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giovedì 14 agosto 2025

La "biondina garibaldina"

Quando una persona a te cara viene a mancare credi che tutto ti crolli addosso. Credi di non poter andare avanti perché non era quella la strada che avevi pensato di percorrere. Ti senti forzato, catapultato in una vita nuova, vuota senza quella persona. Ma più vai avanti nel tuo nuovo percorso e più ti accorgi che in fondo quella persona è sempre stata lì con te e non ti ha mai abbandonato. Quindi questa persona non ti manca più, non perché l’hai dimenticata, ma perché, al contrario, l’hai pensata talmente intensamente da farla rivivere. Il rapporto non è più fisico: non puoi più abbracciarla, baciarla o prenderla per mano, ma spirituale. Puoi vederla nella tua immaginazione e sentire la sua voce, veder il suo sorriso quando fai qualcosa di sbagliato che non ha gravi conseguenze. Puoi cercare il suo conforto quanto ti senti smarrito, quando ne hai bisogno.  

Oramai i miei genitori e mia sorella non mi mancano più. Un giorno forse ci rincontreremo, ma non ha importanza quando. Loro sono con me. Sono dei bravi nonni per mia figlia: sento che la guardano quando io non sono e non posso essere con lei. E mia sorella pure, non con le parole che non ha mi ha mai detto, ma con la sua presenza ballerina.

Ma non di loro parlerò in questa sede, ma di un’amica che non posso dire che non mi manchi; forse perché non è ancora passato nemmeno un anno da quando se n’è andata oppure perché perdere amici è diverso. Con gli amici di solito non convivi. Non c’è la loro continua presenza silenziosa tra le mura a stabilire un dialogo senza parole. Con gli amici fissi un appuntamento per vederli, per vivere insieme esperienze o per raccontare loro quelle non vissute insieme. Bevete insieme, mangiate insieme, ma in fondo non conta ciò che bevete, che mangiate o i luoghi che frequentate. Se invece all’improvviso ti ritrovi da solo, allora tutto questo pesa perché dietro quel caffè, quella birra, quella pizza o quella gita c’è soltanto il vuoto della loro assenza.

Ricordo il primo giorno quando ti vidi a scuola. Pensai di non aver nulla in comune con te. Tu troppo chiara, troppo bionda, troppo liscia e troppo spensierata. Io l’opposto. Poi ci parlammo per la prima volta al bar della scuola. Tu avevi la stessa tuta sportiva nera, della stessa marca, solo che la tua aveva le strisce verticali laterali bianche, la mia le stesse strisce, ma di color rosa. Capii che in fondo eravamo complementari o forse soltanto sfumature diverse dello stesso colore. In ogni caso, stavamo bene insieme e ridevamo tanto da avere mal di pancia. Con te mi dimenticavo dei miei problemi e anche della mia famiglia. Avrei voluto far parte della tua famiglia e della sua spensieratezza. Invece dovevo accontentarmi di essere felice solo quando uscivamo insieme da sole o con altri amici, quando andavamo a ballare, quando facevamo cavolate, quando non prendevamo nulla sul serio, nemmeno la scuola. A volte ti invidiavo. Avrei voluto essere al tuo posto. Entrambe attiravamo l’attenzione di diversi ragazzi, quando uscivamo insieme, ma tu li facevi innamorare, mentre io apparivo come lo specchio per le allodole, ma di fatto poi l’allodola ero io. Tu eri, come ti chiamava un vecchio professore un po’ eccentrico, la “biondina garibaldina”, mentre io ero “quell’altra”. Ma entrambe volevamo stare per conto nostro e non seguire le lezioni. Ben presto però capii che non viaggiavamo sulla stessa lunghezza d’onda. Ti bocciarono, io invece proseguii gli studi.

