domenica 29 maggio 2016

Il trasloco secondo ... mia figlia

Il secondo trasloco, dalla casa temporanea a quella definitiva, fu piuttosto semplice. Riusammo gli stessi scatoloni del trasloco precedente (alcuni non li aprimmo nemmeno) e rinfilammo tutto dentro, riutilizzando la stessa carta per avvolgere singolarmente gli oggetti fragili. Poi chiamammo un tizio col camion. Con il suo aiuto caricammo tutto in vettura, salimmo, scaricammo e via. Il giorno seguente arrivarono nella casa definitiva i mobili che ordinammo e montammo in buona parte da soli.
Dalla descrizione, potrebbe sembrare tutto lineare, ma imballare tutto con la bambina che cerca di ritirar fuori la roba, aggiungendo oggetti della casa temporanea che non ti appartengono, fu piuttosto snervante. E poi gestire le ordinazioni con la bambina che strilla quando usi il computer e il computer che fa pure scherzi … Ma la cosa ancora peggiore è che dopo tutta la fatica che fai e vorresti riposare, tua figlia non dorme perché è terrorizzata. Infatti non capisce cosa succede e cosa sono tutti quegli imballaggi. E allora la tieni tutta la notte in braccio. Dormi con lei. La sveglia suona il giorno dopo e lei strilla perché la porti sul suo letto e sola non vuole stare e allora devi contare sulla collaborazione del partner. E qui entrano in gioco la sintonia, la pazienza e …

Ma per fortuna riuscii ad organizzare tutto nei tempi e modi dovuti. Lasciammo di fatto la casa temporanea, consegnandone le chiavi, solo qualche giorno dopo il trasloco, per poter ritornare a controllare che non avessimo dimenticato nulla e per avere una sistemazione qualora ci fossero stati imprevisti o avessimo avuto ritardi nella consegna dei mobili.

Per mia figlia fu uno spettacolo interessante vedere l'addetto che sistemava nel camion gli scatoloni che noi aiutavamo a portar giù. E poi viaggiare su quel veicolo. E lì si addormentò e giunti a destinazione, mentre noi trasportammo le scatole dal furgone alla casa, la sistemammo in un letto di sole coperte nel soggiorno. Purtroppo era tutto ciò che al momento potevamo offrirle. Ma dopo quelle giornate di sonni disturbati fu più che sufficiente per consentirle riposo e per permetterci di finire il trasloco in breve tempo. Dopo tutti questi movimenti, mi sentii veramente in pace. 

Abitiamo di fronte al bosco, ma non siamo isolati nella campagna sperduta. Non si sentono clacson, ma soltanto miagolii, belati o moderate urla di bambini che giocano in cortile. Non passano auto nell'isolato, ma la strada e la fermata del bus più vicina sono a un centinaio di metri. Abbiamo un piccolo giardino, non si respira smog, c'è quiete e diversi servizi e negozi sono raggiungibili a piedi. C'è una fattoria vicino da cui possiamo comprare latte, uova, miele, insalata. 

Tuttavia durante i primi giorni le reazioni di mia figlia di fronte al cambiamento furono: sciopero della fame e rifiuto di camminare. Ma non bisogna mai prendere troppo seriamente i rifiuti dei bambini. Spesso è solo questione di tempo. Non bisogna subito pensare che siano puri capricci o dispetti che si perpetueranno. A volte basta lasciar trascorrere qualche giorno e il bambino si dimentica che non voleva mangiar quella cosa lì o non voleva camminare. Pertanto capii che mia figlia non voleva mangiare la pappa perché era quasi ossessionata dal voler mangiar da sola, benché non riuscisse, e voleva esplorare il nuovo posto e non stare ore seduta sul seggiolone. In compenso aveva bisogno del biberon. Forse era per lei un conforto? O forse era l'unico modo in cui riusciva a mangiare autonomamente e velocemente. Allora provai a fare la pappa bevibile dal biberon (con i denti ormai aveva allargato il foro della tettarella e ci passava di tutto). Voleva bere solo da quella tettarella e guai a sostituirla, ma finiva tutto quel che mettevo senza storie e complimenti, contrariamente ai mesi precedenti in cui dal biberon si rifiutava di bere ogni cosa diversa dal latte. E così mangiò e anche molto, integrando con cibi che poteva mangiar con le mani, anche se non riusciva a mangiare intere porzioni, ma solo assaggi dai nostri piatti durante i pasti. Comunque ero tranquilla che mangiasse a sufficienza perché beveva il suo pasto principale. In più io potevo fare altro o potevamo anche uscire fuori, poiché aveva imparato a bere senza sporcarsi anche mentre il passeggino viaggiava. 

