domenica 12 aprile 2015

Ganga

Lasciate il bambino libero di esprimersi, vi sorriderà.
Lasciate il bambino libero di esprimersi, vi ringrazierà.
Lasciate il bambino libero di esprimersi, vi mostrerà il suo mondo.
Lasciate il bambino libero di esprimersi, vi mostrerà la vita.

Potrei anche aggiungere lasciate il bambino libero di esprimersi e vi farà dormire, cucinare, uscire, insomma vivere. Non soffocate il pianto del bambino, ma ascoltatelo e capirete qual è il problema.

Lasciando libera mia figlia, che in “arte materna” chiamo Ganga, ho capito veramente il suo mondo e il suo ritmo. Dorme di notte, nove/dieci ore di seguito. Di giorno però non resiste per più di due ore senza mangiare. E' incredibile come sappia autoregolarsi. Mangia più o meno la quantità che dovrebbe mangiare in base al suo peso. Se ad un pasto mangia meno, recupera nel successivo. Mangia con grinta e non più con estrema lentezza. A volte ancora piange o si agita davanti al biberon, forse perché teme di essere costretta a dover finire. Ma poi riesco a calmarla. 

Non sono riuscita più ad allattarla naturalmente. Ho perso il latte anche grazie agli orari imposti. Ci sono stata malissimo. Ma ho cercato di non abbattermi, di non sentirmi una madre di serie B, solo perché non posso permettermi di “boicottare” le multinazionali del latte.

In fondo non è il latte a fare la mamma, anche se il latte che fa la mamma è più buono.

L'allattamento può essere una relazione anche con il biberon, a patto che sia sempre la madre a farlo.
Il bambino infatti cerca comunque conforto o vuole riposare dopo aver mangiato. Nessun bambino piange, mangia e poi dorme senza trovare conforto nel seno materno. E se non c'è il seno, le coccole, gli sguardi, le carezze e i baci sono degli ottimi sostituti. 

Quindi non bisogna “piangere sul latte artificiale”, ma darsi da fare per far sentire il calore materno aldilà del biberon. Se ci si lascia deprimere, ci si allontana dal bambino. Se ci si lascia deprimere, non si riesce a dare quell'amore che il bambino cerca. Occorre concentrarsi sul bambino e su ciò di cui ha bisogno e non sui problemi personali. Non è facile, ma è il bambino stesso a dare la motivazione.
L'amore che si prova è più forte di qualsiasi altra cosa. 

Non voglio dare consigli. Solo constatare che la natura prevale. Non inquinatela e vivrete in maniera sana. Non sfruttatela e vi darà buoni frutti. Rispettatela e lei rispetterà voi. Curatela e lei fiorirà. Lo stesso discorso vale con i bambini.

E con questo (forse) mi prendo di nuovo una pausa. Vi lascio con una riflessione sulla felicità. Sono felice con mia figlia, ma in fondo ero felice anche prima e sarei stata felice anche senza figli (anche se, dal momento che ho una figlia, non sarei felice senza di lei). Infatti, cito Tolstoj “La felicità non dipende dalle cose esterne, ma dal modo in cui le vediamo.” Pertanto la felicità non dipende dall'avere o meno un figlio, ma dalla nostra percezione di felicità e dall'idea che abbiamo di essere genitori. La nostra testa è veramente ciò che ci consente di essere felici. E adesso la mia testa ha come pensiero principale la bimba.



giovedì 9 aprile 2015

La condanna

Già quando ero in gravidanza pensavo fosse contrario ai miei principi allattare ad orari e costringere un bambino a mangiare. I bambini sanno autoregolarsi. Lo confermano diversi testi. E perché la mia bambina non avrebbe dovuto essere in grado di autoregolarsi? Perché non avrebbe potuto mangiare quando e quanto voleva? Perché dovevo svegliarla per farla mangiare?

Ipse dixit. Se mi han detto di far così vuol dire che nel suo caso è necessario. Forse perché è nata prematura? Ma mica prematura vuol dire ritardata nel capire i bisogni? Dubitavo, ma tuttavia obbedivo a ciò che mi avevano detto. Ero rimasta spaventata da quell'esperienza e mi sentivo ancora in colpa per non essere stata in grado di nutrirla adeguatamente. Per non sbagliare, per non espormi, per non rischiare, seguii alla lettera ciò che mi dissero.

Doveva fare sette pasti al giorno, cioè ogni 3 ore e mezza circa. Avevo comprato la bilancia per la doppia pesata e se non riusciva a succhiare il quantitativo prescritto dovevo integrare col latte artificiale.

