevolezza dell'altro. Solo se al figlio viene concessa la libertà, anche di disubbidire, il genitore otterrà rispetto perché il figlio diventerà consapevole che ciò che gli è stato insegnato è giusto e se ne assumerà la responsabilità dell'eventuale violazione.

Per esempio se dici al figlio “pulisci casa”. Lui pulisce, pur non volendo, ma non si rende conto del fatto che sia giusto farlo. Se il figlio va a vivere da solo, soltanto dopo che vedrà con i suoi occhi la casa sporca, si renderà conto che è giusto pulirla, senza che nessuno glielo imponga. E allora manterrà la casa pulita, proprio perché conoscendo la sporcizia, crederà sia giusto evitarla.

Allo stesso modo non credo che la società abbia bisogno di un capo autoritario, di una classe dirigente “forte”, ma piuttosto di sentirsi padrona del proprio territorio e di avere consapevolezza della propria identità. Credo che ci voglia più potere democratico. Capisco che a molti spaventa. In Italia, secondo uno studio, ci sono molti “analfabeti funzionali” e capisco chi teme di essere “governato” da ignoranti tramite l'esercizio del loro potere. Ma è assolutamente sbagliato pensare che questi non debbano neanche avere diritto al voto.

Io invece penso che il solo modo per far uscire la gente dall'ignoranza sia quello di affidar loro un compito importante che dia la motivazione ad informarsi e ad apprendere ciò che è indispensabile. Solo la consapevolezza della propria ignoranza, quindi, spingerà a combatterla. Se si continua a far sentire le persone sempre più impotenti e incapaci, queste non faranno altro che degenerare.

Qui in Svizzera mi hanno detto che i cittadini sono molto partecipi e hanno molto potere decisionale. Votano di fatto ogni due mesi e decidono sulle tematiche più svariate. Eppure tutto funziona. La gente rispetta le regole perché ne ha preso consapevolezza. Inoltre, se qualcosa non va a livello generale, sanno di avere il potere di cambiarla. Ogni decisione viene presa dalla “vera maggioranza” e non da una classe rappresentativa che non è nemmeno chiaro chi e cosa rappresenti.

Eppure mi chiedo dove siano gli Italiani. Sono persi tra i social network e Internet. Sono illusi di avere tutto il potere che vogliono, possono commentare, dire la prima cosa che occorre. Possono fare tutto in rete. Possono essere chi vogliono, possono conoscere tutto, cambiare il mondo firmando petizioni. Ma questo non è vero potere e non è nemmeno vera informazione.

Poter scrivere sui social network riguardo la politica, l'attualità e poi non aver nessun potere decisionale, non avere sotto controllo nemmeno ciò che accade in casa propria e lasciarsi sfuggire la propria vita dalle mani è la stessa situazione di una persona che sostituisce l'attività sessuale alla visione dei film pornografici.

Questa situazione pertanto non solo crea degli “analfabeti funzionali”, ma anche degli “invalidi funzionali”, persone che accontentandosi solo di guardare o di parlare si rendono di fatto invalide nell'uso degli altri sensi e nell'azione.

Eppure basterebbe concedersi più libertà, dalla rete, da tutto e quindi acquisire maggiore consapevolezza. 


giovedì 26 gennaio 2017

FIRE

Mia madre diceva che io non passavo gli esami, li fumavo. Ridevo, e lei precisava che li fumavo come se fossero sigarette. Credeva infatti che per me fosse facile passare un esame e ottenere il massimo dei voti. Adesso le risponderei: There's no smoke without fire. Non c'è fumo se non accendi il fuoco. E io di fuoco ne avevo, però anziché fumarmi solo l'esame, spesso mi fumavo anche il cervello. Adesso rido se ripenso al mio comportamento passato. Avrei potuto fumare con molta disinvoltura l'esame, mentre l'ossessione di eccellere, di competere con me stessa mi faceva fumare la testa e non solo.

Da quando ho abbandonato questo atteggiamento, tutto sembra venirmi incontro, tutto sembra facile, proprio come diceva mia madre. Mi fumo tutto: la prova di tedesco, la gestione delle persone contattate e di quelle da contattare, i colloqui di lavoro ...”