Riguardo al rifiuto di camminare, i primi giorni fu dovuto al fatto di sentirsi smarrita. Poi camminò. Partecipò senza disturbare al montaggio dei mobili e collaborava anche quando dovevo fare commissioni o pulizie in casa. Mi passava gli oggetti e ne era incuriosita. Poi di nuovo, per un certo periodo, dopo aver sceso le scale del piano di casa, che nel frattempo aveva imparato a fare autonomamente tenendosi al corrimano, le sue gambe si bloccavano e si buttava a terra non appena vedeva che prendevo il passeggino. Faceva così capire la sua intenzione di salirci sopra e non voler camminare. Se la facevo scendere dal passeggino quando entravo in negozio a far la spesa allora camminava senza fermarsi, ma era una cosa impossibile: voleva tirar fuori tutto quel che vedeva sistemato negli scaffali. E allora la facevo accomodare di nuovo nel passeggino subendo i suoi strilli per qualche secondo.

Poi un giorno decisi di provare ad uscire senza passeggino e senza meta. facendomi guidare solo da lei, perché non sembrava che non volesse uscire, dal momento che prendeva sempre le scarpe di sua spontanea volontà, e non sembrava avesse male ai piedi o fosse stanca per camminare. Infatti in quelle circostanze camminò quasi correndo e mi portò nel posto dove voleva andare. 


domenica 22 maggio 2016

Turista a metà

Nella casa temporanea mi sembrò di vivere in albergo, non perché non facessi nulla e rientrassi solo per dormire o mangiare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché la disposizione dei mobili e degli oggetti non potevo cambiare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché nessun altro, nell'appartamento, poteva pernottare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché il personale di servizio poteva entrare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché chi mi ospitava non mi era familiare.
Mi sembrò di vivere in albergo, anche se nulla vi era da pagare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché il consumo energetico non potevo valutare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché sapevo che più di due mesi non potevo restare.
Mi sembrò di vivere in albergo per la posizione centrale per villeggiare.
Mi sembrò di vivere in albergo perché i condomini non sembravano affatto abitare.

Mi sembrò di vivere in albergo e di avere un atteggiamento da turista, benché dovessi accontentarmi di far la turista a tempo parziale. Infatti dovevo gestire tutto: spesa, cucina, badare a mia figlia, pulizie quotidiane …
Ogni giorno uscivo con la bimba, col pretesto anche di dover far la spesa, e esploravo una zona nuova che potevo raggiungere a piedi. Così, concentravo la passeggiata, la scoperta del luogo e le commissioni nelle poche ore da turista che potevo trascorrere fuori con la bimba, perché faceva freddo e perché poi dovevo tornare a casa per cucinare e preparare da mangiare (la bimba mi faceva ancora penare e trascorrere ore in cucina aspettando che si convincesse a mangiare).

