Ho sempre cercato il significato della mia vita nel riconoscimento e nella soddisfazione dell’Altro oppure attraverso il raggiungimento di obiettivi e ideali. Ma fino ad allora, non avevo mai dato valore alla mia vita perche’ non avevo avuto un ruolo sociale, ossia una responsabilita’ verso le altre persone. Infatti avevo vissuto pensando che ogni mia azione e ogni mio sbaglio intaccassero soltanto la mia vita . Ora invece la mia vita valeva quella della mia famiglia e se fosse venuta meno, la mia famiglia avrebbe subito un grave danno, aldila’ del dispiacere.
Pertanto andava salvaguardata. Non potevo piu’ permettermi di “scherzare con la morte” ne’ di andare in cerca di guai, come accaduto in passato.
Cominciavo anche a rendermi conto di quanto pericolosa e umiliante stesse diventando una relazione che si trascinava ormai da alcuni anni.
Era iniziata nella mia fase “margherita”, in cui mi rendevo facilmente disponibile all’Altro, pur correndo il rischio di venire calpestata. Inizio’ quasi per gioco e non immaginavo che sarebbe durata anni. Era una persona che il luogo comune definiva “poco di buono”: “sbandato”, sregolato, senza orari ne’ limiti di eccesso o velocita’.
Ma in fondo era un bravo ragazzo con elevato potenziale mal sfruttato. Se si comportava cosi’ era anche dovuto all’influenza dell’ambiente familiare dove aveva vissuto. Con i suoi genitori non aveva un dialogo costruttivo. Non gli negavano mai nulla, ma erano irascibili e con scarsa capacita’ di autocontrollo. Tendevano a parlare “con le mani” piuttosto che con le parole. Gli concedevano troppa liberta' e forse anche troppo denaro che egli sperperava con noncuranza.
Sapevo che ero importante per lui. Mi diceva che ero l'unico valore della sua vita. Ma non riusciva ad evitare di mancarmi di rispetto: mi tradiva, mi dava appuntamento e poi “si perdeva”, non si sa dove. Ma in realta' non mi sentivo imbrogliata perche' non era a me che doveva giustificare la sua condotta, ma soltanto a se' stesso. In fondo' lui non voleva, ma era incapace di negarsi agli amici che lo trascinavano nel vortice della perdizione. Capivo che avrebbe voluto andare a casa a dormire, dopo che mi accompagnava, ma peccava di volonta'. Era lui ad essere debole. Era lui, non io, che si danneggiava quando “si perdeva”. All'inizio ci stavo male. Ma poi imparai ad accettarlo perche' capivo che aveva bisogno di me e che alla sua maniera mi amava. In fondo, avevo in mano la situazione perche' potevo decidere cosa e fino a quale limite potevo tollerare il suo comportamento. Lui ammirava la mia fermezza. Nonostante la sua ignoranza, capiva il mio perfezionismo negli studi. E non questionava quando mi facevo negare perche' dovevo studiare. Forse era l'unico, tranne i miei genitori, che aveva accettato la mia transizione da “margherita” a “stella alpina”.
Ma ora che mio padre non c'era piu', cominciavo a rendermi conto che la relazione era solo apparentemente duratura. In fondo eravamo due anime solitarie che si accettavano reciprocamente e che si incontravano quando entrambe erano libere dalla propria schiavitu': io dalla mia volonta', lui dalla sua labilita'.
Eravamo due persone smodate. Quando ci siamo incontrati, anche io tendevo ad eccedere nella sua stessa direzione, ma poi ho invertito la rotta. E adesso sentivo che mi ero allontanata troppo e non accettavo piu' la sua lascivia. Non mi attirava piu' la sua sregolatezza, anzi cominciava a farmi paura perche' diventava sempre piu' pericolosa. C'erano momenti in cui diventava violento ed era impossibile parlargli. E purtroppo questi episodi stavano diventando sempre piu' frequenti. La mia vita era in pericolo e di conseguenza anche quella della mia famiglia.
Decisi che era giunto il limite della sopportazione. Il rapporto si stava rivelando distruttivo. Ed io ero stanca di distruzioni. La mia vita era gia' abbastanza devastata. Non mi illudevo di poter incontrare una persona con cui avere un rapporto di condivisione e non di sopportazione. Ma almeno restando da sola avrei ritrovato la tranquillita'. Avrei dormito serena senza sentirmi complice del suo vizio.
Mi resi conto che volerlo aiutare era stata un'illusione. Lui non cercava aiuto, ma dipendenza: voleva delegarmi la responsabilita' della sua vita.
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