Non ho mai capito perché avevi difficoltà a scuola, visto che eri una persona intelligente. Ma in fondo non ha nessuna importanza, anche se io ora devo ringraziare di aver avuto degli obiettivi, di essermi impegnata duramente per avere avuto una vita migliore, in un altro paese, per potermi godere la vita, come non ho potuto fare in passato. Tu non avevi particolari obiettivi. Per te la tua famiglia, le tue cugine, i tuoi nipotini, i tuoi amici erano tutto. E forse vivevi per loro, anche se ne assorbivi i problemi, le preoccupazioni, talvolta la negatività, e questi continuavano a crescere dentro di te e ad appesantirti. Al contrario, io con gli anni mi sono alleggerita, liberata del passato, dei problemi, delle preoccupazioni, degli altri, raggiungendo uno stato di completa libertà, seppur non privo di responsabilità.  Non so se, al contrario di me, il prenderti delle responsabilità ti stressava, al punto da bloccarti, anziché farti sentire libera. Ricordo che ti stupivi quando ti raccontavo che partivo da sola per tre mesi, durante il mio dottorato di ricerca. Per te poi sarebbe stato impensabile lasciarsi tutto alle spalle e iniziare una nuova vita in un altro paese che non parlava la tua lingua.

Eri altruista, sempre disponibile, gentile con tutti, ma aspettavi sempre che qualcuno ti coinvolgesse a fare qualcosa. Una volta mi hai detto che ero pazza perché ero andata in discoteca da sola. Ma forse a volte uno si salva grazie a quella pazzia. Negli ultimi anni ero preoccupata per te. Dai tuoi messaggi capivo che c’era qualcosa, aldilà dei tuoi problemi familiari. Ma poi quando ci vedevamo, la tua serenità mi faceva credere che mi sbagliavo e che non dovevo preoccuparmi. Con gli anni però quella confidenza che avevamo da ragazzine si è persa. Io ti ho sempre raccontato tutto di me, anche cose di cui mi vergognavo. Tu forse hai smesso pian piano di parlarmi di te, dei tuoi sogni, dei tuoi desideri che forse trascuravi per gli altri e che reprimevi per via dei tuoi problemi. Riguardo la tua salute, non avrei mai immaginato fosse stata così cagionevole. Mi consola che non se l’aspettava nessuno perché forse non era solo con me che non ne parlavi. Ma è una magra consolazione. Ha anche poca rilevanza pensare che io ero quella che si sottoponeva ad esami invasivi per sospetti diagnostici poco felici (per fortuna solo sospetti). Ero io quella che aveva subìto almeno un intervento chirurgico necessario, che aveva avuto una gravidanza complicata e dopo la gravidanza che continuava ad avere sintomi poco chiari. Di recente, a parte i virus che ti beccavi nonostante i vaccini, non mi avevi mai riportato un problema di salute importante, se non l’ipertensione. Ma alla tua età, che era anche la mia, non avrei mai pensato che qualcosa avesse potuto esserti fatale.

E questo qualcosa rimane per me un mistero, anche se in parte mi sento responsabile per avere aggravato la tua situazione. Un giorno, a cuor leggero, ti dissi che pensavo di liberarmi di un ultimo pezzo del mio passato, l’appartamento che un tempo era dei miei nonni, e dove tu abitavi in affitto. Non pensavo che questo potesse buttarti giù. Te lo dissi due anni prima, ma soltanto quando fu ufficiale divenne per te un problema. Capivo le tue difficoltà, ma forse non fino a che punto fossero per te gravi. La comprensione delle esperienze altrui è limitata dalla propria percezione dei fatti. E la mia percezione è quella di una persona che ha vissuto diversi traslochi e spostamenti e in ognuno di essi ci ha visto un’occasione di rinnovo o di miglioramento, anche in situazione di difficoltà. Ma per te non era così. Tu preferivi vivere vicino a tua madre, anche se in una zona inquinata e in via di degrado. E la mia comprensione è limitata dal fatto di aver perso entrambe i genitori e di esser andata a vivere lontano dallo smog e dal degrado e di esser comunque felice delle mie scelte e di aver trasformato le tristi vicende in un percorso di autodeterminazione.

Non sto cercando in questo post l’occasione per liberarmi di un possibile senso di colpa o di trovare una spiegazione per la tua venuta a mancare. In fondo non esistono spiegazioni vere e proprie degli accadimenti, ma soltanto combinazioni. E purtroppo il fatto che il giorno prima l’agente immobiliare è venuto con un potenziale cliente ed il giorno dopo, quando dopo mesi dovevamo vederci, non ce l’hai fatta è soltanto una combinazione. Forse se non avessi deciso di vendere tu saresti ancora qui o forse no. Forse è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso o forse no.  Tuttavia mi sento a malincuore parte di questa combinazione, di questa possibile causalità o forse soltanto casualità. Ma ti scrivo per aver occasione di rincontrarti perché nonostante il peso di tutti i problemi e preoccupazioni che avevi eri e per me rimani sempre quella “biondina garibaldina” di cui tu, credo, avessi nostalgia. Eri una lettrice fedele di questo blog. Una delle ultime volte che ti ho vista mi hai chiesto perché non scrivevo più. Purtroppo mi hai dato un’occasione per ricominciare e dare forma al tuo ricordo. 





