sabato 26 ottobre 2013

Senza concludere nulla (Conclusione)

Gli anni passano e mi sembra di non aver concluso ancora nulla nella vita: famiglia, lavoro, posizione... Eppure, a pensarci bene, se sono in questa situazione è forse perché ho sempre concluso tutto, senza "`carichi pendenti"'. Pertanto il non aver concluso nulla di fatto vuol dire non aver continuato nulla, una volta portata a termine qualsiasi cosa.
Ho sempre messo un punto a tutto ciò che ho fatto, anche se mi piaceva, per poter passare ad altro, per essere libera, per rigenerarmi, per non cadere in trappola.

Ed ora penso sia giunto il momento di mettere un punto anche a questo blog che rileggo con soddisfazione, una soddisfazione che può esprimersi soltanto esaminando un prodotto finito. Ed ecco qua il mio ebook. Avrei voluto pubblicare questo libro in forma tradizionale, ma poi ci ho ripensato.

Il mio fine è più ambizioso: non voglio che questo lavoro si venda, ma che si legga. Spero mi aiutiate a realizzare l'obiettivo. Purtroppo non posso averne un riscontro. Quindi vi chiederei di lasciare un commento in quest'ultimo post, anche per dirmi che avete soltanto letto una parte del blog e cosa vi sia piaciuto di più (o di meno, sono aperta a critiche). Ora tocca a voi.

Il mio punto l'ho messo. Non ho concluso nulla? Beh! L'unica cosa che veramente si conclude nella vita è la vita stessa. Se sono inconcludente, allora sarà quella la ragione.



La mia Espressione ha ora una Forma. 
Spero abbia lasciato anche un segno.


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mercoledì 23 ottobre 2013

Miles away

“Excuse me, Sir. Where is my home?”
“Your home? Uhh! It's miles away!”
“Thank you very much, indeed.”


Quando vivi in un Paese straniero credi di avere due lingue per esprimerti: quella del cuore e quella del culo. Quella del cuore è la tua lingua madre: le sue parole ti sembrano frutto del cuore, di ciò che senti, della tua natura. Parli, e anche senza la tua volontà dici delle cose istintive, ma di senso compiuto. Invece la lingua del culo è frutto della fortuna che hai per averla imparata. Le sue parole però ti sembrano scoregge se non è il pensiero a controllarle. Se ci si esprime con la lingua del culo non ci si può adagiare sulla poltrona e parlare: occorre muoversi, attivarsi e attivare il cervello, mostrare le proprie abilità, esercitarsi e per padroneggiarla bisogna mischiarsi tra la gente, capire la loro cultura, studiare le loro espressioni, interagire con loro. Con la lingua del cuore invece tutto risulta più semplice. Si può star seduti e parlare. Tutto prende forma, tutto assume un senso. Tutto si può risolvere stando semplicemente lì, dove si è. Non facendo nulla, si può continuare a vivere e mantenere la propria posizione.
Con la lingua del cuore ci si sente già sicuri e preparati, perdendo talvolta la motivazione per migliorare le proprie capacità espressive nel linguaggio quotidiano. Con la lingua del culo invece ci si sente insicuri, ma spesso è proprio questo ciò che spinge a migliorare le proprie capacità espressive per sentirsi più integrati nell'ambiente lavorativo o nella società.

“Miles away?” Non c'è nulla che può alleviare le tue pene come l'umorismo inglese. Di sicuro il passante voleva scherzare, visto che mi ha visto smarrita. Mi ritrovai a camminare in una sorta di tangenziale, al buio, con le auto che sembravano venirti addosso. Come ci ero finita, non lo sapevo. Soltanto curiosità. Avevo esplorato un posto nuovo. Volevo tentare una scorciatoia, ma mi ero persa. Era da poco che avevamo traslocato in quella zona. Prima vivevamo in una casa in condivisione al Sud di Londra. Ricordo il trasloco: saranno stati circa una decina di viaggi sui bus londinesi con borsoni stracarichi, in mezzo al traffico. Tutto questo per evitare la comodità di chiamare un camion per i traslochi. Eppure era bello vedere che lì la gente sembrava pensarla come te, anche se non è bello avere tutti la stessa idea allo stesso momento nello stesso bus. C'è persino uno che trasporta un carico di banane! Ma dove va?

Ciò che mi manca di più di vivere fuori dall'Italia non è uno stipendio adeguato, ma lo spirito di vivere ogni momento con curiosità, la possibilità di avere grilli per la testa e di potermi permettere di saltare con loro. Ovviamente bisogna premettere, che senza quello stipendio non avrei potuto permettermi di saltare insieme ai miei grilli. Ma non bisogna mai confondere i fini con i mezzi. E il denaro non è uno dei miei fini, anche se senza mezzi non potrei avere fini.

Di fatto non ho abbandonato quello spirito di avventura e di curiosità da quando sono tornata in Italia. Il problema è che questo spirito non è ben accetto in questo Paese. Qua nulla è più temuto di chi vuol cambiare. Non è concepibile che tu possa fare un lavoro diverso soltanto per curiosità, per sperimentare nuove mansioni, per metterti alla prova sviluppando nuove abilità. No, non è concepibile. E nemmeno è concepibile che si voglia lavorare per un po', poi prendersi un anno sabbatico, pur in assenza di problemi esistenziali, e ricominciare, senza subire “penalità” sul curriculum e senza venire mal giudicati. Inoltre è una delusione quando vedi che nel tuo Paese non ci sono né speranza, né futuro. Certo, finché si lavora si ha l'illusione che tutto sia sotto controllo e che prima o poi la situazione cambi. Di fatto si pensa così perché si è troppo assorti nella propria attività per pensare oltre. Anche io adesso mi sto illudendo, col mio piccolo lavoro e nella mia piccola isola.

Ma poi quando mi fermo a pensare o cammino per la strada, ho l'impressione di non essere mai tornata da Londra, ma nemmeno di essere mai partita. Cammino e non vedo i passanti, mentre a Londra camminavo e i passanti non vedevano me. Dove sono?
Forse aveva ragione quel passante.

“Miles away. My home is miles away.”


sabato 21 settembre 2013

Briciole di ... progresso

Progresso? Lo chiamano progresso, ma si è rivelato quale passaggio da una schiavitù ad un'altra: dalla schiavitù della povertà e della fame a quella della ricchezza e della competitività. In estrema sintesi: la transizione da un lavoro da schiavo alla schiavitù da lavoro. Se in passato comandava la legge della sopravvivenza, ora comanda la legge della produttività, con la conseguenza che non si è più liberi di scegliere per la propria vita, a meno di voler o poter vivere lontano dalla società.