Un giorno mi ritrovai, a mia insaputa, nel quartiere ebraico. Ad un certo punto, vidi tutti gli uomini vestiti col cilindro, la barba e le trecce. Un altro giorno mi ritrovai in uno scantinato dove aveva sede una “brocken-haus” (uno di quei posti dove vendono tutto di seconda mano, persino la carta igienica). Entrambe i luoghi richiamarono alla mia mente Londra. Il primo perché a Londra ci sono diversi quartieri destinati a diverse comunità etniche e/o religiose. Il secondo perché Londra è nota per i concetti di vintage, mercato delle pulci, charity shop, ma in particolar modo riuso di tutto quello che può esser riutilizzato, persino la parte di rotolo di carta igienica, aperta, non utilizzata (anche se forse a Londra la regalerebbero piuttosto che venderla). In fondo quando si usano i servizi pubblici la si utilizza. E allora, in effetti, perché non venderla? (Io sinceramente non la comprerei, visti gli episodi di cistite che ho avuto, ma quando mi trovo fuori di fatto la uso, però forse perché nei servizi pubblici è gratis, così come i batteri....)
A Londra non sono affatto schizzinosi nel comprare qualsiasi cosa che sia appartenuta e usata da qualcun altro. Non credo che lo svizzero medio compri in questi negozi. Infatti le persone che li gestiscono e gli acquirenti sono per la maggior parte di origine estera oppure sono persone non del tutto normali. Infatti ho letto che talvolta persone tendenti al demente entrano in negozio a toccare in maniera invadente, o peggio leccare, alcuni articoli in vendita. Pertanto preferisco anche io guardare e non comprare, tranne per alcune cose come i libri, che spesso mi inducono in tentazione. Non so spiegare come mai sono attratta da questi posti. Vedere tutte quelle cianfrusaglie mi affascina, anche se non vorrei possederle. Un negozio così non ha tempo, né luogo. Puoi trovare di tutto, roba antica o moderna. Ogni oggetto ha una storia che tu non conosci e che non puoi comprare. Ma puoi provare ad immaginare. Puoi indovinare l'epoca e la nazionalità di chi l'ha posseduto. Puoi aprire un libro e trovare una dedica o un biglietto per Venezia, che segna il percorso fin lì letto. Molti oggetti, soprattutto quelli di un certo valore, purtroppo arrivano lì da pignoramenti. E allora li guardi sentendoti in debito anche tu. Ma poi la musica ti trasporta. Spesso in questi negozi puoi ascoltare e acquistare vecchi dischi.
Nella zona e nello stabile dove vivevamo in via temporanea hanno sede diverse società finanziarie, assicurative e società di consulenza. Pertanto, rifuggivo da tutto questo lusso finanziario chiudendomi in questi posti da “dementi” o da “barboni”, come la gente snob potrebbe pensare, a meno che lo snob non sia un collezionista in cerca di affari.
E mentre i turisti “normali” passavano il loro tempo tra cioccolaterie, vetrine e centri commerciali, io affogavo i miei pensieri e mi perdevo in un bicchiere per acqua usato, più volte bevuto, più volte leccato.

Alla fine in centro città, a parte il lago, il molo, le chiese, il panorama, il “misero” (rispetto all'Italia) patrimonio artistico non restano che banche e affini, vetrine e commercio. Non credo che mi sarebbe piaciuto vivere nel traffico (anche se in confronto a Londra e alla città dove vivevo in Italia sarebbe stato come vivere in paese). Nemmeno nelle altre zone vicine al centro mi sarebbe piaciuto vivere, perché, aldilà del fascino multiculturale che emanano, non resta nient'altro che “disperati” (ma non troppo) che vogliono integrarsi, e attività commerciali che seguono le norme e la legislazione svizzera. Non mi sarebbe nemmeno piaciuto vivere nella zona industriale, seppur in una casa moderna e dal design accattivante. Mi sarebbe piaciuto vivere nella zona dove vivo adesso.



venerdì 13 maggio 2016

La cosa importante

“Schwanden, tornando al discorso sulle tre dimensioni dell'amore descritte da Osho e la nostra relazione, se devo essere sincera, non è sempre stato tre, cioè non siamo sempre stati in sintonia.

All'inizio sicuramente era un'anima in due corpi. L'avevo raccontato già il nostro incontro e non ne riparlerò. Andavamo all'università insieme. Eravamo sempre uno accanto all'altra. Sempre vicini, anche durante le lezioni. Non potevo chiedere altro: eravamo l'uno per l'altra, in ogni aspetto. Ma era come un limbo, una magia accademica. Avevamo un obiettivo comune: laurearci, anche se lo portammo a termine in maniera piuttosto indipendente. Infatti ognuno studiava per conto suo, con i suoi ritmi e alla propria maniera. Io studiavo di più perché non avevo il suo talento naturale per le materie quantitative e perché avevo bisogno di rivedere le cose una volta in più affinché mi sentissi più sicura. Mi laureai quasi un anno prima però. Raggiungemmo entrambi lo stesso risultato, ma con fatiche diverse. Quando finii l'università, come ho già raccontato, ebbi una crisi e giunsi alla conclusione che il trinomio competizione, carriera, capital gain non era nella mia algebra, e quindi difficilmente avrei sfruttato con profitto la mia laurea. Non che tale trinomio fosse di grado elevato nella sua, ma erano concetti che lui sentiva. E perciò cominciai a sentir meno la sintonia. Infatti lui trovò subito lavoro a tempo indeterminato. Io lavorai qualche mese per poi rifugiarmi nel dottorato. Nel frattempo andammo ad abitare insieme e via via la nostra relazione passò dalla terza alla seconda dimensione. 

