venerdì 9 dicembre 2011

Il congedo

Quando si conosce una persona, si e' all'oscuro di quale sia la relazione che si instaurera'. Una stretta di mano che potrebbe cambiare la tua vita: una convivenza o un matrimonio, una lunga amicizia o un rapporto di complicita' e affinita' che persiste nonostante la tua vita e quella dell'altra persona seguano poi strade diverse.
A volte non si bada neanche al nome di chi si presenta. E questo per me e' spesso stato il segnale di un'apparizione evanescente nella mia vita o di un' apparizione di nessuna rilevanza da non catturare abbastanza la mia attenzione o la mia curiosita'. Ma non se ne ha mai la certezza. A volte si e' solo distratti e poi ci si accorge dopo del fascino di quella visione. Visione che puo' rimanere senza nome e scomparire oppure che puo' accompagnare la tua vita, con un nome legato al tuo.
Analogamente, quando si congeda una persona che si presume di non vedere piu', in realta' non si sa mai se sia un arrivederci o un addio.
"Good luck". "Keep in touch". "It was a pleasure ...". Saluto e ricevo a mia volta i saluti da parte delle persone con cui ho avuto occasione di lavorare e mando un'email collettiva, per raggiungere tutti, anche coloro che al momento sono via per lavoro, per vacanza o sono impegnati con i pazienti.
Mantengo la formalita', pur scrivendo qualcosa di personale. Ricevo cortesia e formalita' e per una volta non mi curo se i complimenti e apprezzamenti o i loro "We miss you" siano sinceri.
Quest' esperienza e' stata una commedia a episodi, dove un episodio ha seguito l'altro, rimettendo a posto il precedente e lasciando seguire velocemente il successivo. Ma tutto e' stato messo assieme spassionatamente, senza enfasi, nemmeno per cio' che era importante e andava approfondito. Proseguire con gli episodi ha significato ogni volta ricominciare daccapo, pur sempre con la stessa scaletta, ma anche poter finire la serie la' dove si e' voluto, senza creare colpi di scena.
Ed esco, quasi indisturbatamente, ignorando se il mio ruolo avra' o meno un seguito o se scomparira' definitivamente.
Il mio capo mi alletta con la proposta di collaborare anche a distanza per la pubblicazione di articoli inerenti a studi che ho iniziato e che non abbiamo potuto portare a termine. Immagino che una volta che saro' lontana dall'ufficio, si dimentichera' presto del lavoro pendente e della mia esistenza. Tuttavia, non si puo' affermarlo con certezza.
Guardo il Big Ben illuminato dalle luci. Sono le 16.30, ma e' gia' buio. Mi incammino per tornare a casa. Waterloo: la stazione della metropolitana che mi consentira' di tornare a casa in un'ora di tragitto. Waterloo: nessuna battaglia, nessuna sconfitta e forse nessuna grande vittoria, Waterloo, forse il mio esilio, durante il quale la noia e' diventata tranquillita', tranquillita' che mi ha consentito di scrivere questo blog, attraverso il quale ho potuto esprimere cio' che ho sempre pensato e che non ho mai detto, ho potuto raccontare agli amici lontani il mio "peregrinaggio" e forse, ho potuto comunicare anche con persone che non conosco o che non conosco troppo bene.
Questo blog non e' una commedia. E' un'alternarsi di gioie e dolori, di rabbia, di passioni, di ricordi, di desideri, di pensieri e di cio' che adesso non so.
Thackeray diceva: "There are a thousand thoughts lying within a man that he does not know till he takes up a pen to write" ("Ci sono migliaia di pensieri che giacciono nella testa di un uomo e che egli non conosce finche' non prende una penna per scrivere").
La versione non tecnologicamente obsoleta richiederebbe di sostituire "the pen" con "a keyboard". Ma la sostanza non cambia.
Se i pensieri non si scrivono, o non si divulgano con altri mezzi, rischiano di diventare "spazzatura" mentale, rifiuti ingombranti che non lasciano spazio a pensieri nuovi o che ti tormentano affinche' non li ricicli e li trasformi in azione o in qualcosa di utile o di bello che gli altri possano vedere e giudicare.
Quando ritornero' in Italia vorrei dedicare il mio tempo, oltre che al mio convivente, anche agli amici e a mia sorella, ai quali ho sempre pensato durante la scrittura di ogni articolo. Pertanto scrivero' sempre meno, ed usciro' molto di piu'.
Non vorrei rinunciare alla passione di scrivere soltanto perche' richiede impegno e sacrificio. Ma il tempo libero dal lavoro, ed il tempo in generale, e' limitato e una volta in Italia daro' priorita' alle commissioni, allo smaltimento dei rifiuti ingombranti fisici di casa mia, ma soprattutto agli svaghi con gli amici.
Ho bisogno prima di tutto di piu' tempo da vivere, piuttosto che di tempo da immortalare in uno schermo o in uno scritto.
Mi chiedo quale sara' l'ultimo post che scrivero'. Penso che mi concedero' soltanto una pausa, ma non posso escludere che anziche' essere una fermata possa trattarsi del capolinea.
Quando ci si congeda, non si puo' mai sapere se si tratta di un addio o di un arrivederci.


domenica 4 dicembre 2011

Il paese dei balocchi

"Se fossi in te uscirei prima". "Se fossi in te non verrei in ufficio domani". Da sola avrei esitato, ma se lo dice lui non me lo faccio ripetere due volte. Vado al Luna Park, mentre gente rimane in ufficio. E' Lucignolo che ha deciso, anche se Pinocchio era indotto in tentazione. Ma se Lucignolo fosse il tuo capo?
"Non so come tenerti occupata, quindi non vedo perche' devi stare in ufficio a fingere di lavorare". Ha assolutamente ragione. Perche' rimanere a scaldare la scrivania, visto che agli inglesi il calore non piace nemmeno, anzi, spaventa?
Quello che invece obietto e' il perche' non sappia come tenermi occupata ed il perche' ha assunto una risorsa che lascia inutilizzata. Mi chiedo anche perche' abbia un computer "superpotente" che neanche sfrutta, parcheggiato nella scrivania e dimenticato. Come siamo simili io e quel computer: facciamo parte di un budget di spesa che teoricamente dovrebbe costituire un investimento, ma di fatto e' un consumo, o peggio, uno spreco.
"Mi sono accorta che quest'anno il carico di lavoro che ti ho affidato era un po' esiguo." Meno male che ha avuto il buon senso di accorgersene. "Non esistono pasti gratis in economia", diceva sempre una mia professoressa all'Universita'.
Eppure di fatto la mia paga ed il mio ruolo non sono stati direttamente proporzionali al mio carico di lavoro. In Italia di sicuro mi avrebbero assunta a progetto per tre o al massimo quattro mesi, pagandomi non piu' di un terzo di cio' che ho percepito. Certamente a Londra la vita e' cara e i prezzi delle case e dei trasporti non sono paragonabili a quelli italiani. Ma, sinceramente, il pane, o meglio il sandwich, non me lo sono sudata. Anzi, mi sono quasi sentita una mantenuta. Una situazione del genere e' piuttosto anomala e passeggera ed e' anche questa la ragione che mi ha spinto al rifiuto del rinnovo del contratto.
Infatti mi vergogno ogni volta che esco per andare a fare shopping o a bighellonare invece di lavorare. "Lucignolo dice che si vive una volta sola": e' il motivo che induce Pinocchio a seguire il compagno e a giustificarsi di fronte al Grillo Parlante, l'Adulto.
Ma se il Grillo Parlante e' Lucignolo stesso, si rischia ancora di diventare somari? Perche' dovrei vergognarmi se sono dalla parte della legge? Sono una dipendente e ubbidisco al capo anche se mi dice che la giornata di lavoro e' conclusa, o se non lo dice e' implicito che posso uscire, avendo finito di eseguire cio' che mi aveva chiesto. Ma e' giusto percepire una paga "fulltime"?
Non sempre cio' che e' legale e' giusto o viceversa. Altrimenti non si spiegherebbe l'esistenza di alcuni privilegi. Occorre sottolineare che posso vantare la mia posizione ed il privilegio di quella paga soltanto grazie al possesso del titolo di dottore di ricerca, privilegio che in Italia non esiste. Non c'e' da dubitare che abbia ottenuto il titolo per merito e quindi e' giusto poter vantare tale privilegio. Ma e' altrettanto giusto mantenere tale concessione se il lavoro lo richiede per immagine e non per sostanza?
Il mio capo comincia a dubitarne ed anche per questo non sembra intenzionato ad assumere, nel breve periodo, un'altra persona che mi sostituisca. Ma se avessi voluto rimanere, non avrebbe potuto negarmi tale beneficio. Ma non voglio costituire la causa di ulteriori sprechi. Certamente preferisco la vergogna di uscire prima, rispetto alla noia di stare in ufficio senza far nulla. Ma se posso, vorrei evitarle entrambe.
La vergogna nasce dall'immagine esteriore che l'Altro percepisce. La noia invece nasce e vive dentro di te. Ciascuna puo' rovinare la propria vita, a seconda dell'importanza che si attribuisca all'immagine o alla sostanza. Se la vergogna e' influenzata dalla societa', la noia e' un sentimento spontaneo, ma entrambe sono sensazioni soggettive. Pertanto evito di considerare il giudizio dell'Altro e supero la vergogna, uscendo tranquillamente, lieta per poter sfruttare il mio tempo libero.
Lucignolo ha ragione: si vive una volta sola, anche se la mia deformazione intellettuale mi allerta sul fatto che, con le attuali prospettive di vita e di pensione, finche' c'e' vita c'e' lavoro, o meglio, finche' c'e' vita, ci sara' da lavorare.
Ma ora sono al Luna Park. Ecco il paese dei balocchi. L'atmosfera e' pre-natalizia e c'e' anche la fiera di bancarelle. Non sono l'unica a quanto pare. Sento per caso la conversazione telefonica di una signora e capisco che anche lei e' li' per via del suo Lucignolo.
Non ci sono grilli parlanti, ma c'e' una renna parlante, che non dice nulla di antipatico, ma invita tutti a divertirsi. "Vengano (o piu' contestualmente "venghino") signori e signore nel paese dei balocchi".
Incredibile! Sembra vera! Muove gli occhi, apre la bocca, altro che marionette di legno. La minaccia di Mangiafuoco ormai e' obsoleta.
Divertiamoci finche' possiamo, godiamoci i nostri privilegi, approfittandone, ma essendo consapevoli che non dureranno molto e che prima o poi arrivera' il momento di pagare i conti. Pertanto deciderne il momento, offrendoci spontaneamente all'oste, ci evitera' maggiori danni.
Sorrido, mi rilasso, conscia di voler pagare i conti ritornando in Italia, dove non apparterro' piu' ad una casta privilegiata, ma potro' guardarmi allo specchio, senza vedere allo stesso tempo Pinocchio ed il Gatto, complice con la Volpe per aver sottratto gli zecchini d'oro dell'azienda che li aveva sepolti credendo di vederne un giorno l'albero.
Non avro' piu' il biglietto per visitare il paese dei balocchi. Ma aldila' dei giochi, non e' forse il sogno di Pinocchio diventare un giorno un adulto vero, seguendo la strada del babbo Geppetto che ha fatto tanti sacrifici per farlo andare a scuola?