Se ci fosse veramente progresso, non si sarebbe schiavi del proprio lavoro. Non si sarebbe costretti a lavorare tutto il giorno per dover sopravvivere in una società dove correre è il presupposto non per arrivare prima, ma per stare al passo.

In una società progredita non si dovrebbe cessare di esistere, perché completamente assorbiti dal proprio lavoro o perché rifiutati dal lavoro stesso e dalle dure leggi del mercato.

Ma quale progresso c'è stato nella società? In passato si era costretti ad emigrare, ma per fame, disperazione. Ora si emigra, per business o per lavoro. In passato si partiva non lasciando nulla: né casa, né famiglia. Ora si parte e spesso si lascia tutto: casa, amici, famiglia, agi. Per cosa? Ė un controsenso: si hanno agi, casa, si mangia bene e tuttavia si è costretti a partire. Perché? Perché non si può scegliere dove stare? Perché non ci si può più aspettare di vivere e lavorare dove si nasce?
Ė qui che ci ha portato il progresso?

Ho sempre pensato di essere una squilibrata, per la mia mania di perfezionismo o per la mia continua ricerca di cambiamento o miglioramento, per la mia insaziabilità intellettuale. E invece realizzo che è il mondo ad essere squilibrato, al punto da star diventando insostenibile. 

Paradossalmente, vivranno sempre più a lungo gli anziani e moriranno sempre prima i giovani. Non verranno più pagati gli stagisti/lavoratori, per poter pagare i pensionati o i dipendenti a tempo indeterminato, con una certa anzianità, talmente rincretiniti da anni di lavoro sempre uguale, ma che non possono andare in pensione perché troppo giovani.

E questo è il progresso. Morire di fame o di debiti, per l'insostenibilità di un elevato tenore di vita.

Se una volta si cantava “aggiungi un posto a tavola che c'è un amico in più...” ora si canta “caro amico, siediti e aspetta che finiamo di ingozzarci. Se sei fortunato avanza qualcosa.” Altro che dividi il companatico. Magari ti fanno pure leccare il pavimento per pulire i loro avanzi.

Briciole, nient'altro che briciole ci lascia ciò che abbiamo chiamato progresso. Briciole, di chi divide e non condivide. Di chi occupa un posto, ma non imbandisce la tavola.

Briciole, che se te le lasciano sei fortunato: concedendoti l'elemosina, ti offrono il pranzo. E devi ringraziare, potendo pulire i loro rifiuti.

E questo è il progresso.

Progresso tecnologico, scientifico, economico e tutto ciò che volete. Innegabilmente, la vita dell'uomo è migliorata, ma soltanto perché è diventata più semplice, meno faticosa, ma non più libera.

Il progresso ci mostra la vita come una successione di mete parziali: esami, diplomi, laurea, matrimonio, figli, avanzamento di grado e via dicendo. Ci induce a preoccuparci di toccarle una dopo l'altra, senza accorgerci di quanto avviene lungo la strada, senza mostrarci di fatto la vita stessa e cosa avviene all'ecosistema.

Il progresso ci mostra quali falliti se ne restiamo fuori. Ci induce a sentirci falliti se non siamo laureati, se non abbiamo un lavoro o se lo abbiamo perso, ma anche se non abbiamo una famiglia convenzionale. Per ogni cosa ci può far sentir falliti, ma di fatto l’unico modo in cui ci rende falliti è privandoci della capacità di farci sentire e vedere al di fuori di esso. 


sabato 13 luglio 2013

Trem-ore

Tremo. Non riesco a smettere di tremare. Continuo a muovermi convulsamente nel letto, tremando. Cerco a tutti i costi di smettere, ma non riesco a controllarmi. Non riesco a parlare. Ogni parola trema e tremano anche i pensieri. Forse è arrivata la mia ora? Ho l'impressione di essere in uno stato irreversibile. Eppure solo dieci minuti prima ero seduta sulla scrivania, davanti al computer, anche se effettivamente cominciavo a sentirmi un po' strana. Un'ora trascorre e per un'ora non smetto di tremare. Non sono sola e questo mi rassicura finché ad un certo punto mi addormento. Mi risveglio di notte con la fronte scottante e la testa in fiamme. I sogni sono incubi, che provocano scintille, mandando in corto circuito il sistema nervoso. E ho una forte nausea. Quaranta di febbre o poco meno: il termometro dell'esperienza non ha mai conosciuto tale temperatura, ad eccezione di qualche reminiscenza del morbillo in età infantile.

Non so cosa stia succedendo. Mi duole ogni cosa, mi sento bruciare dappertutto.
Penso di non farcela e invece dopo giorni di lotte antibiotiche la febbre passa, il delirio cessa, la nausea svanisce, i sensi riprendono a funzionare correttamente e anche la mente.

Mi tocco la pancia per capire se ho ancora male e ad un certo punto compare al tatto una strana palla interna, sopra l'ombelico. Di certo non sarà stata quella roba ad avermi causato l'infezione, ma ora devo capire cos'è. Da un primo esame non è chiaro. Pare essere un ribelle all'invasione laparoscopica dell'intervento subito cinque mesi fa. Un pezzo interno che, sentendosi oltraggiato, ha deciso di reagire oltraggiando a sua volta.

Ma proprio ora che quel “coso” mi distrae dal pensiero di trovare un altro lavoro, ecco che arrivano le proposte. Tutte insieme, altogether. Mi confondono. Lavori da prendere o lasciare, precari, ma lavori, finalmente. Lavori atipici: se ne hai uno è troppo poco, ma due son già troppi.

E mi sento come se avessi aspettato per ore alla fermata di un bus che tarda ad arrivare. Quando ad un certo punto lo vedo arrivare, il sollievo svanisce repentinamente nel momento in cui mi accorgo che in realtà c'è un'altra vettura uguale in coda alla prima. L'istinto mi conduce a salire sulla prima vettura, più vicina alla vista e ad ogni altro senso. Ma poi penso che nel secondo bus si potrebbe viaggiare più comodi, addirittura seduti, perché tutti salgono nella prima vettura che vedono. Inoltre la seconda vettura potrebbe giungere prima a destinazione, muovendosi più agevolmente nel traffico e superando la prima. E allora su quale bus dovrei salire? E se il secondo fosse solo un miraggio? Oppure, più verosimilmente, se scoprissi, una volta persa la prima vettura, che in realtà la seconda viaggia con l'insegna “FUORI SERVIZIO?”

No, devo assolutamente salire sul primo bus, ma con gli occhi ben aperti, pronta a evitare i passeggeri che nella calca potrebbero pestarmi i piedi o venirmi addosso.