Ci allontanammo, lui parlava di famiglia io di farfalle. Inseguivo le mie ricerche, poi lui le sue. Realizzammo che non era possibile trovare un compromesso tra noi. Le nostre indipendenze non si incontravano. Lasciò il lavoro per un dottorato a Londra. Io non lo seguii. Avevo avuto i miei problemi. Ma Schwanden, la storia l'ho già raccontata … Mi resi conto che ero stata una sciocca: perdere una relazione per non limitare la mia indipendenza. Lo raggiunsi a Londra. Ci ri-sintonizzammo, ma non più come all'esordio. Io ero ben conscia dei miei interessi, valori, obiettivi e questi andavano in disaccordo con i suoi. Ma stavolta gli venivo incontro. Stavolta non bocciavo l'idea di un figlio, anche se in fondo ero scettica. Tornammo in Italia. Lui riprese il suo lavoro. Io tentai la mia strada e mi impegnai in diverse attività che a lui non interessavano minimamente. Ma ero entusiasta perché seguivo i miei interessi e valori. Andammo avanti. La speranza di un figlio era il compromesso alle nostre libertà. 

Quindi non posso dire che precipitammo nuovamente nella seconda dimensione, ma il mio distacco ideologico sempre più forte (e sempre più fortemente orientato alla cooperazione e all'”anticapitalismo”) mi impediva di stabilire una sincronia “spirituale”. Poi credetti di non poter procreare. Non c'erano le condizioni fisiche. Ero debilitata. Stavo ancora male per quell'intervento che mi aveva buttato giù e che aveva minacciano la mia positività e l'entusiasmo di poter costruire qualcosa in un paese che decisi di lasciare di nuovo. Ma poi finalmente trovai il lavoro che cercavo e, a mia insaputa la bimba. La bimba se da una parte ha impedito un possibile ritorno alla seconda dimensione, e quindi forse una conseguente rottura, dall'altra ha forzato la relazione verso la prima dimensione. 

Si, Schwanden, hai capito bene. Il fatto di dover impiegare il tempo “child-free” tra cucina, pulizie, commissioni e visite d'obbligo, in certi momenti mi ha fatto quasi vedere la relazione come un inferno e lo stare insieme tra noi quasi come un'imposizione, come le pulizie, e non un atto troppo naturale. Perché? Perché avevo bisogno del mio spazio, dei miei interessi che non potevo coltivare e non mi sentivo più la persona di prima, ma soprattutto mi mancava il suo appoggio. In settimana mi sentivo in un cluster con mia figlia ed ero serena. Ma al fine settimana, forzatamente mi ritrovavo in un cluster da sola, costretta a dover trascorrere il mio poco tempo con persone tra cui non c'è nessun “feeling”. Mi sentivo in gabbia. La nostra relazione rischiava di trasformarsi in un rapporto di convenienza, atto a tutelare la bimba. Ma io non avrei retto, Schwanden lo sai. Ebbi persino una sorta di “gravidanza isterica”. Schwanden, seriamente in certi momenti ho pensato di troncare. L'esempio peggiore che possiamo dare a un figlio è un genitore depresso o isterico a causa del legame familiare. Schwanden, lo avrei impedito. Ma per fortuna che mi ha (o meglio ci ha) salvato l'espatrio. Ora stiamo bene. 

Eppure Schwanden sono convinta che tutte queste transizioni, accompagnate da diverse fasi personali della vita, siano del tutto fisiologiche, normali per una coppia. Schwanden, in realtà il sentimento, l'amore non cambia (tra noi non è mai cambiato), ma cambiano i contesti, cambiano le situazioni che ci consentono di esprimerlo e che possono inficiarne la sua manifestazione, impedendo di raggiungerne la vera dimensione. Così come i ruoli che si creano ci allontanano da ciò che vorremmo esprimere veramente. Più ci stacchiamo da essi, da etichette, impegni, contingenze e più ci avviciniamo ai veri sentimenti e quindi all'amore. 