giovedì 1 dicembre 2011

La legge della giungla

Le difficolta' maggiori che incontrero' al rientro nella mia citta' natale deriveranno sempre dalla mia famiglia, ormai ridotta: le mie sorelle.
La sorella, che e' invalida, da circa un mese non viene piu' assistita dall'altra mia sorella, ma risiede in una struttura residenziale dei servizi sociali.
L'altra sorella adesso per la prima volta si sta confrontando con la sua stessa esistenza. Cosa fare? Qual e' il suo ruolo? Deve cercare un lavoro, non ha un reddito. Soltanto ora ne percepisce la necessita' e ha voglia di lavorare, ma ha pochissime possibilita', essendosi diplomata ormai da dieci anni e non avendo nessuna esperienza lavorativa, se non di un paio di lavori saltuari, e nessun corso professionale spendibile. Sta cercando attivamente, ma non sta trovando nulla.
In effetti chi seleziona il personale che elementi ha per capire che ha vissuto una situazione disagiata ed adesso vorrebbe una possibilita' per dimostrare le sue capacita'? Dal curriculum, risulta soltanto la facciata: nulla ... nulla resta delle premure verso la madre e verso la sorella invalida, nulla ...
E non puo' nemmeno rivendicare l'appartenenza alle categorie protette, pur avendo vissuto il disagio familiare.
Cio' che mi fa innervosire e' il suo atteggiamento vittimista e difensivo: "nessuno mi assume, sono tutti cattivi, la colpa non e' mia". Ma come non e' sua? Vorrei rinfacciarle che l'avevo avvisata che non poteva vivere tutta la sua vita con la madre, che doveva uscire da quella condizione di schiavitu' che lei pensava fosse liberta' perche' le consentiva di vivere nell'ovatta materna, al riparo dai pericoli, dai problemi e con la possibilita' di concedersi vizi e capricci.
Vorrei dirle con freddezza e intransigenza: "Ecco, queste sono le conseguenze della tua condotta che ha ignorato i miei consigli. Pensavi fosse ingiustificata la mia ira quando realizzavo anno dopo anno che non avevi ancora cercato attivamente un'occupazione? E adesso pensi che sia ingiustificato lo stato di disoccupazione in cui ti trovi? Pensi di non essere responsabile della tua rovina? Non credi che adesso dovresti uscirne da sola? Non osi chiedermelo, ma ti aspetti da me un aiuto, anche se sai benissimo che io non ho nessuna intenzione di mantenerti e di viziarti come la mamma. E secondo te cosa dovrei fare?"
Anni di evoluzione, di progresso, di sviluppo economico e di conquiste sociali, ma il principio e' sempre quello: la legge della giungla. Il piu' forte sopravvive. Non c'e' giustizia migliore: in tal modo ognuno ha cio' che merita.
Ma non potrei sopportare il mio menefreghismo se le voltassi le spalle.
In fondo se la aiutassi potrebbe trovare la possibilita' che cerca, possibilita' che potrebbe cambiarle la vita.
Se non l'aiutassi, il suo vittimismo troverebbe una giustificazione, in quanto le infliggerei la pena che tutto sommato si merita. Ma la sua vita non cambierebbe, se non in negativo poiche' aumenterebbe la sua paura e la sua diffidenza nei confronti del mondo.
In fondo e' stata danneggiata, vittima si' della sua debolezza, ma soprattutto del lassismo di mia madre. E' una ragazza intelligente, ma non e' consapevole delle sue capacita' perche' non ha avuto occasione per dimostrarle e, sotto l'egida della madre, non ne ha neanche sentito la necessita'. Perche' procacciarsi il cibo se qualcuno gia' pensa al mantenimento? Che bisogno c'e' di testare la propria forza se qualcuno pensa a difenderci?
Vorrei tanto insegnarle a "cacciare" e spronarla a tirare fuori le sue capacita' nascoste. Non e' mica un'impresa facile, visto anche il suo carattere introverso, ma accetto la sfida.
C'e' pero' una questione da sollevare: neanche io avro' un lavoro quando tornero' in Italia. Puo' una persona che non ha lavoro insegnare un'altra a trovare lavoro? Penso di si', cosi' come un cacciatore puo' insegnare a cacciare senza avere in mano la preda.
Io ho un "avanzo" nel curriculum, lei un "deficit", ma ci troviamo a fronteggiare la stessa situazione: la nostra collocazione.
Cio' che accomuna gli estremi opposti e' la lotta alla sopravvivenza: ciascuno deve lottare per mantenere la propria posizione. Come il povero deve lottare per non morire di fame, il ricco deve lottare per mantenere il proprio status. Il ceto medio invece non deve lottare, potendo godere della sua posizione, ma semmai puo' temere di diventare povero, sognare di diventare ricco oppure disprezzare gli estremi.
Se fosse possibile, sarebbe giusto trasferire il mio "avanzo" curriculare a mia sorella, in modo tale che entrambe saremmo in pareggio? Non sarebbe giusto perche' entrambe non avremmo quello che meritiamo, ma sarebbe equo, poiche' non ci sarebbe diseguaglianza ed entrambe saremmo dispensate dalla lotta.
Ma non sempre, come in questo caso, cio' e' possibile. E' possibile trasferire il denaro, ma non la forza e le abilita' per produrlo. Nella legge della giungla, avere due vincitori equivale ad avere due vinti. Nella legge della giungla il ceto medio non esiste.
E noi siamo due bestie che per fortuna non lottiamo l'una contro l'altra. Aiutarla a sopravvivere, vorrebbe anche dire guadagnarmi la sua stima e il suo rispetto nei miei confronti, analogamente alla posizione "alfa" di dominanza di un branco. Voltarle le spalle vorrebbe dire allontanarla da me, distruggendo quello che rimane della famiglia ed uscendo definitivamente dal branco.

domenica 27 novembre 2011

La legge della curva

Da bambina mi chiedevo sempre se fosse possibile prevedere il futuro. Mia madre credeva in ogni espediente: sogni premonitori, chiaroveggenze, oroscopi ed era convinta di avere il cosiddetto "sesto senso". Mi aveva influenzato e di conseguenza anche io pensavo di possederlo e percio' prestavo sempre attenzione a cio' che sognavo la notte precedente, ai presagi ... Molto spesso cio' che pensavo o temevo accadeva, facendomi sentire in colpa per non avere agito tempestivamente al fine di evitarlo.
Mio padre non credeva in nulla che non potesse essere dimostrato razionalmente o scientificamente. Riguardo alla religione, pensava che la fede aiutasse a vivere meglio e quindi a non deprimersi. Questa era la sua spiegazione razionale per accettare l'esistenza di Dio, pur non essendone fermo sostenitore. Pero' considerava i sogni e le premonizioni puramente coincidenze senza nessuna relazione di causa ed effetto con l'evento. Prevalse la sua teoria, sulla visione di mia madre. Pensai che la mia vita sarebbe stata migliore e piu' rilassata se avessi ignorato tutti i presagi irrazionali che mia madre manifestava e che non giustificavano alcuna azione preventiva contro l'evento temuto, poiche' le sue ansie, non avevano nessuna motivazione razionale.
Pero' poter prevedere il futuro e' una questione che mi ha sempre affascinato. E se con le premonizioni non sarei stata credibile all'esterno, ne' tantomeno a mio padre, allora tentai usando la ragione.
E percio' cominciai ad interessarmi ai modelli matematici volti a prevedere il futuro, anche se dovetti accontentarmi di applicazioni riguardanti l'andamento dei mercati finanziari, l'evolversi di un fenomeno demografico o la diffusione di una certa malattia. E pensai che la formazione matematica mi avrebbe consentito di studiare, in maniera analoga, la "legge della curva" della mia vita, ossia la funzione analitica che la descriva quantitativamente per cercarne di prevedere le perdite e i profitti e gli interventi, rispettivamente, per evitarle o incrementarli.
In effetti teoricamente e' molto piu' facile prevedere il proprio futuro che quello dei mercati perche' si dispone di informazioni corrette e veritiere sulla propria personalita', sul modo di reagire agli eventi, sui nostri desideri. Se fossimo in grado di analizzarle razionalmente, evitando approssimazioni a modelli distaccati dalla nostra individualita', potremmo riuscirci. Spesso ho usato quest'approccio, anche se non formalizzando la legge della curva mediante alcuna funzione matematica o con nessun modello astratto, ma cercando di capire il mio modello, il mio schema prescindendo dal luogo comune ed evitando di inquadrare la mia curva in un insieme di traiettorie che seguono soltanto l'andamento sociale.
Finora ho sempre previsto la strada ottimale, migliore condizionatamente alle informazioni che possedevo. Forse se adesso rivalutassi l'albero delle decisioni che ho percorso, realizzerei che le mie scelte non sono state ottimali. Ma all'epoca lo erano perche' possedevo meno informazioni di quelle che possiedo ora e valutavo le mie possibilita' di "vincita" con altri parametri perche' ragionavo in maniera diversa, perseguendo altri obiettivi. Se osservo la mia curva, vedo che spesso, laddove c'e' stato un guadagno in termini economici, c'e' stata una perdita in termini di generosita' o di saggezza. E invece dove poi ho avuto una perdita in termini economici, spesso c'e' stato un guadagno in termini di esperienza, di cultura e soprattutto di saggezza.
Pertanto e' veramente complicato descrivere la legge della curva perche' diverse variabili la determinano. Con gli anni ho capito che il mio "sesto senso" si spiega con la mia sensibilita', la mia perspicacia, il mio intuito e la mia capacita' di immaginazione. Nessun demonio, nessun santo ad influenzarne l'andamento, ma effetti casuali che non si riesce a controllare.
E purtroppo per questi dobbiamo usare dei modelli astratti, delle approssimazioni che spesso rendono la curva particolarmente irregolare, in modo tale da confondere, da rendere impossibile l'isolamento dei fattori che invece possiamo controllare (le cosiddette "variabili endogene"). Spesso di fatto si tende a descrivere la legge della curva soltanto con "variabili esogene", con il caos che non possiamo controllare, evitando la complessita' di considerare tutte le informazioni che possediamo per accontentarci di semplificazioni dettate dal luogo comune.
E cosi' come evitare il luogo comune ci consente di poter descrivere e capire la legge della nostra curva, cercare di descrivere nella maniera piu' accurata e trasparente possibile le informazioni in nostro possesso ci consente di poter capire e prevedere l'andamento dei mercati finanziari o dei fenomeni epidemiologici, demografici o sociali.
Il motivo per cui spesso i modelli usati per descrivere la realta' non sono accurati consiste nell'uso di informazioni incomplete, superficiali, obsolete o addirittura inesatte. Forse e' anche questa la ragione per la mia perdita di interesse nella matematica e di fede nel suo potere di descrivere cio' che ci circonda.
Essere matematici applicati spesso vuol dire limitarsi a descrivere la realta' o in maniera troppo astratta oppure seguendo le tendenze attuali, imposte dai canoni di ricerca in voga. In altri termini, essere matematici significa o descrivere il mondo estraniandosi oppure attraverso il luogo comune, anche se elitario. Ma in ogni caso non si analizzano le informazioni in maniera completa.
Nel primo caso c'e' un rifiuto nei confronti della societa' ed una rinuncia a descriverla perche' l'isolamento non consente di possedere tali informazioni. Nel secondo caso invece c'e' omerta' nei confronti dei modelli esistenti e tendenza a voler semplificare o approssimare per poter ottenere dei risultati. Pertanto in entrambi i casi si commettono errori dovuti all'inadeguatezza dei modelli alla realta' e cio' puo' causare perdite economiche, sociali oppure di conoscenza.
L'errore e' analogo a quello che commetterebbe l'individuo se prendesse le decisioni riguardo alla sua vita o ragionando in termini astratti oppure ragionando con le regole dettate dal luogo comune.
Quali persone incontrero' o rincontrero' inaspettatamente? Che direzione seguira' la mia carriera? Mi radichero' definitivamente o ritornero' a fare la "nomade"? E' tutto gia' determinato, ma non si possiedono abbastanza informazioni sugli eventi futuri oppure e' tutto dovuto al caso, alle coincidenze?
La mia vita e' gia' segnata nel nascere ed io la scopro pian piano oppure prende forma istante per istante? Entrambe le filosofie possono essere giustificate perche' entrambe sono espedienti per giustificare l'ignoranza dovuta all'incertezza e alla mancanza di informazioni sul futuro.
Anni fa ero ossessionata dal voler prevedere e controllare tutto, dal voler influenzare la legge della curva in modo tale da identificarmi con essa. Il mio approccio e' cambiato: il caos e la casualita' non mi spaventano piu' e quindi lascio loro la liberta' di esprimersi. Forse e' l'unico modo per poterli osservare e in un certo senso controllare, moderandone gli effetti negativi e devastanti che la loro repressione comporterebbe nella mia vita.
Il mio intuito mi suggerisce che rivedro' alcune persone o alcuni luoghi, anche se adesso non riesco ad immaginare come cio' possa accadere. Quest'elemento di casualita' rende piu' interessante la mia vita, aggiungendo curiosita' che la mera previsione annienterebbe.
In fondo dubito sempre che la matematica sia il mio mestiere. 