domenica 11 dicembre 2016

Quelle strane occlusioni

“Schwanden, prima di parlarti di lavoro, vorrei tornare sulla questione e sul tema della discriminazione. Sono tornata di recente in visita alla mia città natale. Sono stata pochissimo, ma non avrei voluto stare di più, se non per rivedere tutte le persone che avrei voluto. Io penso di non poter, né volere, più riviverci. Ho trovato una città sempre più scoraggiata e sempre più rassegnata. Sempre più derubata. Le persone non si sentono più a casa loro. Si sentono sopraffatte dagli stranieri, si sentono incapaci di qualsiasi azione per riprendere in mano la propria nazione, nessuno si sente tutelato dalla legge. Dall'altro lato invece ci sono quelli che non ascoltano questioni che definiscono “lamentele e odio del popolo” perché possono permettersi una posizione privilegiata e credono ciecamente nella legge e nelle istituzioni soltanto perché non hanno controversie.

Ciò che penso è che in Italia ci si frega da soli. Per prima cosa non si ha la capacità di distinguere tra le persone oneste e quelle disoneste. E allora, ci si scontra con questioni razziali. Se qualcuno crede che sia necessario non fare entrare più immigrati è proprio perché crede che in Italia non si abbia questa capacità di distinzione. Se non si è consapevoli di chi siano le persone oneste e quelle disoneste, di chi paga i suoi debiti e chi no, allora si deve distinguere tra chi è alto o basso, tra chi è immigrato o no, tra chi è ben vestito o malvestito, tra chi è bello o brutto, tra etero o gay. Questa è l'Italia: le discriminazioni sono basate soltanto su elementi esteriori e non su questioni di fatto. E quindi per non apparire razzisti, sessisti, omofobi, si accetta tutto: falsità, disonestà, assenteismo, evasione, perversione. Ed è anche per questo motivo che poi uno straniero vanta pretese che non ha, giocando sull'apparente discriminazione. Il classico esempio dello straniero multato sull'autobus perché viaggia senza biglietto e ha la pretesa di insinuare: “tu fai la multa a me perché sono nero.” E qualcuno è ancora capace di dargli ragione. A nessuno invece è chiaro che se ricevi una multa è perché hai fatto una violazione. Nolente o dolente è così. Non condanno chi commette infrazione, ma chi non vuole assumersene la responsabilità e pagarne le conseguenze. Se non accetti di vidimare per viaggiare in autobus, anche se non passa il controllore, dovresti andare a piedi, in bici o fare l'autostop.

Eppure, Schwanden, anche io da ragazzina ne ho fatte bravate, un po' per sfida, un po' per gioco. Vedevo che i miei genitori non mi rimproveravano se dicevo “oggi ho viaggiato senza biglietto: tanto erano poche fermate e poi l'autobus era pieno e difficilmente avrebbe potuto salire il controllore”, ma avrebbero fatto una scenata se avessi detto “oggi, dopo aver obliterato, ho conosciuto un ragazzo molto affascinante, tant'è che mi sono dimenticata di scendere alla fermata giusta e sono arrivata con lui fino al capolinea.” Sarebbe stato poi uno scandalo se avessi detto che il ragazzo era straniero. Mi ricordo da bambina quando sentivo alla radio una canzone (che mi dissero di Giuni Russo) che diceva : ”che scandalo da sola ad Alghero, con uno straniero, con uno straniero.” Eppure nessuna canzone ha mai condannato chi non paga le tasse o non rispetta gli altri.

In Italia non c'è nessuna consapevolezza di cosa sia di fatto l'onestà. Tutti pensano di essere buoni, onesti, ma quando possono sgarrano senza nemmeno rendersene conto. Non ci si accorge che così ci si frega l'uno con l'altro, facendo anche un danno a sé stessi.