Il segreto è cercare di non rimanere intrappolati nelle convenzioni, nella routine e nei ruoli. Anche per questo ho preferito rimanessimo una coppia di fatto, senza sposarci. Per fare un altro esempio, cito Ligabue, raccomandando(mi) di stare lontano dallo schema: “il sabato la spesa, il giorno dopo in chiesa” (che io adatto con il giorno dopo i “suoceri”).

Schwanden, era una questione troppo importante per essere celata. Ma chiudo l'argomento. Devo parlare di questioni più propriamente elvetiche.”


domenica 8 maggio 2016

Le componenti principali

“Schwanden siamo dei cluster. Partiamo soli e ci uniamo a seconda di ciò che ci accomuna e sulla base di un metodo di aggregazione.”

“Was? Scusa, volevo dire: cosa?”

“Ciascuna relazione può essere descritta in maniera razionale. In statistica il single, la coppia, il gruppo e le loro possibili relazioni costituiscono ciò che in termini tecnici viene chiamata cluster analysis. Con un algoritmo si possono individuare l'anima gemella e gli amici più stretti. E' tutto così semplice, una volta che hai definito le regole per formare la coppia o il gruppo.
Come tutti i procedimenti quantitativi, l'algoritmo non può sbagliare, ma sono le ipotesi di partenza che sono discutibili e a seconda delle caratteristiche che si desiderano per un cluster, si ottengono risultati diversi. Per esempio, se voglio formare una coppia o un gruppo sulla base di orientamento “politico” e ideologico comune ottengo un risultato. Ma se invece voglio una coppia o un gruppo omogeneo per interessi musicali ottengo un altro risultato. Quindi, Schwanden, capisci bene che per ogni cluster esistono tanti modo per “accoppiarsi” a seconda delle caratteristiche che si vogliono ottenere. Quindi una coppia col tempo può staccarsi se cambia la priorità di avere diversa similarità tra i singoli cluster. Non so se ho reso l'idea”.

“Credo di sì”. 

“Quindi la coppia ideale dovrebbe essere quella i cui elementi sono simili per un maggior numero di elementi possibili o idealmente uguali nelle loro “componenti principali”?”

“Componenti principali?””

“Sì, elementi importanti per mezzo dei quali puoi definire il singolo cluster e poi la coppia”.

“Esempio, esempio.”

“Schwanden, mi ricordi i miei allievi di esercitazioni di matematica. Esempio? Beh, fammelo tu. Secondo te cosa è importante che due persone abbiano in comune per formare una coppia stabile, o meglio, sulla base di quali elementi importanti puoi descrivere due persone come “uguali”, se così si può esemplificare?”

“Intesa sessuale, carattere, stile di vita, obiettivi, hobbies... Già, ma come descrivi i sentimenti? Quella scintilla magica che forma la coppia come puoi descriverla razionalmente?”

“Beh, Schwanden puoi cercare di descrivere l'attrazione, fisica o intellettuale, come il modo, la linea che unisce i due cluster. Schwanden, i sentimenti derivano da un mix di attrazioni fisiche e psichiche “coltivate” nel tempo. L'attrazione genera attaccamento, dipendenza. Se l'attrazione persiste nel tempo, si instaura un sentimento. Il sentimento è più forte dell'attrazione, ma esso cade se viene a mancare l'attrazione. Se una coppia invecchia e nel tempo l'attrazione fisica non è così forte, la coppia comunque può continuare se persiste l'attrazione intellettuale o psichica che si mantiene viva, molto più facilmente, se due persone hanno gli stessi interessi, la stessa visione del mondo e obiettivi comuni. In realtà, Schwanden, le persone possono anche coltivare interessi diversi, ma l'importante è che siano entrambi curiosi degli interessi dell'altro. E gli obiettivi e la visione anche se non sono identici, devono almeno andare nella stessa direzione, Altrimenti è facile che il cluster si separi perché i suoi elementi non si sentono più così simili. Schwanden, avevo letto una citazione che diceva che la curiosità è una profonda forma d'amore. Beh, mi ha fatto riflettere e quindi ho provato a darne una giustificazione razionale. La curiosità verso cosa faccia o si interessi il partner, aldilà di quella legata a scopi di vigilanza sulla fedeltà, è un elemento che deve necessariamente essere presente in una coppia e quindi aggiungilo nella lista Schwanden. E' chiaro però che non basta essere curiosi per amare qualcuno. Quindi, detto in termini matematici, la curiosità è una condizione necessaria, ma non sufficiente per una relazione d'amore.”