La pesavo. Segnavo il peso. La tenevo attaccata al seno non più di mezz'ora. La ripesavo. Segnavo il peso. Integravo col latte artificiale. La tenevo in braccio finché non finiva tutto il pasto o quasi. Segnavo quanto riuscivo a farla mangiare. Non era tutto così semplice e lineare. 

I bambini non sono macchine. A volte mentre mangiava si interrompeva se doveva sporcare il pannolino. E ci impiegava un po'. Per evitare sovrapposizioni con il pasto successivo, cercavo di sollecitarla. Ma niente da fare. Perdevo solo tempo. In effetti aveva ragione. Come si può mangiare mentre si caga? A parte che non è piacevole, è anche difficoltoso. Pertanto era assurdo pretendere di rispettare gli orari. Alla TINO risolvevano tutto in fretta con i microclismi. Ma io mi rifiutavo. Persino da adulti ci si concede il tempo per i propri bisogni, leggendo magari. Perché allora mettere fretta ad un lattante? Perché non aspettare che faccia da solo? Mangiare e cagare sono le uniche cose che un lattante sa far da solo. Perché dobbiamo farle noi allora? Perché dobbiamo imporre i nostri ritmi o condizionare i loro bisogni?

Non volevo dare alla bimba l'impressione che la vita fosse solo regole, privazioni, bisogni definiti da altri. Era contro i miei valori. Volevo trattare la bimba come se fosse un esploratore della Terra che vede il mondo con curiosità, libero, guidato solo dal proprio istinto. Volevo che lei decidesse quando svegliarmi per poter mangiare, quando piangere per avere conforto. Non mi avrebbe disturbato. Io sarei stata pronta a soddisfare i suoi bisogni. Questo pensavo fosse il mio ruolo di madre. Non volevo svegliarmi quando puntavo la sveglia. Non era lei che dovevo nutrire. Non volevo stare ore seduta sul divano a provare in tutti i modi di farla mangiare, con le coccole, con i sorrisi. Non era in quel modo che volevo dare amore a mia figlia. 

Piangevo, non ce la facevo a farle finire il biberon. Non potevo sentirla piangere perché non voleva mangiare più di quel che lei riteneva necessario. Coinvolsi anche il mio compagno. In questo compito lui ebbe molto più successo. Riusciva quasi sempre a farle finire il pasto. Col passare del tempo però lei imparò a sputare, a vomitare. Mangiava male. Ci metteva ore. Ingurgitava un mucchio d'aria. Era rintontita tutto il giorno. Veniva svegliata in continuazione, perché quando finiva il pasto e si appisolava, era quasi ora del pasto successivo.

Io non dormivo più. Avevo quasi le allucinazioni dalla stanchezza. Avrei voluto mandare tutti al diavolo. Tutti quelli che volevano stare ore a guardarmi, mentre ero sul divano a torturare mia figlia. Tutti quelli che ancora avevano il coraggio di dirmi “ma sembra che non abbia fame” “ma meno male che c'è il latte artificiale” “ma ti fa dormire la notte?” “ma perché non venite per le feste?””ma quando hai la prossima visita pediatrica?”

A me non importava di non dormire più. Volevo solo che mia figlia stesse bene. Mia figlia cresceva di peso. Era sana, per i medici, ma vedevo che non stava bene. Era sempre nervosa, aggressiva. Io riuscivo sempre a calmarla, a farla riposare. Ma la situazione stava peggiorando. Era talmente isterica che non riusciva più ad attaccarsi al seno. Piangeva davanti al biberon e puntava i piedi sulle mie gambe come se volesse scappare. Faceva così anche se aveva fame, ma forse non voleva mangiare perché aveva paura di essere forzata. Era difficile capire il suo comportamento. 
 
Era una situazione insostenibile. Capisco che era importante che crescesse di peso, ma per me era più importante che crescesse serena. Se volevo prevenire futuri problemi, per esempio di bulimia, visto che aveva già imparato a procurarsi il vomito, non potevo continuare con quella politica.

Però in fondo avevo paura di ascoltare lei per andare contro i medici, paura che l'avrebbero di nuovo portata via, se non fosse cresciuta a sufficienza. Ma mia figlia non poteva crescere ad un ritmo che non era il suo. Dovevo intervenire a suo favore. Dovevo lasciarla vivere. Altrimenti avrei fatto come chi ti salva la vita per condannarti a morte.



mercoledì 1 aprile 2015

Vivere la TINO

Dopo 23 giorni, cioè 552 ore, senza uscire all'aria aperta, mi sembrava strano camminare per strada. Dopo le dimissioni, passai a casa e poi ritornai all'ospedale dalla bimba. La ferita del cesareo minacciava, ma presto la mia indifferenza nei suoi confronti la rese innocua. 