La mia non e' una critica negativa nei confronti del settore della ricerca scientifica, che comunque e' fondamentale per il progresso di un paese. Vorrei soltanto evidenziarne i limiti, imposti dalle esigenze del mercato e che il ricercatore non puo' superare, analizzando i dati che riceve, scegliendo il modello migliore e assumendo che tali informazioni siano veritiere.
Rinunciare alla ricerca soltanto perche' non si crede nella correttezza dei suoi risultati e' analogo a evitare di leggere i giornali e di informarsi perche'si pensa che tali informazioni siano corrotte. Pertanto occorre un atto di fede. La fede aiuta a vivere meglio. Ma non bisogna approfittare della fede per imbrogliare il pubblico, a cui spesso vengono divulgate informazioni parziali approfittando della loro ignoranza.

domenica 20 novembre 2011

La filosofia del dubbio


E mi sento “appesa”, formalmente legata ancora all'attuale contratto di lavoro, ma di fatto gia' inoccupata.
L'importante e' finire, concentrarsi sul lavoro da portare a termine, senza poterne iniziare uno nuovo. Il capo gia' di fatto non mi considera piu' come sua dipendente: non si preoccupa se vengo in ufficio o se lavoro da casa, se partecipo alle riunioni o meno.
D'altro canto, non posso giustificare la mia assenza, ma nemmeno dimostrare la mia presenza.
E resto immobile, nel dubbio.
Certamente la ricerca nell'unita' di terapia intensiva dell'ospedale andra' avanti, quando me ne saro' andata. E allora, qual e' stato il mio contributo?
Ho portato a termine degli studi che dovrebbero essere pubblicati. Ma il mio scetticismo e il mio distacco dal lavoro svalutano, o addirittura annullano, il valore aggiunto frutto di tale esperienza.
Mi sembra di non aver contribuito soltanto perche' non ho realizzato le mie aspettative, pur avendo esaudito le richieste del capo. E le mie aspettative vanno oltre le prestazioni professionali.
Torno in Italia essenzialmente per riprendermi la mia vita e per poter anche trascorrere il mio tempo con gli amici, che mi mancano parecchio. Torno in Italia per poter riprendere cio' che i miei obiettivi scolastici, e in seguito le mie disgrazie familiari, hanno distrutto: la mia predisposizione a voler aiutare gli altri e a voler collaborare per migliorare la societa' e non soltanto per ottenere riconoscimenti personali e titoli.
Infatti mi sembra di possedere soltanto titoli, sebbene ottenuti con sacrificio e determinazione. Ma il sacrificio non aggiunge valore al risultato, al contrario di cio' che credevo in passato. Il sacrificio, cosi' come la devozione, costituiscono soltanto il prezzo pagato per ottenere i risultati, ma non aggiungono valore a cio' che si possiede.
Che ne e' rimasto del mio perfezionismo negli studi? Soltanto il ricordo del riconoscimento e dei complimenti ricevuti dai docenti. Ma una volta che il prezzo e' gia stato pagato e il corrispettivo ricevuto, rimane il valore che attribuiamo a cio' che possediamo.
Ed e' per questo che adesso ho la sensazione di avere soltanto un titolo di studio, privo di qualsiasi altro valore da me riconosciuto. Un titolo che spesso non mi consente di ottenere soddisfazione dal mio lavoro e di esprimere la mia personalita'. Un titolo, di cui dubito la professionalita'. Un titolo che invece i miei ex compagni di studi universitari, seppur taluni con una votazione inferiore alla mia, hanno saputo valorizzare. Ho voluto ottenere quel titolo perche' presentava vantaggi competitivi sul mondo del lavoro. Ma trascuravo il fatto che tale vantaggio si annulla se non si sfruttano le occasioni per usufruirne. Quindi serve a poco studiare per avere piu' possibilita' professionali se poi quelle opportunita' non si sfruttano, per predisposizione o per mancanza di interesse.
E resto nel dubbio se riusciro' a trovare un impiego che oltre al mio titolo sfrutti anche le capacita' che voglio sfruttare. Le seconde sono piu' importanti delle prime per ottenere soddisfazione personale. Ma l'importante e' iniziare, iniziare una nuova carriera, e forse una nuova vita, muovendosi nella direzione della novita', uscendo, anche solo temporaneamente dal dubbio, dal buio, dall'incognito che seduce, ma trascina nell'ignoranza, rendendoci inermi, inflessibili, incapaci di prendere alcuna decisione.
Ma ancora per tre settimane saro' appesa alla vita londinese che, dopo aver ottenuto una casa, un lavoro, un conto in banca, e' stata imperniata sull'attesa. 
Attesa per iniziare a lavorare, attesa per i dati da analizzare, attesa per concludere un lavoro di fatto per me gia' concluso. Attesa, perche' la cultura inglese e' basata sulle attese: file allo sportello, nei negozi, nei locali, alle fermate del bus, ovunque. Attese, per evitare di lottare per ottenere.
Ma io preferisco lottare per conquistare, piuttosto che aspettare il mio turno affinche' cio' che desidero arrivi da me.
Anche l'attesa, come il dubbio, paralizza. Finche' rimarro' nella “filosofia del dubbio” e nell'attesa, saro' immobile, non potro' far progressi nel pensiero e nel movimento: un sasso a riva, che aspetta l'onda per essere portato via. 
Banksy Graffiti Bristol

sabato 12 novembre 2011

Il momento giusto

“Sei troppo giovane per fare certe cose.” “Alla tua eta’, giocavo ancora”. “Trent’anni? Ormai e’ tardi … Dovresti sposarti e metter su famiglia.”
Consigli e suggerimenti dettati dal luogo comune, provengono spesso dalla famiglia, ma anche dalle persone che ci conoscono poco. Cio’ dovrebbe far dubitare della profondita’ di tali giudizi.
Quante volte ci si sente dire. “Ormai e’ tardi”, oppure, “E’ ancora troppo presto”. Ma io vivo adesso e come e’ possibile che sia tardi o presto per i miei desideri se essi vengono concepiti in questo momento?
Il “Tardi” o “Presto” dell’Altro e’ relativo alla vita vissuta da una persona che rientra nella “media”, cioe’ alla vita, influenzata dalla scienza e dalla tecnologia, che viene definita dagli usi e costumi sociali e formalizzata dalla statistica con considerazioni del tipo: “L’eta’ media al matrimonio e’ di 30 anni per le donne e 33 per gli uomini”. Ma la mia vita non e’ un dato. E’ interessante studiare i fenomeni sociali per capire la realta’ che mi circonda, ma per vivere devo conoscere e capire me stessa, analizzando la mia persona e i miei desideri.
Solo vivendo in sintonia con la propria personalita’ e le proprie esigenze, e non in subordinazione alla “normalità” definita dalla statistica, si puo’ raggiungere la felicita’. La felicita’ e’ una sensazione naturale, soggettiva e non puo’ che provenire soltanto dall’esperienza della nostra vita e non di quella artificialmente piallata dalla societa’ o dalla famiglia.
Ogni mattina, sono io a sentire il “peso” di alzarmi dal letto. La collettivita’ puo’ condividere la sensazione, ma non puo’ viverla al posto mio. La collettivita’ puo’ salvarmi l’attuale esistenza, ma non il mio futuro divenire. Quando mi guardo allo specchio, devo vedere me stessa, non il riflesso della popolazione. Io, soltanto io, sono la persona che sa cosa e’ meglio fare, che sa qual e’ la strada giusta perche’ soltanto io mi conosco veramente o, perlomeno, sono la persona che possiede maggiori informazioni sulla mia vita rispetto a qualsiasi altra persona. Cosi’ come sono l‘artefice della mia rovina, sono anche la fonte della mia salvezza.
Non bisogna trascurare nessun particolare della propria vita per cercare di capire chi si e’ e cosa e’ meglio fare. Spesso si ha difficolta’ ad analizzare tali informazioni ed allora si preferisce il luogo comune. Ma se ci si conosce, si ha la sicurezza di dire “Ecco, adesso e’ il momento giusto per fare una cosa perche’ adesso ne sento la priorita’. La mia mente non pensa ad altro. Non e’ in pace fintanto che non l’avra’ ottenuta”.
Non sempre si puo’ sapere a priori che cosa si fara’ nell’immediato e quale sara’ la prossima direzione. Spesso cio’ dipende dalle circostanze e se l’occasione si presenta, come possiamo dire che e’ troppo tardi o troppo presto?  Forse e’ quello il momento giusto. Ma le opportunita’ capitano se siamo nella strada giusta che le scaturisce.
L’unico modo per poter prendere il treno e’ recarsi in stazione. Se poi passa in ritardo non dipende da noi. Ma siamo noi che decidiamo se vale la pena aspettarlo, sulla base delle nostre necessita’ e aspettative.
A volte il treno si perde, ma non bisogna dimenticare che c’e’ sempre un mezzo alternativo per raggiungere la destinazione, anche se magari e’ scomodo.
Non temiamo la fatica, una volta raggiunta la meta capiremo che ne e’ valsa la pena.