“Va bene. Ma ora veniamo a te. Il tuo cluster non è abbastanza solido?”

“Schwanden devo ammettere che la nascita della bambina ha perturbato la coppia. Ha aumentato in un certo senso la distanza tra i due elementi del cluster e ha influito anche sul metodo di aggregazione tra gli elementi. Ora il metodo di aggregazione non è più l'incontro tra due amanti, ma tra due genitori. I due elementi ora hanno un vincolo. Immagina un vestito. Se prima era chiuso da una cerniera, ora è allacciato da una stringa che termina con un nodo.”

“E questo nodo ti disturba?”

“In realtà questo nodo dovrebbe essere allacciato più stretto. Lascia trasparire un po' troppa nudità.”

“Non credevo fossi così pudica.”

“Schwanden, sei simpatico. No, sai che se fosse per me, la gente potrebbe anche girar nuda. Scherzi a parte, Schwanden. Un vestito serve per coprirsi, ripararsi dal freddo (almeno il vestito a cui mi riferisco adesso ha questa funzione). Pertanto se il vestito non è ben abbottonato entra aria.”

“E perché non è ben abbottonato?”

“A volte si crea un varco. Una sorta di incomprensione reciproca. A volte mi sembra che stiamo perdendo la curiosità l'un per l'altra”.

“Per via di interessi personali che prima erano uguali e adesso sono diversi?” 

“Anche, ma in fin dei conti se quando si è amanti la cosa principale che si condivide è il letto, allora non è importante avere gli stessi interessi. Ma quando si ha famiglia diventa difficile coltivare i propri interessi senza sacrificare le esigenze dell'altro e dei figli perché si ha poco tempo. E si rischia di andare in direzioni opposte e quindi di staccarsi. Schwanden, non voglio entrare nei dettagli. Non voglio analizzare cosa ci accomuna e cosa ci differenzia. Ma tu sai che ci sono state difficoltà. Il fatto che siamo emigrati qui ha stretto il vestito. Ci ha di nuovo avvicinato. Stiamo vivendo un'altra vita, anche se devo ammettere che in alcuni momenti anche qui mi sono sentita sola, abbandonata alle mie priorità e lui alle sue. Sai Schwanden, c'è stato molto da fare specie nel secondo trasloco. Capisco che la bambina è “il mio lavoro”, ma è anche sua figlia, anzi nostra figlia. E sai, a volte mi è sembrato di sostenerne il peso da sola. Ma è anche un po' colpa mia perché quando c'è da far qualcosa, non impartisco ordini, non dò direttive sul da farsi ma aspetto che sia lui spontaneamente ad aiutarmi. E' stato abituato a prender ordini, si vede. Ma cambiamo argomento. Gliene ho parlato e adesso c'è più collaborazione. ”

“Chiedete e vi sarà dato, ma non chiudete. Parlate, non siete nemici.”

“Già Schwanden. Sarebbe da stupidi chiudere. Però sai quando le minacce si presentano e poi scompaiono, ti chiedi dove si siano nascoste.”

“E quali sarebbero le minacce? I suoi genitori, la sua famiglia di origine?”

“Schwanden, i suoi genitori e in generale la sua famiglia sono persone ordinarie. Al momento, non vedo nessuna reale minaccia o intrusione, ma forse perché ora siamo lontani. Il problema è che tra me e loro non c'è dialogo. Non abbiamo nessuna caratteristica in comune, nessun punto di contatto. Tutto lì. Nessun odio, nessun sentimento. Io e loro siamo in due cluster diversi anche se ci accomuna il fatto che abbiamo un elemento in comune con cui formiamo il cluster. Ciò che mi ha spaventato è il fatto che io e lui formiamo un cluster e lui e la sua famiglia di origine ne formano un altro e sotto una certa misura di distanza il nostro cluster si separa perché lui si trova più vicino a loro. Schwanden, potrei analizzare la situazione ancora più razionalmente, fare delle stime e valutare la speranza di vita residua del nostro cluster. Ma il fatto che la vita possa essere ridotta a calcoli e pure previsioni e descritta dalle statistiche, questo non vuol dire che la vita debba essere vissuta in tale prospettiva. Il piacere della vita è l'imprevisto. Un romanzo o un film, ti appassionano e ti coinvolgono perché non sai come andranno a finire. La curiosità è la tua motivazione per arrivare alla fine del romanzo o del film e scoprirlo. E' chiaro che puoi fare delle stime sul finale o, se non resisti, avere suggerimenti da chi lo ha già letto o visto. Ma in ogni caso vuoi vedere con i tuoi occhi la fine e se corrisponde a quella che ti avevano detto.”