Colloqui di lavoro?”

Già, Schwanden, e, per ironia della sorte, lavorerò ad un progetto che ha FIRE come acronimo. Ho contattato il responsabile dicendo che trovavo il progetto molto interessante e gli ho proposto di integrarlo al mio, quello di medicina narrativa di cui ti avevo parlato.
Il responsabile mi ha risposto dicendo che al momento non prevede tale integrazione, ma è rimasto colpito dalla mia iniziativa e mi ha proposto di lavorare ai loro progetti.

Non voglio fornire i dettagli, mi limito a dire che farò ricerca e analisi statistica dei dati provenienti dai medici di base. Infatti, a differenza dell'Italia, nei centri medici di base si svolgono analisi di laboratorio, check up completi, elettrocardiogrammi, ecografie, medicazioni, piccoli interventi, trattamenti somministrati per endovena (flebo) … Perciò si possono ottenere molte informazioni riguardo la salute dei pazienti. Il centro universitario dove lavorerò si occupa di gestire in forma anonima e centralizzata i dati provenienti da tutti i centri medici che aderiscono al progetto.

Io avevo proposto invano di introdurre i diari dei pazienti nei centri medici, ma ci riproverò. Nel frattempo sto valutando anche altre possibilità. Infatti il lavoro che ho trovato mi occuperà praticamente un giorno alla settimana. Quindi potrei tentare di portare avanti il mio progetto con i possibili interessati che devo ancora incontrare.

In linea con i miei valori, non vorrei lavorare troppo per non trascurare mia figlia. Per ora, continuerà ad andare al nido solo due giorni interi alla settimana.

Comunque non avevo alcun dubbio che, emigrando, nessuno avrebbe avuto pregiudizi ad assumere una persona che è stata a casa più di due anni per badare alla figlia. Qui è considerato ragionevole ed è anche possibile trovare un lavoro, non solo part-time, ma anche part-part-time, come il mio.

In fondo, sai, il lavoro deve servirmi principalmente per darmi un ruolo e valorizzarmi. Riguardo allo stipendio, non ho particolari pretese. Quindi mi basterebbe lavorare tanto da compensare la spesa per il nido di mia figlia.

Non bisogna aver nessuno scrupolo nel realizzare le proprie ambizioni e/o la propria vita; se questi a volte non coincidono con le esigenze del mercato, non bisogna certamente rinunciarvi e adeguarsi. Se nel posto dove vivi non ci sono le condizioni per vivere come vorresti, basta spostarsi. Il mondo è grande, offre diverse possibilità. Certo, per trovare il luogo adatto ci vuole anche un po' di fortuna. In mancanza, serve solo più tempo. E soprattutto costanza, nel contattare persone, i diretti interessati o chi potrebbe aiutarti.

Tornando al discorso che stavo facendo, ho abbandonato l'atteggiamento di chi vuol riuscire ad ogni costo. E' vero che il fine è quello di realizzare un obiettivo. Ma se pensi alla destinazione finale durante il cammino, ti perdi il gusto della sfida, del viaggio, del percorso, ti perdi il piacere: come se mentre fumi pensassi già al mozzicone che getterai, l'unica cosa che di quella sigaretta rimarrà.

In ogni caso, Schwanden, se le cose non devono riuscire per causa di forza maggiore non riescono e basta, indipendentemente dal tuo comportamento. Se vivi stressato o rilassato è vero che è più facile ammalarsi nel primo caso, ma è anche vero che alla fine le malattie si contraggono comunque. Ciò che veramente cambia è la prospettiva con la quale si affrontano le vicende. Scegliendo lo stile di vita di una persona non stressata, tutto diventa più facile da sopportare. 

Schwanden, non farti strane idee, la malattia era un puro esempio. Mi è ancora oscuro cosa di fatto mi sia accaduto, ma adesso non ho più ragione di andare dal dottore come paziente, e di continuare a parlare di quella storia, visto che le ultime analisi erano perfette. "