E non è un caso se adesso la situazione, a detta di alcuni, sembra quasi insostenibile: furti all'ordine del giorno, morosità, criminalità. E poi invece ci sono quelli “ingessati”, che pensano che tutto si risolverà. Ma la gente ha sempre più paura di esporsi, preferisce subire o sperare che tutto si risolva per il meglio, senza di fatto far nulla.

A me spiace vedere questa situazione, anche se non ci vivo più. E poi, come ti ho detto, ho subito anche io un'ingiustizia. Ma ciò che mi spiace di più non è il fatto che adesso casa mia è in mano a gente che non paga. Ma ciò che mi spiace di più, da una parte, è che questa gente si comporta come se nulla fosse, come se avesse ragione, senza dichiararne il motivo, senza scusarsi, senza rispondere. Ed anche al tribunale sembra normale concedere tutti questi mesi di alloggio gratuito. Anzi, si impegnano pure a trovargli un altro alloggio.

La cosa che mi intristisce in assoluto è aver affidato l'incarico di mediazione, per trovare gli inquilini, ad una mia amica. Mi fidavo di lei. La conosco fin da quando ero bambina. Avevo scelto lei perché, lavorando all'agenzia delle entrate, è esperta in questioni fiscali, amministrative e, in quanto avvocato, pure legali. Ma purtroppo mi ha deluso. Evidentemente non condivideva i miei obiettivi. Senza dubbio ha svolto tutte le pratiche in maniera adeguata, ma il grosso errore che ha fatto, nonostante la sua formazione, è non aver saputo distinguere, di fatto, tra lavoro tassato e lavoro in nero e quindi non essere stata in grado di giudicare tra chi avrebbe potuto pagare e chi no, o tra chi vuol fare il furbo e chi no. Infatti ha effettuato controlli puramente formali, ma in effetti se una persona lavora in nero non si può sapere quanto guadagna e non ha senso verificare il contenzioso fiscale. Comunque, senza entrare nei dettagli, una vera amica si sarebbe comportata come se la casa fosse stata sua e quindi avrebbe avuto più scrupoli, avrebbe dovuto sentirsi più coinvolta. Forse lei crede troppo nelle istituzioni e allora ha pensato che se le cose sarebbero andate male l'avvocato avrebbe preso in mano la situazione e l'ufficiale giudiziario avrebbe risolto tutto. Ma non si è resa conto del guaio o del danno che questo avrebbe cagionato. Forse, come un agente immobiliare, ha voluto sbrigarsi a fare incontrare domanda e offerta, dimenticando che si trattava di un incontro al buio e, aldilà del compenso percepito, di una commissione da fare per un'amica.
Ne ho parlato apertamente con lei, ma questa è stata la sua risposta: “neanche ad un agente si addossa la responsabilità per la morosità e poi, cosa pretendi, non è mica raro in questi tempi trovare gente che non paga”. Poi ha voluto restituirmi il compenso che le avevo dato.
Schwanden, io non l'accuso certamente per avermi trovato queste persone. Anche se prima d'ora non mi era mai capitato di trovare persone inadempienti, questo non vuol dire che non sarebbe capitato se l'avessi affittata io. Ciò che mi ha deluso è il fatto che lei abbia sottovalutato una commissione piuttosto delicata per un'amica, eseguendola nel modo più distaccato possibile.
Anche quando doveva sollecitare il pagamento, non si esponeva più di tanto. Poi ho preso in mano la situazione, ma non potendo, per i problemi di salute che ho avuto, recarmi a parlare personalmente con queste persone, non sono riuscita ad evitare lo sfratto, anche se sono riuscita a recuperare una mensilità. Dopodiché ho dovuto affidarmi all'avvocato e da allora non ho ricevuto più nessun pagamento. Poi queste persone non rispondono, né ritirano i comunicati: sono un muro. Devo confessarti, Schwanden, che se avessi avuto la possibilità di recarmi a casa mia forse avrei rischiato una denuncia o peggio. Ma credimi, non avrei alimentato il lassismo, l'omertà e l'abulia che regnano nel paese. Sembra che nessuno sia più disposto ad impegnarsi per difendere nulla, neanche i propri diritti. Basta che sei connesso in rete e allora va tutto bene, mentre la realtà ti sfugge sotto gli occhi. Schwanden, sai che se mia sorella non fosse anche proprietaria della casa, sarei stata disposta a concederla in comodato gratuito a persone in difficoltà, ma non disoneste. E perciò io avrei rischiato la denuncia, non per questioni di denaro, ma per dignità personale. Perché non accettare la disonestà non significa avere pregiudizi, ma vuol dire non lasciarsi prendere in giro."