“Stai divagando. Torniamo al cluster. Quindi per adesso le previsioni sono serene, poco nuvolose?”

“Esatto Schwanden. Il fatto che siamo qui da soli ci ha rafforzato. Passiamo più tempo insieme facendo ciò che piace ad entrambi. Prima invece il nostro tempo era sottratto alle visite settimanali. E stavo male perché sentivo la distanza tra me e loro e quindi tra me e lui. Adesso non mi importa più. In fondo io devo formare cluster con lui e basta. E' chiaro che la loro famiglia ha diritto a veder mia figlia. Ma io allora ho anche diritto a coltivare i miei interessi. Ne vale la mia salute, mentale e fisica. La questione si conclude così, Schwanden.”

“Va bene. Abbiamo descritto l'amore ai tempi (ai modi e alle misure) della statistica. Ma voglio riportarti le tre dimensioni di Osho, che è stato un po' di tutto, ma, che io sappia, non uno statistico.”

LE TRE DIMENSIONI DELL'AMORE

L’amore può avere tre dimensioni.
Una è la dipendenza, nella quale vive la maggioranza della gente.
La moglie dipende dal marito, il marito dipende dalla moglie: si sfruttano e si dominano a vicenda, si possiedono a vicenda e riducono l’altro ad una merce.
Questo è ciò che accade nel mondo nel 99% dei casi,
ecco perché l’amore, che dovrebbe aprire le porte del paradiso,
apre soltanto le porte dell’inferno.
La seconda è l’indipendenza, questo accade una volta ogni tanto.
Ma anche questa possibilità porta infelicità, perché il conflitto è costante.
Nessun accordo è possibile: entrambi sono assolutamente indipendenti e nessuno dei due è pronto a scendere a compromessi.
Essi danno libertà all’altro, ma essa è più simile all’indifferenza
che alla libertà.
Entrambi vivono nei propri spazi e il loro rapporto sembra solo superficiale, entrambi hanno paura di penetrare la profondità dell’altro, perché entrambi sono più attaccati alla propria libertà che non all’amore.
La terza possibilità è l’interdipendenza.
Accade tra due persone né dipendenti, né indipendenti ma in profonda sincronia tra loro, come se respirassero uno per l’altra, un’anima in due corpi: ogni volta che accade, accade l’amore.
Solo in questo caso è amore.
Negli altri due casi non è vero amore: sono solo degli accordi sociali o psicologici o biologici ma solo accordi.
Nel terzo caso l’amore ha qualcosa di spirituale.
Accade assai raramente, ma ogni volta che accade una parte di paradiso cade sulla terra.
Osho 

“Grazie Schwanden. Nel terzo caso i due elementi del cluster sono uguali, poiché descritti dalle stesse componenti principali.”
“Quindi sintetizzi l'amore spirituale con le componenti principali?”
“Sì, Schwanden. Gli statistici sanno essere volgari in nome della semplicità.”
“Ma allora, in fin dei conti, la vostra relazione rientra nella terza dimensione?”

domenica 1 maggio 2016

La paura

Fin dalla nascita ti inculcano il timore di Dio, della Natura e anche della tua stessa natura. Nasci già peccatore e quindi già timoroso. Ogni cosa che è istintuale è peccaminosa e quindi reprimi i tuoi istinti e ti affidi nelle mani di chi ti educa e ti insegna. Mani insensibili, mani che indossano i guanti per non sentire il contatto, per non sentire l'incontro della loro pelle con la tua.