domenica 6 novembre 2011

L'idea dominante

Non ho paura di sbagliare, non ho paura di perdere, non ho paura di dover rinunciare a cio' che ho, non ho paura del futuro, non ho paura del presente e neanche del passato, non ho piu' paura dei parenti, non ho paura di cio' che non posso controllare e neanche di non saper controllare cio' che posso controllare, non ho paura del giudizio degli altri e neanche del mio. Non ho paura di nulla.
Ma sono davvero cosi' coraggiosa? Forse, piu' che coraggio, e' consapevolezza.
Consapevolezza che nulla realmente mi appartiene, se non l'idea di possedere qualcosa. Si puo' vivere con la convinzione che la propria vita abbia un unico obiettivo, da noi definito per scelta o imposizione. Se per causa di forza maggiore non riuscissimo a raggiungerlo, la prima sensazione sarebbe la disperazione, dovuta al crollo di cio' che avevamo definito “senso della nostra vita”. Ma se si riflette, si giunge alla conclusione che si ha soltanto perso l'idea di raggiungere quell'obiettivo e se si immagina qualcos'altro allora la vita puo' prendere un'altra direzione.
Il senso della vita non esiste, ma esiste il senso della nostra vita perche' siamo noi a definirlo. E se tale definizione dipende da noi, allora solo noi siamo in grado di cambiarla se ci impedisce di andare avanti.
Spesso si pensa di possedere anche le persone e pertanto si diventa gelosi o, nel caso di una madre, iperprotettivi. A volte, per disgrazia oppure perche' la loro vita segue un altro percorso, le persone care ci lasciano. E non c'e' altro modo che accettare il fatto di non possedere piu' l'idea di stare sempre al loro fianco e se quello era cio' che pensavamo fosse il senso della nostra vita, allora soltanto il definirne un altro ci puo' aiutare a sopravvivere.
Non si possiede neanche la propria vita, ma soltanto l'idea di essa e la prospettiva di una vita sofferente e' insostenibile e sta a noi trasformarla in una accettabile.
Quando i medici mi fecero temere di avere la sclerosi multipla tutto sembro' crollarmi addosso. Non riuscivo ad immaginare la mia vita senza poter soddisfare il mio perfezionismo, la mia ambizione di eccellere e, soprattutto, la mia presunzione di essere autosufficiente. Poi, riflettendoci, una vita diversa sarebbe stata possibile: sarebbe bastato soltanto cambiare idea. Smentita la possibilita' di una malattia, cambiai lo stesso. Il mio punto di vista da allora e' simile a quello che avevo quando ero ragazzina, quando vivevo usando il mio talento naturale senza contaminarlo con il pragmatismo, senza l'idea di possederlo gelosamente, senza sfruttarlo per soddisfare la mia idea di vittoria.
In fondo cosa significa vincere e cosa perdere?
Mi sentii vincente quando ottenni la laurea, quando trovai il mio primo impiego, quando arrivai in prima posizione in graduatoria per avere la borsa di studio al dottorato di ricerca, quando trovai lavoro come ricercatrice in epidemiologia e quando mi assunsero qui a Londra. Ma in fondo non si possiede la vittoria, ma soltanto l'idea di essa, idea che in molti casi svani' presto, una volta che la situazione si mostro' diversa dalle mie aspettative.
E allora perche' si ha paura di perdere quando vittoria o sconfitta dipendono soltanto dalle nostre idee? Forse sono le idee a spaventarci: si ha paura a sostenerle o a cambiarle e, di conseguenza, a vivere con esse e poi doverle abbandonare. Ma se non le sosteniamo, le perdiamo comunque.
Soltanto dopo aver ottenuto i miei traguardi potei considerare quasi ridicola la presunzione che avevo in passato di poter possedere la mia vita incanalandola in obiettivi ben delimitati. Da ragazzina e bambina invece possedevo soltanto l'idea di poter fare qualsiasi cosa e di poter diventare chiunque. La mia visione attuale e' molto simile a quest'ultima: diversificare, anziche' concentrare le energie in un'unica attivita', vivere alla giornata, mettendo alla prova giorno per giorno il mio talento, senza preoccuparmi del risultato, ma non per questo non essere produttiva.
Anni fa avrei pensato che vivere in questa maniera fosse da perdigiorno, da immaturi, da persone che non hanno le idee chiare sulla loro strada e, soprattutto, che non possiedono l'”idea dominante”, quella che prevale sulle altre, quella che non si pone in discussione e che e' aliena ad ogni domanda esistenziale.
Ma riusciro' a trovarla? Mi imbattero' in un cammino che una volta raggiunto fino in fondo non mi renda curiosa di tornare indietro e di vedere cosa c'e' nelle altre direzioni? Mi illudevo di averlo trovato, anche spinta dall'angoscia di vivere senza trovarlo.
Adesso pero' non ho piu' paura di vivere senza possederne l'idea, ma neanche di vivere possedendola e non abbandonandola. Vivere senza paura e senza meta puo' essere l'approccio ideale per trovare l'idea dominante.

mercoledì 2 novembre 2011

Manualita'

Il pensiero frena o addirittura annienta l’esecuzione di comandi provenienti dall’esterno. L’esecuzione invece frena o annienta il pensiero. Pensare consente di porre al vaglio della propria ragione i comandi che giungono dall’esterno.
Il pensiero valorizza l’individuo, anteponendolo al mondo esterno, mentre l’esecuzione lo annienta, assoggettandolo al mondo esterno.
Erroneamente, spesso si crede o ci si autoinganna, che la distinzione tra pensiero ed esecuzione coincida con la distinzione tra lavoro mentale e lavoro manuale. Ma in entrambe i casi si parla di lavoro e quindi di esecuzione di comandi. E allora perche’ si attribuisce maggior prestigio al lavoro mentale rispetto a quello manuale? Si pensa forse che l’uno sia lavoro da uomo e l’altro da scimmia? Fare un lavoro che impegna la mente infatti non vuol dire necessariamente pensare mentre fare un lavoro manuale non vuol dire solo muoversi ed eseguire. Ci sono lavori mentali che annientano il pensiero e l’individuo mentre lavori manuali che lo valorizzano.
Si pensi ad un impiegato di ufficio che tutti i giorni si limita a lavorare con i fogli di calcolo elettronici: schiaccia un pulsante che esegue un programma e poi “copia e incolla” i risultati ottenuti in una tabella. Non e’ mica diverso dalla catena di montaggio. La routine, l’alienazione e la spersonalizzazione sono le stesse. Solo che in fabbrica ci si spacca la schiena, mentre in ufficio il cervello. E’ un lavoro che non richiede nessuna elaborazione di pensiero. Anzi, se pensi ti distrai e quindi sbagli, rimettendoci personalmente. Eppure per essere impiegati in ufficio occorre spesso la laurea, anche se poi le proprie conoscenze teoriche non vengono applicate, ma sotterrate per sempre. Eppure un genitore si sente soddisfatto del proprio figlio se ha un impiego stabile, ben pagato e se il lavoro richiede per immagine giacca e cravatta, anche se poi in definitiva fa un lavoro alienante e con l’anzianita’ lavorativa perde la capacita’ di pensare. Pero’ il genitore non sarebbe altrettanto fiero del figlio se lavorasse in fabbrica perche’ farebbe un lavoro manuale, guadagnerebbe meno, andrebbe in giro mal vestito e rimarrebbe “schiavo” per tutta la vita, dovendo soltanto eseguire ordini. Ma l’impiegato e’ davvero libero? E’ vero che le possibilita’ di carriera ci sono, fino a diventare capo ufficio, ma spesso diventare responsabili significa soltanto mettere una firma sul lavoro altrui. E non vuol dire affatto pensare, ma piuttosto ordinare di fare agli altri le stesse cose che in passato hanno ordinato a te. E le stesse possibilita’ di carriera ci sono anche in fabbrica. Anche li’ si puo’ diventare capi. Percio’ non e’ vero che l’operaio e’ piu’ schiavo dell’impiegato.
Consideriamo ora un lavoro manuale come la parrucchiera. Il cliente arriva e desidera una nuova immagine: un taglio diverso o un nuovo colore.
E’ un lavoro creativo dove bisogna pensare, capire e soddisfare le esigenze delle persone, ma anche muoversi. E allora perche’ nessuna madre o padre, a meno che uno dei due non sia parrucchiere, incoraggerebbe la figlia ad intraprendere tale carriera se la figlia dimostrasse talento? Meglio annientare la creativita’ e il talento prendendosi una laurea dove si e’ studiato a memoria il minimo necessario per avere il titolo e per poi ottenere un lavoro apparentemente piu’ prestigioso, ma di fatto alienante. Annientare il proprio talento per cosa? Per uno stipendio maggiore? Ma se e’ persino un luogo comune dire che i soldi non fanno la felicita’ allora perche’ spesso, anche in maniera indiretta, si trasmette ai figli o agli studenti che l’unico obiettivo nella vita sia guadagnare? I soldi perdono il loro valore se non ci piace il modo attraverso il quale li guadagniamo. E allora li spendiamo con noncuranza, eliminando l’unico lato positivo della professione svolta.
Un discorso a parte merita la professione dell’insegnante. E’ un lavoro mentale, creativo che richiede il pensiero, ma anche l’uso del proprio corpo per comunicare agli studenti: la voce, la postura, il modo di muoversi in classe … Se decenni fa era considerato prestigioso, adesso invece e’ quasi una disgrazia, avendovi attribuito il sinonimo di frustrazione, precarieta’ e inettitudine.
Ma a parte la precarieta’, penso che la professione abbia perso prestigio perche’ il docente non ha piu’ lo stesso potere in classe che aveva una volta: non puo’ piu’ comandare ne’ punire gli studenti in alcun modo perche’ l’intervento dei genitori o degli studenti stessi, a seconda se si tratti o meno di scuola dell'obbligo, si tradurrebbe nell’applicazione della legge del contrappasso. Inoltre spesso l’insegnamento viene percepito come un ripiego per ovviare alla propria incapacita’ o al proprio rifiuto di svolgere una professione pratica e maggiormente remunerata.
Insegnare e imparare sono i due ponti del processo formativo. Spesso dal successo dell'uno dipende il successo dell'altro. La formazione implica anche lo sviluppo del pensiero, ma non sempre cio' accade se si studia come se si stesse recitando il rosario o si insegna come se si stesse celebrando messa. Pertanto dipende dal soggetto, dalle proprie capacita', dalla sua motivazione e dagli stimoli che riceve dall'ambiente esterno. Quindi cosi' come la formazione puo' essere vissuta e percepita come pura esecuzione di comandi, e quindi come svolgimento di un lavoro, anche il lavoro, a sua volta, puo' essere percepito come formazione.
Ma il prestigio di un mestiere non dipende dalle vere esigenze dell'individuo, ma da quelle imposte dalla societa'. Tali elementi sono: l'elevato guadagno (elevato rispetto alla media collettiva), l'immagine esteriore, il potere di comandare e influenzare gli altri, ma non la possibilita’ di pensare e manifestare il proprio pensiero. Ed allora perche’ si preferisce il lavoro mentale a quello manuale? Perche' di fatto non si da' all'educazione fisica la stessa importanza che si da' alle altre materie scolastiche? L'unica ragione e' forse perche' tra i due viene considerato piu' prestigioso fare un lavoro fisicamente meno stancante. Ma e' meglio “vendere” l'anima o il corpo?
Se pensi non lavori, se lavori non pensi. E continuo a domandarmi quale sara' la mia futura occupazione.