sabato 20 agosto 2011

La discesa in Rete

Il dottorato segno' la fine della mia ricerca dell'eccellenza e degli imperativi che mi avevano imposto un percorso verticale.
Cominciai a realizzare che l'altitudine era opprimente e insana poiché mi distaccava dalla mia natura. Ero ormai in una posizione talmente elevata da rendere la discesa l'unica possibilita' di proseguimento del cammino. Cio' non voleva dire che dovevo tornare indietro, ma che dovevo soltanto scendere, con la possibilita' di percorrere una strada alternativa a quella che mi aveva condotto alla salita, osservando aspetti della realta' ancora ignoti. Inoltre la discesa mi avrebbe consentito anche di spostarmi verso un'altra vetta.
Ma la priorita' era scendere, scendere per vivere, la piu' naturale delle ambizioni che gli studi avevano oscurato.
L'azione, il movimento sono piu' importanti di qualsiasi pensiero o principio. Pertanto non dovevo deprimermi se trovavo un lavoro non abbastanza qualificato da giustificare i miei studi oppure un lavoro interessante, ma precario e sottopagato.
Costituisce un vantaggio aver studiato se ci vincola ad uno "status" che la societa' impone? E' un vantaggio aver studiato se ci induce a pensare che un lavoro non sia adatto a noi solo perche' non qualificato anche se sfrutterebbe le nostre capacita' e fosse in linea con la nostra personalita'? E' un vantaggio aver studiato se ci allontana dalla nostra natura, dalle persone che amiamo e quindi da cio' che ci renderebbe felice? Si studia per avere maggiori opportunita' oppure per precludere alcune strade?
Analogamente, non era fondamentale che il mio progetto di ricerca, conclusosi con la tesi di dottorato, ottenesse un riconoscimento e fosse pubblicato in una ricerca scientifica.
"La tua tesi va bene per finire il dottorato e conseguire il titolo di studio. Ma se vuoi avere piu' possibilita' di fare carriera come ricercatrice all'Universita' dovresti lavorarci ancora per poter rendere il tuo lavoro pubblicabile. Puoi chiedere l'estensione della borsa di studio per un anno". Mi disse il coordinatore del corso di dottorato. Ma io ero stanca e la mia impazienza era piu' forte della mia perseveranza. Realisticamente, se non avevo ricevuto abbastanza stimoli e incentivi nel corso dei tre anni, la situazione non sarebbe cambiata in un ulteriore anno. "Voglio chiudere", pensai. In fondo ero soddisfatta. Avevo fatto un lavoro abbastanza dignitoso per poter ottenere il titolo nel piu' breve tempo possibile. Il mio tempo, la mia vita valevano di piu' di qualsiasi possibile gratificazione futura che poi forse non avrei neanche apprezzato.
L'importante allora era recuperare quello che avevo perduto: la mia spontaneita', il mio umorismo, la mia predisposizione naturale ad aiutare gli altri, ad ascoltarli e comprenderli, la mia voglia di intrattenere le persone e, a mia volta, essere intrattenuta da loro.
Negli ultimi anni passati, avevo posto me stessa sempre in primo piano, dimenticandomi di quanto fosse importante la "tappezzeria" nel determinare la bellezza e l'armonia di un ritratto.
Dovevo uscire dal mio isolamento. Purtroppo la rottura con il mio convivente fu inevitabile. Ero confusa, distante, pur amandolo. Forse perche' lo consideravo complice della mia isola, o meglio, della nostra isola che in sua compagnia trovavo piacevole, ma in sua assenza paranoica.
Sentii il bisogno di rivedere le amiche piu' care da cui, inspiegabilmente, mi ero allontanata. Rivedendole e restando sempre in contatto tramite i social network, ho ritrovato la voglia di ridere, ridere fino al punto in cui si prova male alla pancia. Ero stufa di controllare le mie emozioni: volevo poter sfogare la mia gioia o la mia rabbia urlando in liberta'. La mia indole in fondo non era cambiata. Era sempre quella di quando avevo quindici anni, ma soffocata dalle responsabilita' familiari e dalla Legge che mi ero imposta. Anche la mia creativita' artistica era rimasta tale, anche se in forma latente. Infatti era da tanto tempo che non disegnavo piu! Ora potevo ricominciare. Ora ero libera dall' "Ideale" che mi aveva salvaguardato, ma anche trascinato in una situazione di stallo radicale.
Quali erano le mie vere preferenze? Le persone mi interessavano piu' dei numeri. Scrivere, mi piaceva di piu' che risolvere problemi matematici. Perche' negarlo? Perche' ostinarsi a voler essere indifferente alla gente? Perche' voler soffocare l'empatia e la curiosita' per le esperienze altrui?
Ora potevo condividere i miei pensieri e manifestare liberamente le mie idee su Internet, confidarmi con le mie amiche come un tempo e ascoltare le loro confidenze. Potevo farlo anche senza abbandonare la mia isola, che pian piano divenne soltanto un luogo dove rifugiarsi e non un luogo in cui radicarsi e identificarsi.
Grazie alla Rete partecipai alle rimpatriate con i vecchi compagni di scuola delle medie e delle superiori.
Non posso negare quanto mi fece piacere rivederli e quanto contribui' all'abbandono del mio isolamento.
Seguire i miei amici e leggere le loro pagine in Rete mi interessa di piu' di ogni materiale accademico o di un libro. Perche' negarlo? E' con sincerita' che esprimo tuttora la mia ammirazione per gli amici che si sposano, che hanno figli, per quelli che manifestano le idee in cui credono e per quelli che sono sempre alla ricerca di avventura e che vivono pienamente il presente nella sua instabilita'.
Ogni scelta di vita, ogni pensiero devono essere manifestati se esprimono la propria natura. La diversita' crea confusione, ma e' dalla diversita' che nascono le nuove prospettive.