E come fare per rivendicare la ma dignità e difendere i miei diritti di passeggera che ha sempre pagato regolarmente la tariffa?


giovedì 6 giugno 2013

Dis - Illusione

Parlano di ideologie come se stessero ripetendo una lezione scolastica. Ti vendono le idee, come se stessero vendendo i cellulari: lo stesso tono, lo stesso modo di parlare. E poi si arriva sempre lì: “se volete sostenerci, dateci i soldi” che di fatto significa “non ci importa se condividi le nostre idee, se sei sensibile ai nostri problemi, se partecipi ai nostri progetti, basta che ci dai i soldi.”
La gente, pure quella che dà l'elemosina, disprezza gli accattoni, che pensa siano “rifiuti sociali”, perché puzzano e hanno i vestiti stracciati. Ma è solo questione di immagine: questi altri che parlano sono profumati, vestiti adeguatamente e si esprimono con un linguaggio forbito. Ma di fatto ti stanno chiedendo la stessa cosa, anche se l'accattone te lo chiede per la sua sopravvivenza, mentre questi te lo chiedono per mantenere e ristrutturare il proprio cartello pubblicitario. Ed allora si preferisce contribuire a mantenere ideali, perché immortali, piuttosto che mantenere una vita umana, mortale. Allo stesso modo, è meglio investire nel patrimonio artistico-culturale, piuttosto che occuparsi della gestione dei rifiuti.

Ho sempre diffidato del fascino dei circoli, associazioni o movimenti politico-ideologici-sociali …
Leggi ciò che scrivono, ascolti ciò che professano e rimani sedotto. Poi capisci che dietro le parole spesso non c'è nulla di diverso: sono gli stessi uomini che essi criticano, anche se si vestono con altri abiti, compiono le stesse azioni e gli stessi errori, anche se scaturiscono da diversi pensieri o sono mossi da diverse ragioni, la stessa ipocrisia, sotto diverse maschere. Sono davvero commossa quando sento parole in cui credo: “lavorare di meno, per solidarietà, per poter permettere a ciascuno di lavorare” e invece poi, quando incontri e conosci le persone che lo dicono capisci che in fondo pensano : “lavorare meno, perché non abbiamo più voglia”. Di fatto è lo stesso egoismo, la stessa accidia, la stessa attitudine al cambiamento di chi, a parità di situazione economica, dice: “A no, non potremmo mica vivere con mezzo stipendio.”
Un altro esempio: scegliere i prodotti artigianali e i cibi locali per sostenere il lavoro delle persone e non per ungere gli ingranaggi delle grandi catene commerciali. Condivido e pratico, anche se rimango delusa quando mi accorgo che di fatto molte persone non lo fanno per l'economia, ma per provincialismo o perché passano il tempo a mangiare o bere, o per snobismo verso i prodotti da “pezzenti.”

In questi mesi ho scritto alcuni articoli, in un sito specifico, sulle tematiche che criticano la crescita quantitativa e non qualitativa dell'economia. Ciò che ho espresso è coerente con i miei pensieri e le mie azioni attuali. Mi ha dato molta soddisfazione divulgare i miei scritti su un sito diverso da questo che gestisco solo io. E sono contenta di aver avuto molti lettori.

Ma staccandomi dalla rete, ho incontrato alcuni soci dell'associazione che organizzano eventi, campagne di sensibilizzazione e ho realizzato che non è tanto diverso da incontrare persone che lavorano nel marketing di un'azienda commerciale. Entrambi fanno pubblicità a ciò che vendono, usando tecniche di persuasione, seppur attirando la massa con altre tecniche, perché diversa è la tipologia del clienti. Ma il risultato è lo stesso.

Ed ecco che realizzo che alla società non servono nuove idee e progetti, se poi vengono trattati allo stesso modo dei prodotti commerciali. Non si dà importanza a ciò che si dice: non fa nessuna differenza vendere patate o idee. Il singolo non adatta il proprio comportamento ai suoi valori, alle sue priorità e a ciò che pensa veramente, ma al luogo in cui si trova a vendere.

Non voglio incitare al pessimismo, scetticismo, cinismo o ipercriticismo, ma alla consapevolezza che la società è un palcoscenico e dietro di esso ci sono gli attori, che sebbene non siano spinti da compassione o solidarietà, ti offrono momenti catartici o attimi di piacere, ma senza amore. Non si possono infatti esprimere veri sentimenti se si agisce non spinti dai propri pensieri, ma da spirito di associazionismo o realizzazione personale.

Ed allora occorre chiarire a sé stessi se si vuole collaborare per i propri ideali, per associazionismo o per fini di utilità sociale. Perché se si è spinti soltanto dai propri ideali e valori non si ha alcun bisogno di farsi pubblicità o di partecipare alla vita associativa. Per esempio come sto facendo ora in questo blog o nell'altro blog, dove mi concentro solo sulla scrittura dei contenuti che scelgo. Se invece si cerca il riconoscimento personale in un gruppo, o non si vuole rischiare di rimanere isolati o di sentirsi inutili alla società allora occorre tener presente che si sta collaborando per associazionismo e non per i propri ideali. E allora occorre subordinare le proprie idee ai comportamenti sociali.

E così decido di restar fuori da ogni associazione, continuando invece ad aiutare, quando posso, alla mensa dei poveri o partecipando alla realizzazione di attività ricreative per disabili. In tali contesti infatti non mi interessa che le persone che incontro condividano il mio stile di vita e le mie motivazioni, ma mi interessa impegnarmi con loro per un risultato: un aiuto diretto alle persone in difficoltà, prescindendo da ogni ipocrisia che c'è dietro. A volte l'azione è più importante di ogni ideologia.

Ma c'è un'altra grossa questione che devo risolvere: qual è il mio ruolo professionale in questa dannata società? Decido di giocare tutto su un progetto innovativo e lo presento all'unica persona che da quando son tornata in Italia ha dimostrato, nei fatti e non nelle parole, di aiutarmi professionalmente. Ma se il progetto non dovesse andare in porto non vedo altra strada se non quella che porta all'aeroporto.  

Andare lontano non significa trovare quello che si sta cercando, ma trovare una ragione per non voler più tornare indietro. E questo vorrebbe dire voltar le spalle a mia sorella o c'è forse un'altra soluzione?


domenica 5 maggio 2013

Fuga da ...

Mi sono persa.
Persa, tra la nostalgia e i ricordi.
Persa, tra l'ideologia e l'azione.
Persa, tra ciò che vorrei fare e ciò che invece posso fare.
Persa, tra la libertà e i vincoli.
Persa, tra la coerenza e il compromesso.
Persa, tra l'accettazione e la rinuncia.
Persa, nel mare dei pensieri nel quale so nuotare, senza salvagente, in balia delle mie forze, le sole su cui posso contare se voglio ritrovare la strada.
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Quattro giorni senza internet e senza computer, mi hanno fatto ricordare come è bello vivere in mezzo al mondo reale e non virtuale. Come è bello dover pensare solamente a dove andare, cosa vedere, come muoversi, cosa mangiare e camminare fin dove le gambe lo permettano.
Osservare i luoghi con curiosità, senza rancori, senza giudizi, ma senza l'indifferenza di chi percorre la stessa strada, con gli stessi occhi.