Ho sempre lottato contro la paura indotta o incondizionata. Paura di inciampare. Paura di cadere. Paura di sembrare ridicola. Paura di essere giudicata. Paura di ingrassare. Paura di essere bassa di statura. Paura di apparire brutta. Paura di trascurarmi. Paura di perdere i capelli. Paura di perdere un pezzo del mio corpo. Paura di tagliarmi. Paura del sangue. Paura di ammalarmi. Paura di essere operata. Paura del dolore. Paura di soffrire. Paura di restare da sola. Paura di non raggiungere il risultato atteso. Paura di non raggiungere un obiettivo. Paura di sbagliare. Paura di non avere obiettivi. Paura di non essere riconosciuta. Paura di non sapere valorizzare il mio talento. Paura di perdere tempo. Paura di essere disoccupata. Paura di non avere più obiettivi. Paura di perdere il controllo. Paura di cadere in depressione. Paura di non sapere più ridere. Paura di ridere troppo. Paura di lasciarmi andare. Paura di sembrare stronza. Paura di sembrare ingenua. Paura di essere imbrogliata. Paura di perdere gli oggetti che mi appartengono. Paura di essere derubata. Paura di essere aggredita. Paura di parlare. Paura di esprimere i miei sentimenti. Paura di litigare. Paura di non avere più paura.

E dopo ogni mia vittoria, dopo aver superato ogni delusione, ogni fallimento sono giunta alla conclusione che non ho più paura perché ormai ho acquisito l'esperienza necessaria per riaffrontare il problema e il coraggio per affrontarne uno nuovo, sicura di trovare una soluzione adatta a me.
Come sono arrivata a tutto ciò? E' stato un esercizio mentale. Un esercizio di liberazione da ogni attaccamento a qualcosa che fa paura perdere. Se ci sentiamo liberi, da ogni proprietà, da ogni cosa tangibile, dall'influenza di qualsiasi persona (genitore, familiare, fidanzato, coniuge, amico, conoscente …) ma anche da qualsiasi nostro pregiudizio allora abbandoniamo ogni paura. Questo non vuol dire non possedere nulla, non avere nessuno accanto, non avere credenze o obiettivi. Ma vuol dire non identificare nulla di tutto questo con la propria vita. Ad esempio non credere di non riuscire più ad andare avanti senza una persona, senza una cosa, un lavoro … Bisogna essere consapevoli che qualsiasi cosa può esserci sottratta, ma dietro ogni sottrazione si presenta anche una nuova possibilità che tocca a noi esplorare. Per questo non bisogna concentrare le nostre energie a difendere ad ogni costo ciò che abbiamo, ma semplicemente ad apprezzarlo, consapevoli di quanto valga per noi. Se sappiamo apprezzarlo senza pretenderne l'esclusiva, allora sapremmo anche trovare il valore di ciò che potrebbe venirci proposto in alternativa.
La verità è che non ci serve nulla per essere felici. Abbiamo già tutto. E' tutto lì, nella nostra testa. E non dobbiamo averne paura. Abbandonando ogni paura di noi, della nostra natura, degli altri troveremo la libertà e quindi la felicità. Ci insegnano ad accumulare, a far profitti, ma forse dimenticano che la cosa più importante per vivere è non aver paura. La paura impedisce di aiutare gli altri e noi, impedisce di rispettare, di amare. La paura impedisce di vivere pienamente la propria vita.

“Ci ri-siamo, ma non dovevi raccontare del secondo trasloco o delle impressioni elvetiche?”
“Lo so, ma c'è qualcos'altro che mi disturba la mente”
“La paura? La sua mancanza?”
“Schwanden, questo preambolo te lo dovevo perché c'era qualcosa di cui volevo parlarti, ma avevo delle remore. Poi sono giunta alla conclusione che devo farlo perché non ho paura di dire ciò che sento.”
“Ma è qualcosa di cui hai parlato con qualcuno?”
“Sì, col diretto interessato”.
“E allora perché hai paura di condividerlo?”
“Perché è una questione personale e non riguarda soltanto me.”
“E allora parla del problema fino al punto in cui riguarda soltanto te e basta.”
“E' ciò che vorrei fare.”
“E perché insisti nel parlarne qua? Non puoi parlarne in privato con amici?”
“E' difficile parlarne. Quando parli con l'interessato, il discorso sfocia nel litigio. Quando parli con gli amici ti sfoghi accusando l'interessato, ma senza valutare oggettivamente la situazione.”
“E perché allora esiti a parlarne qua?”
“Potrebbe nuocermi. Ma forse l'interessato non mi legge neanche. Ha interessi diversi dai miei e condivide poco o nulla di ciò che scrivo.”
“E questo ti spaventa?”
“Forse non più. Adesso sembra che i nostri problemi siano spariti, ma io non vorrei si ripresentassero.”
“E allora parlane.”
“Va bene. Rischierò.”