lunedì 20 giugno 2011

La tavola e il letto

Ero sempre fuori casa, tranne per desinare e dormire, momenti in cui la mia assenza non era ancora tollerata. Mia madre esasperava il vitto: "Cosa mangi e come mangi fuori?"; mio padre l'alloggio : "Con chi e dove dormi?". Gli unici elementi che mi legavano alla famiglia, e che quindi limitavano la mia indipendenza, erano la tavola e il letto. Ma io chiedevo sempre di piu'. Mio padre riguardo al letto era inflessibile, ma riguardo alla tavola per fortuna era indulgente.
Richiedevo sempre piu' tempo da trascorrere con gli amici. Soffrivo quando non li vedevo e quando non erano disponibili. Inoltre mi sentivo inetta quando non conoscevo persone nuove. La mia felicita' dipendeva dagli incontri occasionali in discoteca, al luna park o dove capitava. Ma cosa cercavo veramente? In fondo cercavo amore. Frequentavo diversi ragazzi, ma in realta' ne avrei voluto uno solo. Avrei voluto una persona con cui instaurare un rapporto esclusivo, speciale. Ma non la trovavo. Forse perche' cercavo nel posto sbagliato o forse perche' mi trovavo nel posto sbagliato o forse era solo questione di tempo. Ma nella mia disperata ricerca mi divertivo e non avrei voluto essere altrove o vivere diversamente. Le mie esperienze erano esplorative, "orizzontali", non "verticali". Le mie amiche pero' erano il mio punto di riferimento, le persone a cui potevo confidare le mie vicissitudini senza tabu'.
Ma con loro non condivisi il mio disagio familiare. Non volli render loro partecipi dei miei problemi, della mia tristezza della mia "anormalita'". Non volli menzionare l'esistenza di una sorella con encefalopatia neonatale. Fuori di casa, infatti, era come se la mia famiglia non esistesse. Ero spensierata, leggera, come se io non avessi origini ne' radici. Ma se non avevo capo, non avevo neanche coda.