Una breve vacanza: ne avevo bisogno. Ma ora torno, e mi sento confusa.

Realizzo quanto odio questa realtà virtuale che, se è vero che mi unisce a persone distanti, mi allontana da chi è vicino. Eppure devo ringraziare la tecnologia che mi consente di divulgare i miei pensieri e di rendermi conto che molti li condividono.

Ma ora? Tante cose ho detto e molte altre sono già state espresse da pensatori, filosofi … Tuttavia, mi chiedo come mai si continui a navigare nel fango (per non nominare altre ben peggiori materie biodegradabili) quando si potrebbe nuotare in un bel mare puro, se solo si seguissero le onde e la scia delle belle parole che spesso invece ci si limita a condividere distaccatamente.

Belle parole! Ma se si è coerenti con ciò che si pensa occorre agire di conseguenza, altrimenti è puro autolesionismo sostenere l'idea di un mondo più equo se poi si acquistano prodotti dalle multinazionali o dalle grandi catene globali che sfruttano la manodopera a basso costo.

Ma è molto faticoso essere coerenti con ciò in cui si crede.

Ad esempio, penso che al momento ciò che mi renderebbe felice sarebbe lasciare la città e cambiare stile di vita. Vorrei andare a vivere in un villaggio, lavorare in armonia con la terra e imparare dalla natura. Essere in sintonia con le altre persone del villaggio, con meno esigenze individuali, ma in un tutt'uno con l'ambiente esterno. Magari con dei figli, a cui poter offrire un'esistenza libera e naturale.
Infatti sono stanca di vivere una vita artificiale, fondata sull'immagine e sui contatti interessati. Forse la mia idea coincide col desiderio di voler fuggire dalla società attuale. Pertanto indugio perché chi mi sta accanto non condividerebbe la mia scelta. Ed allora fuggire dalla società, vorrebbe anche dire fuggire da chi sono legata affettivamente e dalla mia situazione familiare. E allora, cerco compromessi. Compromessi per non andarmene.

Penso a mia sorella invalida. Se fossi coerente con le mie idee, la riporterei a casa, provvedendo direttamente alla sua assistenza, come fece mia madre, anziché pagare con la sua pensione di invalidità persone estranee che le garantiscano vitto, alloggio ed ogni cura. Spesso infatti le loro scelte non mirano al suo benessere, ma al mantenimento della spesa pubblica. E devo mediare, lottando con la mia intransigenza e il desiderio di voler avere il pieno controllo della situazione, e non soltanto il potere decisionale sull'approvazione di scelte legate alla vita di chi non sa gestirla. Anche riportare a casa mia sorella sarebbe una fuga dalla società e da chi mi sta accanto. Nessuno infatti accetterebbe di frequentare o di vivere con una persona vincolata all'assistenza continua di un'altra persona che è gravemente invalida. Nessuno, nemmeno chi amerebbe vincolarsi alle cure richieste da un animale domestico. Nessuno. Inoltre vorrebbe dire rinunciare a qualsiasi lavoro retribuito, stabile o precario. Vorrebbe dire anche sacrificare la mia vita, anche se in realtà penso che la mia vita non sarebbe sacrificata, ma soltanto diversa. Diversa, come la vita del villaggio. Diversa, perché mi darebbe l'occasione per creare o unirmi ad una comunità o ad una rete di persone nella mia stessa situazione con le quali instaurare un rapporto di aiuto reciproco.

E allora se non posso, o non oso, fuggire dalla società, devo fuggire dai miei ideali, passando all'altro estremo. Un lavoro totalizzante, che non mi dia tempo di pensare ad altro, che mi dia l'illusione di una vita reale con persone, spostamenti, anche se di fatto resterebbe l'artificialità di obiettivi a me alieni, anche se ben noti al sistema globale. Ma sarei troppo impegnata per accorgermene. Troppo impegnata in riunioni, analisi, trasferte … Però potrei continuare a vivere con chi mi sta accanto e mantenere il poter decisionale per la tutela di mia sorella. Vivrei una vita individualista dove ognuno è per sé ed il sistema è per tutti. Ma sarebbe pur sempre un modo per continuare a vivere con un minimo di stabilità. Ma al momento, è difficile pure trovare questa via di fuga, pur dubitando di essere in grado di sostenerla in quanto aliena ai miei ideali e per certi versi simile alla vita che ho vissuto a Londra.

Eppure vorrei tanto una situazione intermedia. Un'alternativa agli estremi SOCIETÀ-NATURA contro SOCIETÀ-ARTIFICIO che mi consenta di vivere una vita reale, autentica nella società attuale e in armonia con i miei ideali. Una vita senza privazioni individuali, sociali o ideali.

Ci ho provato, tornando in Italia e continuo a provarci, perseguendo tale equilibrio come obiettivo della mia vita. Ma il tempo passa. Mi sono logorata, fisicamente, ma soprattutto mentalmente. Forse è il caso di sfidare la sorte. Forse è il caso di fuggire di nuovo. Ma verso quale direzione? Se resto ferma sento di essere in pericolo, in balia della tempesta che anziché calmarsi sembra voglia farmi naufragare per sempre e portarsi via il mio tempo. 


giovedì 28 marzo 2013

Rivol - lusione

“Perché allora non ci si ribella a questo moto di deriva della società? La spiegazione principale sta nel potere dell'attuale sistema di generare illusioni.”
Ivan Illich non poteva formalizzare meglio il concetto.

Illusioni, illusioni e ancora illusioni. E si continua, sperando. E' come essere alla fermata di un autobus che tarda a passare. Se non l'avessi aspettato e fossi andata a piedi, sarei già arrivata. Ma ormai ho aspettato tanto e andar via adesso non è razionale. E l'autobus continua a latitare. E sto li ad attenderlo.
Così il tempo passa e aspettiamo perché abbiamo aspettato tanto. E ci illudiamo, che tra un minuto passi. Se non avessimo avuto illusioni, ci saremmo mossi dalla pensilina e, magari con più fatica, avremmo raggiunto la destinazione, o perlomeno non saremmo immobilizzati dall'inerzia indotta dall'illusione.
Illusione. Basta!
Certo, forse l'esempio che ho fatto non è troppo calzante, visto che il trasporto pubblico, a parte in situazione di sciopero, garantisce un servizio. Pertanto più che di illusione, quando lo si attende alla fermata, si parla di fiducia. Però, bisogna dirlo, a volte il servizio ci fa illudere di poter arrivare in orario, senza partire in anticipo.