sabato 29 ottobre 2011

La strega di Natale

Luci, bancarelle, addobbi, torte, dolciumi e cibi festivi nazionali e internazionali. A Londra anche l'atmosfera natalizia e' multietnica, ma sempre alla stessa festa ci si prepara: regali, pranzi, cene, parenti... Tutto il mondo e' paese in quanto a consumismo e feste commerciali.
In quei giorni non ci si preoccupa della crisi economica, ci si dimentica della dieta che si stava seguendo, ci si sente felici e buoni, facendo gli auguri anche a gente che normalmente si odia e trascorrendo il tempo con parenti indesiderati.
Finite le feste, l'incantesimo svanisce: ritornano i problemi, i malanni, ci si sente pesanti...
Natale era ovviamente la mia festa preferita da bambina, quando ancora non conoscevo l'ipocrisia. Pensavo veramente che la gente festeggiasse e facesse regali spontaneamente e non per convenzione sociale. Poi, nell'adolescenza, cambiai idea. “Mamma perche' mi hai regalato quella maglia? Lo sai che quel colore non mi piace. Non devi farmi i regali per forza solo perche' e' Natale. Preferisco piuttosto non ricevere nulla”. E cominciai ad odiare il Natale anche perche' mi immobilizzava a casa dove mi annoiavo e percepivo il disagio familiare. Ma non avevo alternative perche' nessun amico era disponibile ad uscire il giorno di Natale o a venirmi a trovare a casa perche' ognuno lo trascorreva con la propria famiglia.
Dopo la crisi adolescenziale, vissi il Natale in maniera tollerabile fino alla morte di mio padre. Da quel momento in poi la ricorrenza natalizia comincio' a suscitarmi malinconia e tristezza, ricordandomi la disgrazia. Anche mia madre condivideva il mio sentimento, pur celandolo con un sorriso. Ora che non c'e' piu' neanche lei, la sensazione e' terribile.
Un unico giorno in cui sembra che tutte le famiglie siano unite, d'amore e d'accordo, mentre la tua non esiste piu'. Tutti festeggiano, mentre tu puoi solo recarti al cimitero per far visita alla loro tomba. Un unico giorno in cui sembra che la famiglia sia l'unico ruolo sociale esistente e sei un emarginato se non ne possiedi una o se vivi da solo. Un unico giorno in cui ci si sente in dovere di festeggiare e si attacca l'etichetta di “sfigato” a colui che lavora, che non si puo' permettere di trascorrere il tempo in famiglia, celebrando il consueto rituale, ma che intanto ti serve il cibo al ristorante per farti festeggiare o ti cura all'ospedale quando stai per scoppiare. Ma se e' un obbligo allora che festa e'? La festa dovrebbe essere un divertimento piuttosto che una forzatura.
Inoltre, se vivi all'estero, devi necessariamente ritornare nella tua patria natale, perche' il tuo convivente vuole rivedere la sua famiglia e perche' e' giusto far visita a tua sorella, anche se poi lei se ne va a casa della famiglia del suo fidanzato.
L'anno scorso trascorsi il Natale, il primo dalla morte di mia madre, in compagnia dell'altra mia sorella non autosufficiente. E' come se l'avessi trascorso da sola perche' lei non parla e non e' consapevole della sua esistenza, ne' della societa', ne' di tutte le sue feste. A lei non fa nessuna differenza se sia Natale o lunedi' lavorativo. A lei interessa soltanto che ci sia una persona che pensi a lei e l'unico modo per fartelo capire e per ringraziarti della tua considerazione e' tramite gesti, non parole. Ma preferisco il silenzio alle parole ipocrite di una famiglia apparentemente felice e senza problemi. Penso che in fondo molte famiglie non siano realmente felici, altrimenti perche' si sente il bisogno di celebrare la felicita' familiare in un unico giorno dell'anno?
E' gia' la seconda atmosfera natalizia che respiro a Londra dove i supermercati esordiscono ancora prima che in Italia, ricordandoti che devi comprare, mangiare e scoppiare ancor prima di Halloween.
L'anno scorso a dicembre, in prossimita' del Natale, passai un fine settimana da sola a Londra, poiche' il mio convivente si trovava in trasferta per una conferenza di lavoro. Abbandonando ogni pregiudizio sul Natale, visitai un mercatino sul lungofiume Tamigi. Volevo acquistare dei regali con intento sincero, ma sconforto e repulsione per la banalita' mi pervasero. Decisi allora di trascorrere un'intera giornata al British Museum. Anni di storia, di oggetti ritrovati sparsi per il mondo appartenuti a civilta' passate mi distrassero ricordandomi che in fondo le disgrazie personali non sono nulla in confronto alla storia dell'umanita', anche se noi le percepiamo come tragedie di rilevanza universale.
Pertanto divento la strega, quella che al Natale non fa neanche una piega, quella che in vista delle feste preferisce il museo al mercato, quella che non ha mai finto, neanche per le feste, che non ci fossero conflitti familiari e con i parenti, quella che manifesta apertamente noia per i passatempi natalizi e che non vi partecipa, quella che vorrebbe trasformare in zucche tutti i panettoni per poterci mettere il sale.
Ma in fondo la vita e' cosi' semplice e dolce se accompagnata da una fetta di panettone o da un buon bicchiere che ti aiuta a digerire l'acidita' che ti porti dentro. 

sabato 22 ottobre 2011

Senza premura (Intervallo)

Di pensieri ne ho sempre tanti e di tempo per formalizzarli poco, soprattutto in questo periodo in cui ho progetti da concludere e commissioni varie da sbrigare prima di tornare in Italia.
Pubblicare per forza, soltanto per incrementare i post nel blog cozza con il mio "codice deontologico". Cio' che scrivo deve essere sentito, ma anche ragionato e richiede tempo e attenzione poiche' non voglio scrivere errori ortografici (anche se purtroppo a volte mi sfuggono e li correggo non appena me ne accorgo).
Quindi, carissimi lettori, mi concedero' una pausa che potra' durare una settimana cosi' come due mesi, il tempo di concludere il lavoro e di traslocare. Per chi fosse appena capitato sul sito auguro il benvenuto e invito a leggere i miei post dal meno recente al piu' recente, ripercorrendo cosi' le fasi piu' importanti della mia vita. Grazie per il sostegno finora dimostrato.
Nell'attesa, vi anticipo quali saranno i miei obiettivi futuri citando la seguente frase che ho letto qualche anno fa su "Narciso e Boccadoro" di Herman Hesse:

"La meta e' questa: mettermi sempre la' dove io possa servir meglio, dove la mia indole, la mia qualita', le mie doti trovino il terreno migliore, il piu' largo campo d'azione.
Non c'e' altra meta".

mercoledì 19 ottobre 2011

Bipolarita'

Tra circa due mesi tornero’ in Italia, nella mia citta’ natale. Quale sara’ la mia prossima direzione in ambito professionale non lo so. Ma ho capito che il mio talento naturale e la mia personalita’ non trovano necessariamente applicazione nelle professioni che richiedono il mio titolo di studio. Cio’ non significa che sono destinata a trovare un lavoro che mi renda insoddisfatta, ma soltanto che la mia fonte di soddisfazione deriva da altri aspetti del lavoro che esulano dal lavoro in se’: l’ambiente, l’organizzazione, le persone con cui si lavora, la possibilita’ di esprimermi non soltanto come professionista, ma anche come persona. La situazione e’ analoga a quella scolastica: indipendentemente dal fatto che piaccia o meno studiare, si va a scuola volentieri, o per lo meno non lo si trova opprimente, se si va d’accordo con i compagni, anche soltanto con uno di essi. I voti accademici contano relativamente, cosi' come lo stipendio.
Anni per raggiungere la perfezione accademica a scapito dell’originalita’, perdendo di vista la mia personalita’. Forse non sono mai stata attaccata alla mia vita, disposta a sacrificarla per un ideale, un obiettivo o un desiderio. Le persone che mi amano o che mi hanno amato hanno sofferto per la mia vulnerabilita’ e instabilita’, ma anche per la mia testardaggine a voler seguire il mio istinto nonostante questo volesse dire allontanarmi da loro. I miei cambiamenti di rotta hanno fatto perdere la fiducia e la stima che i miei genitori, i miei amici e il mio ragazzo nutrivano nei miei confronti. E soltanto con gli anni e dopo avervi sofferto, mi sono resa conto di quanto nocivo sia stato il mio comportamento.
Ora ho capito i miei errori e non vorrei piu’ ripeterli. Cio’ vuol dire mediare tra le mie forze contrastanti: quella del controllo e quella dell’ebbrezza. Sono sempre passata da un estremo all’altro, disorientando le persone che frequentavo che spesso mi hanno detto: “Ma non sei la persona che conoscevo.” E invece si’ sono la stessa persona che pero’ adesso vuole esprimere l’altra parte finora oscura. Pero’ per muoversi da un polo all’altro si deve attraversare l'equatore. Se uno studente ha una condotta impeccabile e all'improvviso decide di tenerne una scorretta, insegnanti e compagni gradualmente cambieranno opinione perche' il cambiamento richiede tempo, non tanto per chi lo intraprende, ma per la collettivita' che deve adeguarsi ad esso. 
E se invece di passare da un polo all'altro mi fermassi all'equatore? Sarebbe tutto piu' semplice. Nessuno potrebbe biasimarmi, ma nemmeno lodarmi. Avrei una vita piu' semplice, piu' “normale”. Ma la normalita' e' un concetto relativo che varia nel tempo e che e' definito dalla societa'. Quindi se aspiro ad una vita “normale” vuol dire che la mia vita dipende dai limiti imposti dalla societa', mentre se aspiro ad una vita adatta a me vuol dire che la mia vita dipende dai limiti che mi impongo. E se i miei limiti coincidessero con quelli della societa'? Allora adatta e normale vorrebbero dire la stessa cosa e sarei fortunata. E se cosi' non fosse? Se la vita adatta a me fosse “anormale”? E se la vita adatta a me, come cervello pensante, non fosse adatta alla mia salute fisica e mentale?
Ho capito con l'esperienza che perseguire soltanto uno dei miei estremi contrasta con la mia definizione di vita adatta alla mia persona. Ho bisogno, per vivere, dei miei due estremi che vorrei coordinare armoniosamente. Negli ultimi anni ci ho provato. E' difficile, ma si tratta soltanto di rinunciare all'eccesso oppure eccedere da entrambe le parti nella stessa misura, cosi' da evitare al contempo il disavanzo e la mediocrita'.
Due sono le persone con le quali ho raggiunto l'apice dei miei due estremi contrastanti: la mia “meta'” di sesso femminile, una mia cara amica, e la mia “meta'” di sesso maschile, il mio convivente. La mia amica sa perfettamente fino a che punto sono capace di “perdere il controllo” e sublimare la mia pazzia, mentre il mio ragazzo sa perfettamente fino a che punto posso “mantenere il controllo” e raggiungere I miei obiettivi. Una ha ispirato la mia espressione “artistica”, l'irrazionalita', l'altro la mia espressione intellettuale e la razionalita'. Forse la paura di non sapere gestire simultaneamente le mie due forze mi ha indotto, in diverse fasi della mia vita, a privilegiare una ai danni dell'altra. Ma entrambe sono indispensabili per me e voglio conciliarle per non rinunciare a nessuna delle due.
Ho bisogno di stabilita' cosi' come di instabilita'. Ho bisogno di stancarmi cosi' come di riposarmi. Ho bisogno di lavoro cosi' come di vacanza. Ho bisogno di pensare cosi' come di agire. Ho bisogno di parlare cosi' come di tacere. Ho bisogno di ridere come di piangere. Ho bisogno della mia individualita' cosi' come della societa'. Ho bisogno di tutto cosi' come di nulla.