Arrivavo alla T.I.N.O. (terapia intensiva neonatale ospedaliera) sempre qualche minuto prima dell'orario in cui erano ammessi i genitori. Passavo al bagno dell'ospedale e mi cambiavo. Dovevo indossare o il camice verde usa e getta che fornivano o una maglia/vestito bianca personale diversa dall'indumento con cui arrivavo da fuori. Per evitare sprechi, mi portavo il “camice” da casa. All'ingresso, depositavo borse e giacca nell'armadietto apposito, indossavo i calzari usa e getta che fornivano, mi lavavo accuratamente le mani con l'antibatterico. Queste erano le regole igieniche per essere ammessi. Per fortuna la bimba non era così delicata da richiedere di indossare la mascherina e la cuffietta. Poi guardavo sempre le foto, appese alla bacheca, dei bambini che erano stati lì. Alcuni pesavano alla nascita ancora meno di lei ed erano poi cresciuti bene e sani. Le foto mi davano speranza. Non credevo ancora che un giorno sarebbe venuta a casa e che l'avrei cresciuta io, anche se non c'erano ragioni per pensare diversamente. 

Indipendentemente dalla situazione, il fatto di trovarsi in terapia intensiva è un'esperienza inquietante. Pur essendo discreta nei confronti degli altri bambini, mi capitava di vedere gravi problemi di respirazione, problemi neurologici, digestivi … E il fatto che la bimba condividesse lo spazio con bambini critici ti faceva credere che potesse condividerne anche i dolori, così come ti faceva condividere le paure degli altri genitori. Eppure io ero felice quando la vedevo e felice tornavo a casa perché un altro giorno era passato e lei cresceva. Purtroppo però ero isolata nella mia felicità perché spesso vedevo mamme piangere e avrei voluto far qualcosa per loro. Quasi mi sentivo egoista ad essere così contenta in un ambiente così triste. Ma poi pensavo che in fondo era lei nel posto sbagliato, così come io ero stata ricoverata in un reparto non adatto, anche se poi avevo ricevuto tutte le cure e attenzioni di cui necessitavo. E così anche lei era seguita molto bene. Mi fidavo dei medici. Vivevo alla giornata e non chiedevo mai quando l'avrebbero dimessa. Dipendeva soltanto da lei e stressare il personale sarebbe stato nocivo per tutti.

Arrivavo alla sua incubatrice. Sbirciavo dalla tendina e sorridevo apertamente a quella creatura. Poi aprivo la porticina e infilavo la mano per toccarla. Se era sveglia mi guardava con quegli occhioni. Ed io mi illuminavo. Se dormiva, la illuminavo con lo sguardo. In ogni caso, la mia mano le dava conforto e calore che l'incubatrice non poteva darle. Non mi sentivo una vera madre perché non avevo libertà di prenderla in braccio quando volevo, di cambiarla quando ritenevo necessario, di nutrirla quando lei voleva. Dovevo aspettare gli orari dei pasti e per fare ogni cosa dovevo chiedere il permesso. “Posso prenderla in braccio.” E l'infermiera di riferimento me la tirava fuori dall'incubatrice. Dovevo stare attenta a non tirare i cavi della flebo o dei sensori. Se la sentivo piangere prima dei pasti, di norma non potevo chiedere il biberon o provare ad attaccarla al seno. Dovevo aspettare, anche se chiedevo sempre di poter anticipare e quasi sempre, se non erano troppo occupati, mi davano ascolto. Prima di attaccarla al seno dovevo chiedere di fare la “doppia pesata” ossia la verifica del peso prima e dopo la poppata, per vedere quanto latte aveva bevuto.
Erano informazioni che registravano in cartella. 

All'inizio notai qualche resistenza ogni volta che chiedevo di attaccarla al seno “ma è troppo piccola. Non riesce a succhiare.” In effetti a volte era difficile persino darle il biberon. Solo una volta le misero il sondino e fu l'unica volta che piansi. Poi mangiò senza problemi. Però al seno succhiava poco e prendeva poco. Non potevo tenerla attaccata per più di mezz'ora perché bisognava rispettare l'orario del pasto. Infatti, qualora non avesse mangiato a sufficienza, bisognava integrare col latte artificiale. Lei sembrava volesse stare attaccata molto di più. Forse non aveva fame, ma cercava conforto e poi si assopiva. E con l'esperienza avrei detto che probabilmente, se avesse succhiato a richiesta e senza orari, non ci sarebbero stati problemi, anche se in effetti era ancora un po' piccola.