Trascendendo dall'esempio e tornando al discorso, grazie alle illusioni si può essere sfruttati. Qualcuno può infatti approfittare della nostra pazienza, della nostra buona volontà. Però se abbiamo aspettato tanto, non vuol dire che siamo disposti ad aspettare ancora e a non voler andarcene.
Quindi, se pensiamo di averne a sufficienza, diciamo basta. Basta! Non facciamo più un lavoro non retribuito con l'illusione di poter essere assunti prima o poi. Basta! Pensavo fosse diverso proporsi di lavorare volontariamente anziché accettare di lavorare volontariamente. Ma adesso basta! Non proporrò più di lavorare senza retribuzione, a meno che non ci sia un'effettiva utilità sociale (e non solo un beneficio di alcuni) o a meno che lavorare senza retribuzione non sia un investimento per il cambiamento. Ma attenzione. Dietro l'investimento deve esserci sì propensione al rischio, ma non illusione.

A volte, in buona fede, si pensa di fare i benefattori e invece si finisce per appoggiare le caste, i privilegi. Degenerando, i sadici campano grazie all'esistenza e all'appoggio, anche involontario, dei masochisti. Pertanto, in primo luogo, va posta la salvaguardia di sé, che di conseguenza significa anche salvaguardia dei diritti dei nostri simili. Il mio masochismo, il mio accettare di essere sfruttata induce gli altri a fare la stessa cosa per sopravvivere, per non essere meno “flessibile”, per vulnerabilità nei confronti di chi ha il potere. E quindi il mio comportamento masochista induce lo sfruttamento del masochismo. Difendere la propria dignità non significa essere “difficili”. Alcuni pensano che non accettare di stare alle regole sia un suicidio. Suicidio? Se ci accorgiamo che in casa il cibo è andato a male, che facciamo: lo mangiamo? Certo, se non possiamo permetterci altro, rischiamo di morire di fame. Ma accettare di mangiarlo non è forse come avvelenarci da soli anziché morire, in seguito alle contingenze, dopo aver fatto il possibile per evitarle?

Se nonostante ci sia bisogno di persone e di lavoro, ma non ci siano i fondi per assumerle, allora non dovrebbero industriarsi le aziende a trovare delle alternative? E invece, sono sempre e soltanto i lavoratori ad adeguarsi, disposti a tutto per illusione. Aziende e lavoratori dovrebbero invece collaborare al cambiamento, per trovare una soluzione alternativa, costruttiva, a difesa della dignità personale individuale e non a salvaguardia del sistema, di un sistema che è ormai malato terminale. Occorre far rinunce, certamente. Rinunce alle proprie abitudini. Ma soprattutto rinuncia all'illusione di una continua crescita economica e dei consumi. E' inutile cacciarsi la testa dentro la sabbia. E' inutile continuare a fare ciò che si è sempre fatto, ma in una situazione diversa, illudendosi che prima o poi le cose torneranno come prima. No, così facendo si permette soltanto ai pochi che hanno una posizione lavorativa, o un ruolo sociale, di continuare a mantenerli. Ma senza futuro. Ci sono ancora persone, per esempio, che hanno addirittura due o più posizioni retribuite. E continuano a mantenerle a testa alta perché trovano sempre chi è disposto ad aiutarli. Chi li aiuta, lo fa illudendosi di un proprio futuro, o di poter far qualcosa di utile per la società. Ma la strada non è quella. Non si aboliranno mai i privilegi, le baronie se li si alimenta, anche involontariamente. No. Se nessuno li aiutasse, i “baroni” prima o poi rimarrebbero da soli e, disperati, forse deciderebbero di dividere il proprio stipendio con chi li può aiutare o morirebbero di “solitudine”. Utopia? Forse, ma meglio che sottomettersi e dover trangugiare ogni veleno. In nome di cosa? Di un'illusione?

Ed allora perché si temono le utopie se si vive inebetiti da altre illusioni?


martedì 5 marzo 2013

Autotomia

Apro gli occhi, sentendomi chiamare per nome. “Dovete ancora operarmi?” esordisco d'impulso e quasi con sarcasmo. Ma nello stesso istante in cui sento la risposta “No, tutto finito”, avverto un dolore diverso da quello che ricordavo e allora capisco che sono le ferite. Indago se l'intervento è stato possibile senza “apertura dell'addome”. Sì, tutto regolare. Sorrido. Mi sento liberata e capisco che in confronto al dolore delle coliche che avevo, della loro sopportazione e dell'ansia dei mesi di attesa, il dolore delle ferite post-operatorio non è nulla. In meno di 48 ore sarò a casa. Chiedo subito di vedere chi mi è stato accanto. Parlo, ma a fatica. Posso muovere gli arti, la testa, ma non alzarmi. E' come se fossi tagliata in due, ma sono tranquilla perché so che la sensazione durerà poco. Ascolto la musica e dormo vegliando tutta la notte, continuamente interrotta dal lavoro delle infermiere. Sento un paziente che brontola dall'altra sala. Mi viene da ridere, ma non posso. Ho male all'addome.

E' l'unica notte che passo su quel letto. L'indomani sono già in piedi. Mi muovo, anche se ben lungi dal camminare. Incrocio una ragazza nell'altra stanza, terrorizzata dall'intervento che deve subire. Cerco di darle conforto morale. “Non sentirai nulla. Ti sveglierai e sarà tutto finito. Non pensare ora a possibili complicazioni. Poiché non devi prendere nessuna decisione non analizzare tutti gli scenari possibili. Devi solo lasciarti andare, con fiducia. E considera che non c'è cicatrice che non possa essere coperta in futuro da un bel tatuaggio. Oh, scusa, non ti piacciono?” - sono sempre la solita fortunata ad estrarre la frase meno opportuna. “Coraggio”. E poi torno a riposarmi. Mi stanco facilmente. La sera torno a casa. Non avrei mai trovato la forza di lasciare quel reparto se non mi avessero incoraggiato a dimettermi e se la degenza in ospedale non mi annoiasse così tanto.

Trascorro una settimana facendo enormi progressi, alzando progressivamente “l'asticella dell'autosufficienza e autonomia”. I media, le elezioni imminenti, il lavoro non pagato, la schiavitù dell'immagine. Nulla mi concerne, completamente assorta nei miei traguardi quotidiani. Il mondo là fuori può pure distruggersi. Non mi importa. Forse sono un'altra persona, vivo in una sorta di limbo. Dolorante, come un ferito dopo una battaglia, ma serena, per la vittoria. Mi sento come una lucertola dopo un'autotomia: ho perso la coda, ma proseguo incurante, sapendo che pian piano la coda si riformerà.