domenica 16 ottobre 2011

La trappola dell'indifferenza

La noia e l'indifferenza sono piu' pericolosi dell'odio o di qualsiasi altro sentimento negativo. Infatti e' molto facile abbandonarsi ad esse perche' non richiedono alcun comportamento attivo, mentre l'odio richiede azione sia per essere fomentato che per essere soffocato.
Se odiassi cio' che ho lo distruggerei. Ma se vi fossi indifferente non farei nulla, incurante e ignara dell'effetto negativo che cio' potrebbe comportare: l'abitudine all'indifferenza, ossia al vedere senza osservare, al sentire senza ascoltare, all'esistere senza vivere.
E' molto facile non contrastare la routine poiche' la ripetibilita' da' sicurezza e ci dispensa dal cambiamento, dal dover rinunciare a qualcosa che si ha gia' per ottenere qualcos'altro.
Se il mio contratto prevedesse un rinnovo automatico alla scadenza allora tacitamente mi lascerei intrappolare. Non dovrei fare nulla, soltanto stare zitta e continuare l'attivita' che sto gia' svolgendo. Nel mio caso invece il contratto termina alla scadenza senza alcun comportamento attivo da parte mia. Pero' di fatto il mio capo, poiche' ho svolto diligentemente il lavoro, si attiverebbe per il rinnovo, se decidessi di rimanere. In sostanza il mio assenso avrebbe lo stesso effetto del rinnovo automatico.
Ma il fatto di dover esprimere la mia volonta' e di essere responsabile della mia scelta mi impedisce di cadere nella trappola dell'indifferenza. Non posso continuare a rispondere “Non so, non ho ancora deciso”, altrimenti la mia indecisione comporterebbe la scelta del capo di trovare un'altra persona. 
Non ho mai espresso un giudizio, positivo o negativo, di cui non fossi convinta. Forse il fatto che dubito di rimanere e' segnale di indifferenza, ma nascondo i “dubbi sentimentali” verso il lavoro con le incertezze della vita e con le responsabilita' verso le mie sorelle.
Quando ho lasciato il mio impiego precedente la situazione era diversa: non potevo realmente scegliere il lavoro, perche' la priorita' di vivere insieme al mio convivente ne annullava la possibilita'.
Adesso invece il mio convivente e' con me. Sta per terminare i suoi impegni con l'universita' e dopo trovera' un'altra collocazione. Se fossi convinta di rimanere, cercherei di convincerlo a trovare lavoro a Londra. Le mie sorelle e la loro situazione delicata potrebbero veramente essere la ragione per farmi tornare. Ma se fossi veramente convinta di restare, cercherei una soluzione definitiva per risolvere le difficolta' familiari. In fondo, non posso continuare a vivere dipendendo da loro.
Ma nessun sentimento od obiettivo mi convincono a restare. Inoltre il mio ragazzo vorrebbe ritornare in Italia. E allora, non vedo perche' dovrei rimanere.
Non ho mai continuato a percorrere la stessa strada per inerzia e mi sono sempre chiesta che aspetto avessero i percorsi alternativi. Non ho mai abbracciato il proverbio “Chi lascia la vecchia per la nuova sa quel che perde e non sa quel che trova”. E' vero che si perdono l'abitudine e la sicurezza, ma e' anche vero che si trova sempre una nuova esperienza che, anche se si rivela negativa, ti cambia la vita e ti apre nuovi orizzonti. Nel mio caso, piu' che cambiare ritornerei alla vecchia. Ma cio' non vuol dire percorrere la stessa strada perche' cambierebbe il modo in cui la si guarda. 

mercoledì 12 ottobre 2011

La squadra

Downgrading, Bunga Bunga, Bavagli e tutti i balli mascherati del cavaliere senza faccia e senza vergogna. Altro che “Eyes wide shut”! Bisogna stare con gli occhi ben aperti. Ma dove? Su Internet? Sui giornali? Dove posso reperire informazioni utili per trovare la mia collocazione? Persino l'esistenza di Wikipedia e' minacciata. Se leggo le notizie penso: “Ma sono talmente masochista da considerare la possibilita' di un rientro nel Belpaese?” Che faccio se torno in Italia, visto che non ci sono possibilita' per far ricerca? Perche' non si avverte l'esigenza di innovazione? Perche' l'Italia e' ricca di risorse umane valide che scappano all'estero? Non ci sono fondi o non li si vuole impiegare?
In UK i fondi ci sono. Ma e' anche vero che gran parte di essi vengono reperiti tramite le numerose organizzazioni di beneficenza. Diverse spedizioni nel Kilimangiaro, Cina..., maratone, feste in maschera, vendite di oggetti vari hanno l'obiettivo di raccogliere denaro. Ed e' la gente comune a prendervi parte o a contribuire come puo'. Ma se ci sono soldi, non c'e' lo spazio fisico per conservarli: case larghe come latrine, strade strette e ingorgate, mezzi pubblici e uffici sovraffollati Pur essendo disordinata, talvolta inorridisco a dover accatastare libri e documenti a fianco del monitor del computer nel mio ufficio e a dover leggere un documento sotto la tastiera perche' la mia scrivania sembra un comodino. Eppure il lavoro c'e', pur privato dello spazio vitale. Lavoro senza terra.
In Italia invece ce ne sarebbe di spazio che spesso non si sfrutta. C’e’ la terra e ci sono le risorse che si preferisce lasciare disoccupate. Pero' non voglio credere che il Paese sia destinato ad andare in default. In fondo in tutta la mia vita ho sempre sentito lamentele e luoghi comuni: il lavoro non c'e', i giovani non hanno futuro, non possono sposarsi e avere figli. Ho trent'anni, sono precaria, non sono sposata e non ho figli. Ma tranne il fatto di avere trent'anni, il resto l'ho voluto io o l'ho accettato. Ho scelto di iscrivermi al dottorato di ricerca pur sapendo che la carriera futura sarebbe stata un'incognita. Se invece esemplificassi una situazione collettiva allora tutti i miei coetanei sarebbero nelle mie condizioni. E invece, per fortuna. la maggior parte di loro ha gia' una famiglia a carico e anche un lavoro stabile, indipendentemente dal titolo di studio. Un altro luogo comune e' che gli italiani non lavorano. Gli impiegati in ufficio passano le giornate a navigare su Internet per uso personale, mentre quelli degli sportelli pubblici stanno tutto il giorno alle macchinette del caffe' o fuori a fumare la sigaretta. Semmai si puo' dire che gli italiani sono poco produttivi perche' lavorano tanto. Otto/dieci ore in ufficio sono troppe e se per caso in una giornata si ha meno da fare non si puo' uscire prima senza essere penalizzati, con il risultato che si e' meno efficienti perche' stanchi e annoiati. E lavorare negli sportelli pubblici e' stressante. La gente arriva, non vuole aspettare, urla, insulta il dipendente che ha come unica valvola di sfogo la pausa caffe' o sigaretta.
In UK invece si ha piu' flessibilita' di gestire i propri impegni e gli impiegati degli sportelli lavorano in un ambiente molto piu' tranquillo visto che tutti si incolonnano ordinatamente in fila e aspettano il proprio turno senza scannarsi. Ma i problemi ci sono anche qua. Il lavoro flessibile vuol dire spesso comunicare soltanto via mail in maniera non sempre efficace poiche' non ci si vede e si deve aspettare ore per avere una risposta. Inoltre si tende ad organizzare il lavoro in base ai propri impegni e non alle reali esigenze dell'ufficio e delle altre persone che ci lavorano. Inoltre, il fatto che il Paese possieda fondi non vuol dire che li investa bene. Anche qua si scavano le fosse per poi riempirle. La verita' e' che, a differenza dell'Italia, si tende a sopprimere ogni manifestazione di malcontento, come lo hanno dimostrato i tumulti accaduti quest'estate. L'Inghilterra bruciava. Poliziotti in ogni angolo, pronti ad arrestare e a ristabilire subito la normalita'. Ma va tutto cosi' bene allora? Sara' vero che l'euro morira' prima della sterlina? Non posso crederlo. Non c'e' una nazione che ha sempre vinto nella storia e nemmeno una che ha sempre perso. L'Italia al momento e' in difficolta', ma questo non vuol dire che e' destinata al tracollo. E se veramente la situazione fosse cosi' grave allora stare qui ad aspettare di vedere la tragedia sui giornali sarebbe come restarsene a casa tranquilli sapendo che un genitore e' ricoverato gravemente in ospedale.
Non ho mai pensato di appartenere ad un luogo e nemmeno alla mia nazione. Ho odiato il mio Paese, cosi' come ho odiato la mia famiglia. Mi sono allontanata da esso, cosi' come mi sono resa indipendente dalla mia famiglia. Ma vedere il Governo che fa disastri fa lo stesso effetto che vedere la tua famiglia che non sa gestire l'economia familiare. E cosa dovrei fare disinteressarmene e rimanere comoda sulla sedia oppure cercare di fare il possibile per aiutare? E' proprio vero che non potrei rendermi utile?
Ritornare in Italia vorrebbe dire rinunciare alla vita tranquilla che sto conducendo per lottare e arrabbiarmi. Vorrebbe dire lavorare quasi il doppio per essere pagata la meta'. Vorrebbe dire vivere in un posto dove un titolo di studio elevato non viene valorizzato ne' riconosciuto in alcun modo. Ma vorrebbe anche dire giocare nella squadra per cui si tifa.