domenica 12 giugno 2011

La margherita

Quale ponte mi avrebbe consentito di raggiungere i miei compagni?
Avrei dovuto trovare un modo per attirare la loro attenzione e stimolare il loro interesse. Un modo che mi permettesse di distinguermi, ma al contempo di non estraniarmi, di  essere allo stesso tempo come loro, ma differente.
Ho sempre attirato l'attenzione dei coetanei. All'asilo ero un po' temuta per la mia aggressività e prepotenza. Alle scuole elementari si notava in primo luogo la mia stazza.  Il mio anticonformismo sembrava soltanto l'altra faccia della mia anormalità.
Alle scuole medie era l'essere la prima della classe che mi contraddistingueva, mi spaventava, mi faceva sentire a disagio e impacciata. Il pensiero di essere "anormale" mi rendeva irraggiungibile, paralizzando non soltanto l'azione, ma anche il dialogo.
All'inizio delle scuole superiori, sentivo che volevo ritrovare la mia spontaneità, il sorriso e l'estroversione infantili, che forse  si erano sciolte insieme ai chili che avevo perso o insieme al sudore dello studio.
Volevo essere una margherita, un fiore alla portata di tutti, da poter facilmente cogliere e ammirarne la bellezza. Non volevo essere una stella alpina, inarrivabile e difficile da staccare.
Preferivo rischiare che qualcuno avesse potuto strapparmi i petali o calpestarmi piuttosto che evitare di cogliermi.
Pensavo che offrendo interamente la mia disponibilità agli altri, non sarei stata abbandonata. Gli altri sarebbero venuti e tornati da me. Nella migliore delle ipotesi, mi avrebbero fatto sentire amata. Nella peggiore, usata. Ma per lo meno sarei stata utile.
E questo era cio' che mi interessava, ma mi trovavo ad un bivio. Dovevo scegliere tra la direzione che volevo seguire e la direzione che i miei genitori avrebbero voluto che seguissi, cioe' quella della preservazione, in cui sarei rimasta una stella alpina, al riparo dalle grinfie altrui.
Ma il nido familiare mi opprimeva. Volevo espormi, esprimermi al mondo, uscire dall'isolamento in cui mi sentivo segregata. 
Essere la prima della classe non esprimeva l'immagine che volevo dare agli altri. Volevo invece intrattenere,  diventare la prima attrice del cabaret scolastico. Volevo animare la classe. Volevo che ogni giorno fosse particolare.
Far ridere i miei compagni, era una delle soddisfazioni più grandi.
Per farlo, dovevo usare le loro espressioni gergali, quegli intercalari vietati nel mio nido, ma al contempo introdurre aspetti di originalità e comicità.
Sono riuscita nel mio intento, anche se esagerando. Gli insegnanti perdevano la pazienza e, per ristabilire il loro protagonismo scenico, mi invitavano  ad abbandonare la platea.
Ma era l'unico modo per essere portavoce della ribellione al sistema, alle regole, all'ordine e alla disciplina. Volevo essere la forma di espressione del sentimento di noia e costrizione che accomuna gli studenti. Pensavo che in fondo tutti i miei compagni avrebbero voluto essere fuori dalla classe, ma non ne avevano il coraggio. Volevo trasmettere quell'ebbrezza, anche se in forma catartica. Mi proponevo come il loro capro espiatorio.
Ho rischiato la bocciatura soltanto per la mia condotta. Se fosse successo, l'avrei accettato con responsabilità, essendo  conseguenza della mia provocazione, del mio ripudio ad un comportamento ortodosso.
In realtà la mia famiglia  e lo studio erano Il capro espiatorio del mio essere diversa, di non aver una vita normale.
Osservavo mia madre, una chioccia con tre pulcini, tra cui due incapaci di esprimere la propria volontà. Uno per handicap, l'altro per carattere. Io non volevo essere il terzo, ed in fondo neanche mio padre lo voleva, ma non lo impediva.
Studiare mi piaceva, mi distraeva dal malessere familiare, ma mi estraniava. "Odio la mia famiglia e odio studiare". Era un modo per convincermi che il problema non era interiore, ma esteriore.
All'epoca in classe mi sentivo "viva", ma in realtà non stavo vivendo la mia vita, ma soltanto l'attimo. Era un bellissimo sogno, ma non potevo negare che nella mia vita c'erano la mia famiglia e i miei insegnanti.
Pensavo di aver costruito un ponte stabile con i miei coetanei. Ma in realtà ero diventata un ponte instabile, aprendo il dialogo con i coetanei e chiudendolo con la mia famiglia e gli insegnanti.
Se prima ero troppo solerte per essere credibile ai miei coetanei, in questa fase ero troppo negligente per essere credibile agli adulti.