Mi sento di nuovo piena di forza e speranza, come quando sono tornata da Londra e speravo di riuscire a fare qualcosa di costruttivo nella mia città di origine, quando ambivo ad esser rivoluzionaria e non ribelle. Spero in un cambiamento. Spero nel “movimento”. Movimento, accusato di non avere un programma, di non aver competenze. Accusato da chi ha paura, da chi non vuole guardare avanti, da chi non vuole superare il blocco mentale di mangiare la pasta senza prima vedere la marca della confezione, da chi si nasconde dietro l'immagine neutrale di “un'Italia giusta” o da chi, convinto di seguire Blake ha votato pensando "active evil is better than passive good".

Non so cosa succederà. Non sono fanatica. Non ho miti. Diffido di ogni persona troppo popolare. Ma spero che ci si renda conto che così non si può più andare avanti e si pongano le basi per una società più umana, solidale e un'economia più sostenibile.


domenica 24 febbraio 2013

La sala verde

Il camice. Le calze. Il letto. La preparazione. I preliminari. E poi … NULLA. “Siamo stanchi. Non possiamo soddisfarla. Il paziente precedente ci ha tolto tutte le energie, tutte le voglie. D'altronde i pazienti non sono macchine. Hanno i loro tempi. I loro bisogni. Non possiamo sempre garantire prestazioni ad ore. Ci dispiace averla tenuta a digiuno così tante ore e aver accresciuto in lei il desiderio senza poterlo soddisfare. Ci rincresce.” La parola che ha fatto sboccare al vaso. Vomito il vuoto, il bisogno la cui soddisfazione dipende dagli altri. Il dolore più atroce di chi attende e non subisce nulla. Il senso di abbandono, di rifiuto. Il bisogno umano che con la crisi della produzione diventa irragionevole. Ammalarsi in questo periodo richiede lottare affinché il tuo bisogno non divenga così urgente da dover subordinare la tua esistenza alla disponibilità delle risorse sul mercato. La stessa lotta di un disoccupato, per sopravvivere.
NULLA. Falso allarme. Non è ancora la data giusta. “Venga dopodomani.” “Dopodomani non è più Carnevale. Niente scherzi allora!”

Il camice. Le calze. Lo stesso letto. La preparazione. I preliminari, stavolta senza iniezione pre-anestetica, ma con continue iniezioni di fiducia somministrate a turno dai medici. “Stavolta vedrà. Non facciamo cilecca. Rimarrà soddisfatta. Ci siamo. Arriviamo. La prendiamo. Gliela togliamo … quella cistifellea calcolatrice che le impedisce di vivere serenamente. Vedrà. Con quattro buchi sull'addome dovremmo farcela. Ci siamo. Si prepari. Anche se è indisposta, la operiamo lo stesso. Non ci poniamo questi problemi. Siamo abituati al sangue. Lei deve solo aspettare la carrozza.”
Dio, la smettono di eccitarmi, di sollecitarmi tenendomi sospesa, impedendomi di rilassarmi con le mie droghe musicali e di tranquillizzarmi con i miei auto-incoraggiamenti. “Ci siamo, ci siamo....” Ma un momento. Il paziente che mi precede non esce. “Mi sa che la rimandano di nuovo a casa illibata.” L'uccello del malaugurio o il passero della verità? No, non potrei sopportare un altro giorno in bianco. Non ce la faccio più. Non lascio questo maledetto letto e questa stanza finché non placano il mio dolore e il mio desiderio di liberarmene. Chiamino pure la polizia o il reparto psichiatrico. Basta!! Eppure no. Non mi hanno ancora indotto a varcare il confine tra pazzia e sanità mentale. Ho ancora il pieno autocontrollo. Mi calmo. Devo aver fede. Devo essere rilassata per l'intervento. Adesso verranno a prendermi. Ad un certo punto vedo la carrozza arrivare.

E' ora. La sedia mi impressiona e poi vorrei entrare in sala marciando. Ma non esito. Mi accomodo tranquillamente. Non ho paura di entrare nella sala verde. Si apre la porta. In effetti non c'è motivo di essere spaventata vedendo tutte queste facce accoglienti, sorridenti ed amichevoli. E non solo, esperti nel loro mestiere. Mi stringono la mano. Eppure l'idea è terribile. L'idea di affidarsi completamente a qualcuno, a tal punto da perdere i sensi, la propria coscienza. Offrire a qualcuno la possibilità di porre fine alla tua esistenza, in un secondo, con il tuo consenso, nel tuo letargo. O risvegliarsi e non ricordarsi nulla. Cosa è successo? Cosa mi han fatto? Cosa sono questi buchi? E' solo l'idea. L'idea è più pericolosa dell'intervento in sé. Nemmeno i preparativi giustificano il pensiero. E' il pensiero che fa soffrire, che ci addolora. E se trattasi di pensiero allora basta evadervi. Chiudere gli occhi. Non guardare. Sento le gambe tremare. “Tranquilla, te lo faccio passare.” Respiro ossigeno. Ecco ora inizia la partita. “Ora ti addormenti”. Calma e gesso. Vi cedo la palla e ve la metto sul tavolo. Giocateci, tiratela, centrate la buca e poi svegliatemi. Svegliatemi solo quando sarà di nuovo il mio turno di giocare.

domenica 10 febbraio 2013

Il complotto

Rigiro tra le mani la raccomandata: il conferimento di una borsa di studio. Per un attimo metto la proposta davanti a tutto. Dimentico di essere in lista di attesa per un intervento. Dimentico di sentirmi rifiutata dal mondo del lavoro “pagato”. Per un attimo mi vedo pendolare giornalmente per un totale di tre ore al giorno che comprende spostamenti urbani e regionali. Sempre di corsa, la sera arrivare esausta, ma con ancora lavoro da portare a termine per altri incarichi presi per altre persone. E il fine settimana a casa tra pulizie, ancora lavoro e spesa da fare. Talmente impegnata da non sentire il vuoto, da non pensare alle brutture sociali, da non aver tempo da dedicare a nessuno, se non al compagno o ai familiari, da dover interrompere tutte le attività di volontariato e ricreative. In fondo per sei mesi, la durata della borsa di studio, si può fare.
E compenserebbe il fatto che l'anno scorso, per mesi, non ho percepito uno stipendio e forse, per altri mesi dopo la borsa di studio, non percepirò.
Che soddisfazione, mi vogliono! Ma torniamo alla realtà. La proposta è fattibile con la mia attuale condizione di salute? Avrei una decina di giorni prima di iniziare. Già, ma in questi giorni potrebbero chiamarmi per l'intervento. E poi dovrei iniziare a tempo pieno. Contatto il responsabile del progetto. Mi viene incontro, posso posticipare l'inizio di due settimane o un mese. In effetti però non posso garantire di iniziare in completa guarigione, visto che continuano a tardare a chiamarmi dall'ospedale. E poi il carico di lavoro non è ben definito e rischia di essere insostenibile alla luce degli spostamenti giornalieri necessari e delle altre collaborazioni in essere.
Ne parlo con i miei attuali collaboratori. Apparentemente, si indispongono, anche se con loro non ho nessun impegno contrattuale.