sabato 8 ottobre 2011

La descrizione di un viaggio

Tra il dire e il fare c'e' di mezzo il viaggiare. Di vacanze se ne parla, si discute, si passano ore a reperire su Internet informazioni sulla meta prescelta o da stabilire. Poi di vacanze si fruisce: si visitano le attrazioni turistiche, si frequentano i locali, gli alberghi, si affollano i negozi.
Ma cio' che consente la realizzazione dell' idea o progetto di vacanza e' il viaggio, inteso come spostamento fisico, ma anche “mentale”, tra il luogo di residenza e quello di villeggiatura.
Quando si viaggia si lasciano momentaneamente alle spalle i pensieri e le preoccupazioni abituali e subentra la curiosita' per il luogo da visitare. Dove dormiro' domani sera? Cosa visitero'? Fin dove arriveranno i miei piedi? La mia piu' che una vacanza e' un' avventura. Parto, ma non prenoto il pernottamento ne' organizzo a priori le singole giornate. Ho solo una guida turistica e di giorno in giorno decidero' cosa fare e dove andare. Quando mi trovo in una localita' diversa dalla mia dimora abituale mi dimentico del mio titolo di studio, del mio lavoro, delle mie responsabilita' quotidiane. I miei pensieri sono dettati soltanto dalle impressioni sul luogo, dall'ambiente che mi circonda, dalle mie esigenze fisiche e dal mio impulso e non sono condizionati dalle mie conoscenze o dalla mia posizione lavorativa. Pensieri che se non nascono come riflessioni o opinioni si traducono subito in azione e non vanno a popolare la lista delle cose da fare.
Io e il mio convivente abbiamo viaggiato parecchio in Europa, usufruendo a nostro tempo anche dell'offerta “InterRail” che ci consenti' di vedere diverse citta' e di viaggiare di notte come alternativa al pernottamento in albergo.
A Londra invece occorre prenotare sempre con largo anticipo anche i biglietti dei treni o dei bus per viaggi nazionali. Altrimenti si rischia di pagare delle cifre esorbitanti.
Pertanto circa due mesi prima della partenza, decidiamo di approfittare di un'offerta economica per il tragitto in bus Londra – Bruxelles. Il risparmio e' notevole in confronto al comodo e veloce Eurostar. Ma occorre viaggiare di notte. In fondo a me piace viaggiare di notte e dormire in posti diversi dal comodo letto. Quando viaggio cerco l'evasione, non la comodita' e me lo posso permettere, non avendo ancora raggiunto l'eta' fisica o cerebrale in cui non ci si puo' muovere di casa senza rinunciare ai propri agi o abitudini o addirittura senza pretenderne di maggiori.
Per me viaggio vuol dire transizione o scoperta. Come posso lasciarmi trasportare dai luoghi, dalle strade, dall'ambiente, dalle novita', da nuove idee e riflessioni che ne possono scaturire se mantengo gli stessi comfort e abitudini di casa?
In effetti questo viaggio e' stato particolarmente insolito. L'autista esordisce: “I bagagli diretti in Germania da questa parte, quelli diretti in Belgio dall'altra”. “Ma scusi, non ferma anche in Francia?”, chiede un passeggero. “Si', si” risponde l'autista, ma non gli dice dove deve mettere la valigia. Dal modo di parlare e dai comportamenti capisco che l'autista non e' inglese. Infatti saliamo a bordo e parte deciso senza preamboli come “Benvenuti signori e signore ...”. A Londra c'e' traffico, ma l'autista sfrutta tutte le occasioni per accelerare e sorpassare. Dopo quasi due ore si ferma e dice: “Facciamo dieci minuti di pausa per un caffe' o cosa volete”. Tutti rientrano in tempo, ma lui riparte senza nemmeno controllare. Mi tolgo le scarpe e mi riposo un po', reduce di una giornata lavorativa. Ad un certo punto sento: “OK, Let's go”. Siamo arrivati alla dogana. Occorre scendere per esibire i documenti. Mi affretto a mettere le scarpe e a superare I controlli. Quando rientro a bordo, freno l'intenzione dell'autista di ripartire senza il mio convivente: “Guardi che c'e' ancora una persona dentro”. Gli dico. Arrivati a Dover, prendiamo il traghetto per novanta minuti. L'autista incita a sbrigarsi a rientrare non appena finisce la navigazione. L'autista lascia il microfono acceso per alcuni minuti dopo questo annuncio ed i successivi. “Che tipo buffo”, penso.
E' notte. Il mare e' bello, anche se tira il vento. Tutti rientramo in fretta non appena giunti a Calais. Ma dell'autista nessuna traccia. Stiamo tutti fuori per un paio di minuti. I passeggeri di altri bus sono gia' tutti di nuovo a bordo. I bus a fianco suonano. Ricompare l'autista. Si era addormentato sul bus. Tutti risalgono, senza fare una piega. Se fossi arrabbiata con l'autista glielo direi espressamente. Ma in fondo sono divertita, anche se non mi fido troppo di lui e spero ci porti sani e salvi a destinazione. Dopo mezz'ora ferma l'autobus e scende a far benzina e a sgranchirsi le gambe. Quando riparte, riesco a dormire per un'ora o piu', finche' ad un certo punto avverto una frenata improvvisa che fa urlare una persona. Dopo un po' l'autista avverte i passeggeri dell'arrivo a Bruxelles. E' in orario. Sono le sei meno un quarto del mattino, ma sembra notte: nessun bar e' aperto. Ci rechiamo in diversi ostelli, ma nessuno ha disponibilita' di camere per la notte da venire.
Grazie all'ente del turismo troviamo sistemazione in un albergo che, pur essendo quattro stelle, offre per la notte una camera doppia a prezzi davvero competitivi.
Per le notti successive troviamo sistemazione in due ostelli diversi. Preferisco l'ambiente dell'ostello, dove mi sento piu' a mio agio e che mi incuriosisce di piu' per la sua varieta' e le persone che lo frequentano. Invece l' albergo a quattro stelle e' spesso frequentato soltanto da gente “addobbata” in uniforme, giacca e cravatta o tailleur e tacchi a spillo, che pur in vacanza sembrano recarsi a lavoro.
Quando sono in vacanza, la mia unica pretesa e' non annoiarmi. Ma in fondo la noia e' conseguenza della tranquillita' e del vivere agiatamente, potendosi permettere tutto. Se non fosse pericoloso, dormirei in stazione. Cosi' almeno capirei veramente cosa significa vivere senza pretese.
Bruxelles e' una bella citta', ricca di opere artistiche. Il fatto di essere bilingue, rende gli abitanti molto flessibili culturalmente e linguisticamente. Nei negozi si parlano correttamente anche altre lingue. Inoltre le persone non sono aliene o distanti come a Londra. Ti guardano in faccia quando cammini. Anche la vicina Gand, che abbiamo visitato e' molto bella.
Tre giorni vissuti intensamente, camminando e fermandosi solo quando lo decidono le proprie gambe.
Ma finita la vacanza, c'e' il viaggio di ritorno che riporta alla normalita' della propria routine. In realta' il viaggio di ritorno non e' stato per nulla ordinario. Abbiamo viaggiato con lo stesso autista del viaggio di andata. Si e' presentato subito vestito senza uniforme con un bicchiere in mano. Saliti a bordo attacca il navigatore. Poi a, differenza dell'andata, ci annuncia il benvenuto, pur sbagliando a dire la destinazione. Ma il suo sbaglio voleva essere uno scherzo, dice. Stavolta sembra molto loquace. Non sta zitto un attimo. Ride e scherza ad alta voce con due ragazze con le quali sembra flirtare. Dice che non dorme da giorni e racconta tutti i suoi viaggi e le politiche della compagnia dei bus dove lavora. Sono stanchissima, voglio riposare. Ma non riesco. Sono incuriosita dai suoi discorsi e dal suo comportamento non troppo professionale. Anche le ragazze vorrebbero riposare e lui le incoraggia a stare sveglie. Arriviamo alla frontiera. Stavolta dobbiamo fare il doppio controllo dei documenti: quello francese e quello inglese. Al controllo francese, il poliziotto si accanisce con la carta di identita' del mio ragazzo. Non si capisce qual'e' il problema. Sembra non riconoscerlo dalla foto oppure soltanto nutre pregiudizi riguardo al suo nome francese, cognome spagnolo, nazionalita' italiana e destinazione inglese. Vedendo la situazione, mi allineo a far la coda nell'altro sportello. Il tizio se ne accorge e, al mio turno, ferma l'altro poliziotto che mi stava gia' facendo passare. Ci chiudono per qualche minuto in uno stanzino. “Cosa succede? Qual e' il problema?” chiedo. “Solo controlli”. Sono agitata solo perche' ho paura che l'autista se ne vada senza di noi. “L'autista ci aspetta? Me lo garantisce?”. “Si'.” Mi risponde. Allora cerco di calmarmi. Vedo che continuano a passarsi tra le mani i nostri documenti, come se si divertissero. Dopo un po' arrivano con un foglio illeggibile perche' stampato da una stampante povera di inchiostro o toner. “Firma”. Mi dicono. “Non leggo”, rispondo. E' un foglio in italiano. Sembra quasi una dichiarazione, ma non si legge bene. “Firma”. “Abbiate pazienza, non riesco a leggere”. Poi mi decido a firmare perche' capisco che vogliono solo verificare la firma del documento. Ma non potevano farmi firmare un foglio bianco?. Penso. Firmo. Non basta. Mi fanno firmare un'altra volta. Poi mi chiedono il codice fiscale. Mi trema la mano. “Guarda, e' in panico”, dice il poliziotto all'altro. “Veramente sono stanca, non ho chiuso occhio” rispondo. Poi uno di loro mi guarda bene, confrontando la mia faccia con la foto nel documento. “Ero piu' bella, lo so. Ero appena uscita dal parrucchiere.” Gli rispondo. “Vai a Londra? Sei italiana? Parli francese?”. “Conosco il francese, ma non sono abituata a parlarlo. Oramai mi viene naturale parlare in inglese con gli stranieri. Senta, tra circa quattro ore devo andare a lavoro. Lavoro in un ospedale a Londra”. Tiro fuori il mio badge con la foto. Allora si convince. Ci lascia andare. Ritorniamo sul bus. Prendiamo il traghetto. Non ho dormito per nulla, svegliandomi con caffe' e musica ad alto volume.
Torno a Londra e al lavoro. “Allora pensi di chiedere il rinnovo del contratto?” Mi chiede il capo. Ma ne' il viaggio ne' il sonno hanno ancora portato consiglio. 

mercoledì 28 settembre 2011

L'oceano delle alternative

Londra e’ talmente piena di possibilita’ da confonderti. Diverse offerte di lavoro, diverse opportunita’ di svago, intrattenimento, incontri. Bisogna sempre stare all’erta in Internet, leggere continuamente gli annunci e le offerte, per non lasciarsi sfuggire nulla.
In realta’ cerco un modo costruttivo per impiegare il mio tempo libero, per “integrarmi” alla comunita’ locale e migliorare la mia confidenza con una lingua che non padroneggio come quella italiana.
Cerco un’attivita’ che mi faccia sentire personalmente legata alla citta’ e non solo contrattualmente, come nel lavoro. Un’attivita’ che mi dia la motivazione per restare. Eppure mi perdo, nell’oceano delle alternative. Vaglio diverse opportunita’ di volontariato o svago, per acquisire nuove competenze ed esperienze che potrebbero essere utili anche per un eventuale cambiamento professionale. Ma ogni proposta richiede un impegno costante di un certo numero di ore alla settimana per un determinato numero di mesi. Vorrei recarmi di persona dagli organizzatori e chiedere informazioni personalizzate per capire se il ruolo e’ adatto a me. Infatti le informazioni fornite nell’annuncio sono precise, dettagliate e non lasciano spazio al malinteso, ma faccio fatica ad inquadrarmi in qualsiasi descrizione di schema, profilo, ruolo. Pero’ in UK l’approccio “face to face” e’ deludente. Si crede che tutto cio’ che occorre sapere sia reperibile sul web e convertibile in carta. Pertanto se ti presenti a chiedere pensano che sei tecnologicamente sottosviluppato ed allora ti stampano l’offerta e la domanda di candidatura per iscritto (application form)  in cui occorre fornire le proprie generalita’, “vocazioni” e referenze. Poi aspetti giorni o settimane per ricevere una risposta ed eventualmente fare un colloquio.
Avere un “ruolo sociale”, anche se a titolo gratuito, richiede superare selezioni analoghe a quelle di una posizione remunerata.
Il mio spirito d’iniziativa e’ stato spesso frenato dalla “carta” o meglio dal documento elettronico da compilare. Sono una persona impaziente che vuole soddisfare immediatamente i suoi desideri, ma che e’ anche capace di reprimerli per mezzo della ragione. “Ma no, lasciamo stare. In fondo quando torno dal lavoro non ho voglia di far nulla e il fine settimana e’ sempre corto...”.
Pertanto considerare tutte le opportunita’ equivale di fatto a non valutarne alcuna. Sul “tutto” il “niente” prevale.
Ma la curiosita’ verso la citta’ rimane. Allora usufruisco di attivita’ ricreative gratuite, sponsorizzate dal luogo o dal quartiere in cui lavoro o da quello in cui vivo, dove ci si ritrova, per esempio, per partecipare a camminate guidate di decine di chilometri, in zone di Londra che il turista, ma anche il residente spesso ignorano. In tali occasioni si incontrano diverse persone di diverse nazionalita’. E’ divertente chiacchierare per farsi un’idea della loro esperienza nella citta’. Ma finita la passeggiata, ci si saluta e ognuno ritorna al suo “rifugio”. E’ difficile stabilire nuovi legami in una citta’ straniera. Sembra tutto cosi’ effimero, o forse sono io che mi sento fuggevole. Uso la citta’, sfrutto i servizi offerti. Ma non offro nulla in cambio. Nulla, a parte il lavoro previsto nel contratto.
Se vivessi da sola e non fossi fidanzata sarei piu’ motivata ad integrarmi o a confondermi nell’ebbrezza e nella promiscuita’ londinese?
A volte vorrei non avere nessun legame, neanche familiare, e farmi trasportare la’ dove mi porta il vento.
Sono i legami pero’ che vincolano ad un luogo particolare. Il mio convivente e’ italiano, le mie sorelle e i miei amici pure. Per quanto io possa divertirmi e stare bene a Londra il mio pensiero si rivolge sempre alle persone che pur essendo lontane sono sempre a me vicine. Cio’ che ci lega e’ l’affetto oppure la complicita’. Se tornassi in Italia, nella mia citta’ natale, forse mi sentirei quasi soffocata dalla provincialita’ che spesso ho criticato. Non potrei avere le stesse possibilita’ e le stesse prospettive di carriera. Non potrei soddisfare la mia curiosita’ per la varieta’ del cibo proveniente da tutto il mondo e per la diversita’ culturale. Ma potrei ancora essere d’aiuto alle mie sorelle, potrei frequentare i miei cari amici, ristrutturare la mia casa e forse “stabilizzarmi”.
La propria terra va coltivata con tutte le cure necessarie altrimenti e’ meglio abbandonarla per sempre. In ogni caso, per quanto ci si possa annoiare tra le mura domestiche, la casa e’ l’unico posto dove si vuole ritornare, l’unico luogo che ci fa credere di possedere qualcosa di stabile.