Alla fine, vista la mia insistenza nel tentare l'allattamento al seno, le infermiere mi vennero tutte incontro. Cercarono di fare il possibile per farmi sentire meno a disagio, dato che dovevo allattare in uno spazio stretto con sottofondo di suoni di macchinari e voci interrotte che distraevano la bambina. Mi procuravano comodi cuscini e cercavano di non mettermi fretta. “Se vede che la bimba non succhia però le consiglio di andare a tirarsi il latte. In ogni caso, stimoli il seno ogni tre-quattro ore.” Però di fatto era difficile gestire la situazione con gli orari e con il fatto che non volevo passare tutto il giorno lì dentro, senza poter tenerla in braccio. 

Pertanto, per essere sicura di darle il mio latte, spesso mi trovavo costretta a scegliere tra tirarmelo subito e darglielo col biberon o tentare di allattarla direttamente. E' un po' come se a un uomo venisse detto “scegli se fecondare tramite relazione o con aggeggi per estrazione e poi introduzione.” Cosa fareste? In quel momento per me contava molto di più la relazione che il semplice nutrimento, visto che avrebbero comunque provveduto artificialmente. Pertanto tentavo di allattarla anche con il rischio di non riuscire ad avere il tempo per estrarre tutto il latte. A casa non avevo il tiralatte e non lo comprai subito perché ero stanca di raccogliere dopo essere stata tutto il giorno in ospedale, ma soprattutto non avevo la motivazione. Mi sembrava davvero solo "masturbazione" dopo un'intensa giornata di “approcci”, dal momento che ti dicevano pure “a casa si rilassi e usi una foto della bimba per migliorare la performance”. Inoltre ciò che raccoglievo a casa, doveva prima essere depositato alla banca del latte. 

Alla TINO al massimo riuscivo a raccogliere 20-30 ml a volta. Depositavo il tutto in un contenitore sterile sul quale scrivevo il nome della bimba, la data e l'ora. Purtroppo non potevo evitare di notare il "raccolto" di altre madri. Sui loro contenuti avrei scritto “più giorni” e non perché il mio latte durava di più, ma perché ci avrei impiegato più giorni a raccogliere quelle quantità. “Signora, non importa: tutto quello che riesce a dare, anche se poco, è prezioso” mi incoraggiavano le infermiere Ed allora io mi sentivo sollevata. E raccoglievo il più possibile. E se anche la bimba succhiava poco al seno, ero contenta. 

Le infermiere apprezzarono la mia determinazione e la costanza con la quale approcciavo l'allattamento, anche se difficoltoso. “Possiamo farle una foto? La mostreremo ai seminari come esempio che allattare alla TINO è possibile. E poi la sua dolcezza, il modo in cui guarda e sorride alla sua piccola ... Si vede proprio che la bimba si sente in pace con lei. E le sorride già”. Ero soddisfatta che qualcuno mi apprezzava e non mi giudicava solo dal latte che producevo. Ciò mi faceva sentire più madre e meno impotente. Devo ammettere che non tutte le infermiere erano empatiche. Una mi smontò una volta, dopo la “doppia pesata.” “Ma signora è la bimba che non succhia o è lei che non ha latte?” Comunque cercai di non badarci. In fondo lavorare lì dentro è stressante.

Quando la bimba raggiunse il peso di 1600 g, fu spostata dall'incubatrice in una culla normale nell'altro lato dell'open space. L'ultima fase fu la migliore, ma vedevo che lei era sempre più curiosa del mondo esterno e non ne poteva più di star lì.

Quando raggiunse 1800 g scarsi, fu dimessa. La portammo a casa in autobus. Solo da quel momento dissi a tutti i conoscenti che ero diventata madre.
Prima infatti ero spaventata e non riuscivo a parlarne, se non con pochissime persone. 

Stette 23 giorni e mezzo (circa 560 ore). “Continui con allattamento ad orari” mi fu suggerito al momento della dimissione “ed aumenti le dosi di latte ogni 2-3 giorni.” Fu quella la condanna. Di fatto la mia libertà era ancora condizionata.