Ed inizia il complotto. Un complotto per indurmi a rinunciare a quella proposta e a ritornare nel mio stato di incertezza e precarietà lavorativa, lasciandomi ancora in balia di una data che al momento non mi era ancora stata comunicata. Un complotto, ma si tratta davvero di un complotto o di una mia visione romanzata della situazione?
Proprio quando sto per accettare la borsa di studio, nonostante le mille difficoltà a cui però prevedo di far fronte, mi chiama per un colloquio una persona importante: un direttore di un'unità di ricerca molto importante della mia città, a cui un anno fa avevo mandato il curriculum vitae. Troppo bello per essere vero: una proposta di lavoro triennale come ricercatore. Cosa c'è, o chi c'è, dietro? Scopro che il direttore conosce e ha parlato con le persone con cui collaboro. Infatti lui sa bene che se mi assumesse dovrebbe essere flessibile ed accettare che continui i miei lavori con loro, a titolo gratuito. Penso ormai di avere il posto assicurato e di dover ringraziare infinitamente chi si è tanto interessato a me. Ma davvero si tratta di interesse sincero nei miei confronti oppure il mio collaboratore sta cercando un compromesso per potersi permettere ciò che grazie ai tagli pubblici alla Sanità è costretto a rinunciare? Fin qui in effetti, non pare esserci nulla di male, se non l'impressione di assomigliare ad una mercenaria, o una schiava da poter “affrancare”.
Però perché questa possibilità si prospetta solo adesso che ho un'altra proposta scritta e non prima di svolgere mesi di “volontariato”? In effetti se vado via, li metto in difficoltà.
E perché adesso quei piccoli fondi, su cui avrei potuto contare prima di ricevere l'altra proposta scritta, appaiono evanescenti?
Cosa faccio? Rinuncio ad una proposta scritta anche se ha degli svantaggi, per una possibilità di lavoro stabile come ricercatore? Alla scadenza del termine per decidere, non mi viene ancora comunicata la data di intervento. Quindi non so quando potrò iniziare a lavorare seriamente. Pertanto, per rispetto nei confronti del responsabile del progetto, rinuncio alla proposta per motivi di salute. E adesso, chissà come mai, il direttore dell'altro centro di ricerca ha cambiato idea e decide di finire cortesemente la commedia invitandomi a valutare altre opportunità e a ripresentarmi tra qualche mese, avendo al momento altri progetti.
E così rimango senza nessuna proposta scritta, con i miei dolori che nessuno lenisce comunicandomi una data che ridurrebbe l'ansia di attesa e la preoccupazione che ci sia un altro “errore” che fermi la pratica in segreteria. E nessuno può aiutarmi, apparentemente. E quindi non so con chi posso lamentarmi, chi posso insultare. La segretaria? Magari è maleducata solo perché a sua volta è trattata male sul luogo di lavoro. I chirurghi? In fondo la loro mansione è chirurgica, ma non amministrativa. Il primario? In fondo anche se lui ha il potere, non ne ha pienamente il controllo. L'ospedale? Dipende dai finanziamenti dello Stato. Lo Stato? Facciamo parte dell'Unione Europea, in fondo. L'Unione Europea? L'intero sistema?
Ed il sistema è un'entità da cui ognuno pare sfuggirne al controllo. Ed allora se non si può far nulla contro il sistema che si fa? O si sopporta ogni cosa o si diventa aggressivi con la prima persona con cui è facile lamentarsi ed esigere, quella che gestisce direttamente la relazione con il paziente, i clienti, gli studenti, i figli … a seconda dei casi. Già, e questo non fa che incrementare l'inimicizia verso le persone che sono al nostro stesso livello, con le quali invece bisognerebbe collaborare per giungere al confronto con le persone che stanno più “in alto”.

Ma davvero non posso far nulla? E se facessi una pausa? In fondo ne ho tutte le ragioni. Sto male. Ma chi mi conosce, potrebbe interpretare la mia pausa come una forma di protesta, visto che solitamente non rinuncio a lavorare neanche quando la salute non lo permette. Se facessi una pausa proprio adesso metterei in difficoltà i miei collaboratori, impedendo loro di portare a termine alcuni lavori in scadenza. Una pausa, fino alla data di intervento. In tal modo, visto che devo essere operata nello stesso ospedale dove lavorano i miei collaboratori e loro conoscono i chirurghi, potrebbero avere l'interesse a far sollecitare la mia pratica. Però facendo una pausa potrei indispettirli ulteriormente e di conseguenza rimetterci, anche per future collaborazioni. Ma in effetti, ora come ora, la mia salute viene prima, anche se la mia salute dipende anche dagli stessi chirurghi.
Faccio una pausa. I lavori vengono rinviati. E, ricevo una telefonata dalla segreteria: mi comunicano finalmente la data.


domenica 27 gennaio 2013

L'unica certezza

Perché si teme la morte quando è l'unica certezza che abbiamo in questa vita? Non è forse l'incertezza che dovremmo temere? L'incertezza di ciò che ci separa dall'unica meta che condividiamo con qualsiasi essere vivente sulla Terra. La morte. La morte allora dovrebbe indurci ad essere solidali. Ma spesso per ipocrisia, e forse anche per superstizione, si è solidali dopo la morte con onoranze, ricordi … E invece si dovrebbe essere solidali durante la vita e rispettarla. Rispettare l'ambiente perché prima o poi morirà. Avere rispetto per la nostra stessa esistenza, per la nostra intelligenza, per la nostra forza, bellezza perché prima o poi svaniranno. Cercare di migliorare la nostra vita e quella degli altri. A chi importa se offriamo un funerale di lusso se abbiamo sempre contribuito ad una vita di miseria?