venerdì 23 settembre 2011

Precarieta'

Tra pochi mesi “ scadro’ ” a Londra, o forse Londra “ scadra’ ” a me. Spesso e’ reciproco: ti assumono per un anno, con possibilita’ di rinnovo. Poi effettivamente i fondi ci sono e anche le prospettive future, ma nella tua mente e’ subentrata la scadenza. Ti dicono un anno e quindi ti prepari psicologicamente: affitti la casa per un anno, ti vincoli a pagare le bollette per quel periodo, ti concentri su obiettivi annuali che poi raggiungi e con essi si conclude anche il tuo contributo lavorativo. “Consumare preferibilmente entro (vedi contratto di assunzione)”. Tutto cio’ che potevi guadagnare l’hai introitato e cosi’ ha fatto l’azienda, con il risultato di sentirti un consumatore un po’ consumato. 
Con il contratto a tempo indeterminato invece la scadenza e’ molto piu’ naturale: finche’ c’e’ vita, da parte tua e dell’azienda oppure finche’ entrambe vi sopportate.
Non ho mai ricevuto una proposta senza termine prestabilito. Sara’ forse perche’ non cerco la stabilita’ o perche’ essa e’ diventata un lusso che pochi possono permettersi?
Il capo mi rassicura che non ci sono problemi ad ottenere il rinnovo del contratto, ma piuttosto sono io che devo decidere se chiederlo o meno.  Pero’ obietto che sulla carta nessuna proroga e’ menzionata. In realta’ mi fido delle sue parole, ma in fondo vorrei trovare una giustificazione per concludere l’esperienza, per delegare a fattori esterni la responsabilita’ della mia decisione.
In effetti non ho mai lavorato piu’ di un anno nello stesso posto, tranne all’Universita’ dove la scadenza era triennale e vincolata all’ottenimento del titolo di dottore di ricerca. Eppure mi sembrerebbe irrazionale rinunciare a proseguire l’attuale carriera. Non posso certamente lamentarmi della mia posizione: e’ un lavoro che valorizza le mie qualifiche ed e’ anche decentemente remunerato. Inoltre, al momento, non richiede neanche troppa fatica.
Sembra proprio la giusta ricompensa per le difficolta’ e i sacrifici fatti in passato. E allora, perche’ dubito di rimanere? Il lavoro che faccio e’ individuale. Sono l’unica statistica della terapia intensiva. Non ho confronto con i pari, ma solo con i medici ad alto livello o, di recente, con una “stagista”. L’aspetto positivo e’ l’autonomia che ho nell’organizzazione del mio lavoro, subordinatamente al carico stabilito dal capo e alle scadenze fissate dalle conferenze, riunioni, proposte di articoli a cui pero’ non partecipo anche se ottengo il riconoscimento del merito nelle pubblicazioni. Il lato negativo e’ che non ho modo di discutere dei risultati delle mie analisi statistiche con esperti in biostatistica, ma soltanto con i medici che si preoccupano piu’ dei numeri in se’ e della loro rilevanza clinica piuttosto che del processo che li ha generati.
E’ vero che ogni azienda ha i suoi problemi ed ogni lavoro presenta i suoi lati negativi, ma il punto fondamentale e’ che non sono attaccata a cio’ che faccio. Anzi, spesso me ne sento distaccata. Ed e’ per questo che non mi sembrerebbe ragionevole rifiutare una nuova proposta di assunzione, ma neanche accettarla. Penso di non aver nulla da perdere, se non la busta paga, ma nemmeno da guadagnare, oltre al reddito. Infatti nessuno mi insegna il mestiere, ma sono io che devo imparare da sola cio’ che non conosco e che e’ utile per il lavoro che devo fare.  Da un lato mi alletta, ma sento la mancanza di un esperto di riferimento con cui potermi relazionare e confrontare. Inoltre vorrei lavorare di piu' con le persone, elaborare idee, sviluppare concetti piuttosto che limitarmi ad analizzare dati numerici, elaborare tabelle e sviluppare modelli statistici.
A volte penso che mi sentirei piu' utile e sarei piu' soddisfatta se potessi aiutare i pazienti in ospedale, anziche' imbambolarmi davanti al computer a pensare e a produrre risultati che non si sa in quale modo contribuiscano a migliorare la vita dei degenti.
Forse il mio atteggiamento deriva soltanto dalla curiosita' per le novita', per l'incognito, per le strade non intraprese, per le mansioni di cui non sono competente.
Sarebbe tutto piu’ semplice se potessi godere di cio' che ho e non voler abbandonarlo per cercare di conquistare quello che non ho o per seguire i miei “spiriti animali”.
Ma non voglio rimanere ingabbiata in cio’ che ho realizzato finora. Si costruisce una rete per pescare, ma non per caderci dentro. Ho studiato per avere piu’ possibilita’, per essere libera di scegliere, ma non per individuare un terreno dentro il quale infossarmi. Ho studiato anche per essere libera di cambiare o migliorare.
Il cambiamento richiede mettere in discussione cio’ che si ha e vincere l'inerzia dovuta all'abitudine.
La precarieta’ ha il suo lato positivo: induce a pensare che nulla e’ duraturo, che ogni progetto ha un termine, che non si possiede nulla al di la’ delle proprie capacita’, l’unico vero patrimonio che consente la propria sopravvivenza, una volta conclusasi un’esperienza lavorativa. 
Piu’ ci si concentra su cio’ che si ha e piu’ ci si dimentica di cio’ che si e’. Ma allora chi sono? Rimarro’ a Londra o cambiero’ destinazione? 

lunedì 19 settembre 2011

Il Blog

Voglia di esprimermi. Raccontare. Dare forma al mio libero pensiero. Far riflettere e al contempo enucleare la mia filosofia, ma anche comunicare.
I libri a volte cambiano la vita. Leggi qualcosa che ti apre nuove prospettive, che ti mostra cio' che non hai ancora visto, che ti porta a conclusioni a cui da solo non saresti arrivato.
Vorrei scrivere un libro. Un libro che riflette il mio pensiero. Un libro che nasce da me e non dalle mie conoscenze scolastiche, accademiche o professionali.
Ma oltre a descrivere il proprio pensiero, occorre anche circostanziarlo, capirne le origini. E la fonte del mio pensiero e' la mia vita: le esperienze accadute, le persone incontrate.
Il mio pensiero non nasce dalle analisi di dati numerici per cui sono pagata. Il mio lavoro esprime soltanto le mie conoscenze e il mio modo di metterle assieme e padroneggiarle. E tale modo e' subordinato alle richieste che vengono dal mio datore di lavoro. Tali richieste non devono andare contro i miei valori, i miei ideali e i miei principi, altrimenti finirei per odiare il lavoro e quindi me stessa.
Non odio il mio lavoro, altrimenti lo lascerei subito, perche' la mia vita e' piu' importante. Ma nemmeno mi sento troppo coinvolta in cio' che faccio.
Forse il lavoro non mi esprime pienamente? Forse e' utopia voler fare un lavoro che sia lo specchio della propria anima ed e' quindi aberrante pensare che vita e lavoro siano due facce della stessa medaglia? Ma se e' utopia, allora perche' si lavora piu' ore di quelle in cui ci si ferma a pensare? E' utopia vivere?
La ragione della mancanza di sentimenti verso il mio attuale lavoro e' forse dovuta al fatto che empatizzo il comportamento inglese. I "veri" inglesi non esprimono le loro emozioni neanche verso il lavoro. Nessuno sembra che odi il suo impiego, ma nessuno dimostra neanche entusiasmo, passione verso di esso.
Quando ci sono molti progetti e studi in corso da terminare, il lavoro diventa il mio primo pensiero, ma forse soltanto perche' mi sottrae energie mentali per altri pensieri e mi stanca intellettualmente, anche se fisicamente ne risento, stando ore ed ore seduta davanti alla scrivania. E per riequilibrare mente e corpo, durante il tempo libero sento l'esigenza di stancarmi fisicamente. E piu' la mente si affatica, piu' il corpo deve stremarsi. "Prima o poi mi sa che vado a spaccare legna nel week end", penso.
Lavorare, lavorare in continuazione e' il solo modo per annientare il proprio pensiero. Di giorno e in settimana occupare la mente, mentre di notte e nel week end occupare il corpo. Non dormire mai, per non sentire il vuoto esistenziale.
Ma quando nel mio lavoro cominciarono ad esserci tempi morti, ecco che esplosero i pensieri, repressi dalla stanchezza e nati dalla noia. Pensieri che e' pericoloso trascurare.
"Se fossi in te uscirei prima oggi". Anche il capo mi incita. Ed allora che senso ha continuare a far finta di lavorare se non c'e' da fare per oggi? Il lato positivo e' che in Inghilterra l'individualità e' un valore.
Passeggio lungo il Tamigi. Ma cosa mi piace veramente fare da sola, nella mia individualita'?
Il mio ragazzo si appassiona di giochi matematici. Risolve problemi per diletto, problemi che spesso muoiono sul suo computer, che non escono di casa, che nessun altro potra' leggere.
Ma io non riesco ad appassionarmi a qualcosa che nasce da me e muore dentro di me, oppure che rimane isolato tra le mura domestiche. Sento l'esigenza di spalancare la porta e fare uscire la mia espressione. Da piccola, quando non sapevo con chi giocare o cosa fare, uscivo in balcone a cantare a squarciagola ed ero contenta, finche' mio padre o la vicina di casa non protestavano.
La libertà e' il valore per me piu' importante e pertanto rispetto anche quella degli altri. Non voglio fare qualcosa che disturba o nuoce al vicino. Ma sono veramente soddisfatta quando faccio qualcosa che gli altri apprezzano.
Se lavoro e gli altri mi trasmettono il loro apprezzamento allora riesco ad amare il mio lavoro ed essere motivata.
Al momento, nessuno si lamenta di come svolgo il lavoro attuale, ma neanche mi sprona a farlo meglio.
La mediocrità e' il risultato dell'impassibilità. Come si puo' mirare a fare un mestiere bene senza infervorirsi?
Una persona che mira solo alla sopravvivenza non puo' che ottenere solo risultati mediocri, senza infamia e senza lode.
Ma io voglio vivere, non solo sopravvivere.
A differenza delle mie passate convinzioni, realizzo che in fondo sono capace ad accettare la mediocrità nel lavoro. In compenso sento l'esigenza di esprimermi nel tempo libero, come in effetti facevo quando ero ragazzina.
Sopravvivere al lavoro/scuola, ma "vivere" e distinguersi in attività sociali o ricreative oppure "vivere" e distinguersi in ambito lavorativo/scolastico, ma avere una vita privata ordinaria, mediocre, qualunque. In entrambe i casi, mi sono distinta.
Il qualunquismo esprime una persona che non ambisce ad emergere in nessun ambito. Il qualunquismo e' la scelta migliore per una persona convenzionale, ma non per me.
Non rivelo me stessa se resto in ombra. Non sono felice se passo inosservata, se non catturo  l'attenzione dell'Altro o se non comunico alcun messaggio o rivelo i miei sentimenti.
Aspiro a fare qualcosa che non sia ordinario. Ed e' per questo che ho mirato alla perfezione o all'espressione creativa.
Ma ora mi rendo conto che e' piu' forte l'espressione creativa. Infatti la perfezione mira a migliorare qualcosa che esiste gia' mentre io vorrei creare qualcosa di mio, di originale.
Vorrei scrivere un libro, ma un blog puo' piu' facilmente permettermi di raggiungere il mio scopo: manifestare il mio pensiero che vuole esistere al di la' di me stessa.