Quante volte in mezzo ad un ponte ho pensato: e se mi buttassi giù? Raggiungerei subito la meta a cui sono destinata. Sarebbe la soluzione più semplice, più veloce. Ma scherzando ho sempre pensato: “Fatico sempre per ottenere qualsiasi cosa. Non è mai piovuto nulla dal cielo e scommetto che se volessi morire, persino la morte dovrei conquistare a fatica”. E la paura di finire in ospedale e di soffrire ancora di più mi ha sempre tenuto coi piedi sul ponte. “Se devo lottare per la morte, tanto vale lottare per la vita”. “E poi l'alternativa alla morte è la dipendenza dagli altri. Quindi se la morte non mi volesse, finirei direttamente tra le mani di coloro da cui vorrei scappare. Non è un controsenso?” Tra la morte o la dipendenza scelgo me. Però è molto facile adagiarsi, impigrirsi a tal punto da non curarsi più della scelta. E' facile cadere in questo stato quando ci si sente rifiutati dal mondo. Un po' come dire: “Non apprezzi la mia vita, le mie capacità? Bene allora fammi morire o curami. Eppure se mi avessi accettato, ora non sarei un peso per te”.

E intanto aspetto. Aspetto che mi chiamino. Sembra quasi che mi abbiano fatto uno scherzo. Mi dicono che devono operarmi e non mi chiamano. Prima mi fanno illudere di potermela sbrigare in day hospital. Poi la prospettiva del reparto. Eppure sono ancora a casa, coi miei dolori, sapendo di essere malata. Perché prima di sapere di dover essere operata andavo in bicicletta, camminavo per ore, correvo pur avvertendo dolore addominale. Ora invece che so di essere malata, mi sento nauseata persino all'idea di uscire. E se mi viene la colica? Poi mi sprono “Come on”. Ed esco, faccio le scale, a dispetto di quel maledetto calcolo che mi punge ogni volta che mi muovo, ma che ignoro. E non sento il dolore che sarebbe altrimenti insopportabile se stessi ferma in casa. E' incredibile come un'etichetta ti condizioni la vita. Paziente, degente, malato. Stereotipi che stereotipizzano la tua vita. Ma quale paziente, io la pazienza non ce l'ho mai avuta. Mica sto ferma ad aspettare che mi chiamino. Quando mi chiameranno, andrò, ma adesso ho da fare, devo vivere. Degente? Ma no. Avrò soltanto bisogno di assistenza per qualche giorno. Malato? E cosa vuol dire. Definitemi malata e sarò incurabile. Chiamate delinquente un ragazzino monello e vedete che tra qualche anno finirà in prigione.

Mi avevano tolto l'etichetta “disoccupato” e adesso invece mi appiccicano quella di “paziente”. E se assorbo l'etichetta, vivo alla mercé altrui. Prima in attesa di un'occupazione e poi in attesa di un'operazione. E allora il solo modo per cambiare e non subire il cambiamento è togliere ogni etichetta da sé, dagli altri e anche dall'ambiente.
Voglio togliere anche l'etichetta “crisi”, che vuol soltanto dire che ci sono dei grossi deficit finanziari un po' dappertutto, che l'unica preoccupazione che si ha è che non si abbiano abbastanza soldi da spendere, ma non che non ci siano abbastanza possibilità per ricominciare a vivere e non che si senta la necessità di ridimensionare le spese sulla base dell'effettiva utilità personale piuttosto che sulla base delle proprie disponibilità economiche.
Il capitalismo consumista ci confonde, ci impedisce di valutare correttamente i nostri bisogni e l'utilità individuale che da esso ne ricaviamo. Di conseguenza condiziona il nostro stile di vita, le nostre spese e il nostro lavoro. Già. Speravo che almeno la crisi potesse distruggere il consumismo. Ed invece no. Chi può spendere, continua a farlo. Alcune aziende continuano ad assumere, indipendentemente dall'utilità che ne traggono dal singolo lavoratore, soltanto per salvaguardare la propria immagine o perché comunque hanno un certo budget di spese. Di conseguenza offrono contratti che quasi offendono il lavoratore, che entra in azienda già demotivato e preoccupato a dover cercare un altro lavoro nei prossimi mesi quando sarà di nuovo a casa. E oltretutto, non percepisce neanche il suo lavoro come utile alla società. Invece chi non può spendere rinuncia e basta. Non assume, taglia, costretto a rinunciare ad attività vitali. E chi può spendere, invece, non si preoccupa di essere sobrio, con la conseguenza che si continua a sprecare, anche se con meno ostentazione, per nascondersi dietro l'etichetta crisi.

E allora basta. Togliamo l'etichetta “crisi”, ma poiché è pretenzioso nonché frustrante ambire a togliere le etichette agli altri e all'esterno, cominciamo a toglierla da noi stessi. La crescita del reddito, dei consumi ci ha fatto credere in un progresso, in un miglioramento della nostra qualità di vita. Ed invece no. Presupposto per migliorare la nostra vita e puntare verso il progresso umano, inteso come valorizzazione dell'individuo e delle sue capacità all'interno della società è proprio quello di rinunciare all'etichetta, di guardarci per ciò che siamo e per ciò che possiamo offrire.
Pensate che grazie alle etichette un ricercatore, o persino un laureato, fatica a ricollocarsi sul mercato per posizioni meno qualificate. Si manda un curriculum. Chi seleziona i lavoratori cerca una “figura” e non una persona. Spesso non guarda alle capacità del candidato, a cosa possa offrire in azienda, ma lo etichetta. Se l'etichetta non coincide con quella imposta dalla direttiva aziendale allora “avanti il prossimo”. E si continua ad essere scartati e degradati; allora si tenta di costruire un'etichetta e se si è fortunati si finisce a lavorare nel posto sbagliato, infelici e occupati, senza nemmeno potersi permettere l'idea di poter cambiare mestiere.
E poi giudichiamo. Giudichiamo i criminali, i ladri, gli spacciatori, le prostitute. “Han solo da cambiar mestiere”. Già, facile. Non riusciamo a cambiare il nostro, pur essendo qualificati e seri professionisti, figuriamoci cosa può fare una puttana nell'attuale sistema. Non potrà che continuare a far la puttana, come è sempre stato nei secoli dei secoli. In una vita sola, non c'è mica tempo per cambiare dal momento che fin dalla nascita ti dicono: “Il tempo è denaro” e non “Il tempo è vitale”. E allora ci etichettiamo, perché non abbiamo neanche il tempo per pensare e poi perché il pensiero è pericoloso, in quanto sconvolge la nostra stessa esistenza.

E allora togliamo anche le etichette “Vita” e “Morte”. In effetti non possiamo sapere cosa sia la morte, dal momento che mai nessuno è tornato indietro a descrivercela. Sappiamo solo che è la nostra meta certa nell'incertezza della vita.

E mentre ribollono idee nella mia testa, che ho cercato di catturare anche se non troppo sistematicamente, perchè accompagnate da dolori vari e nausea, arriva inaspettatamente una lettera. Un altro scherzo?