lunedì 19 novembre 2012

Pensieri, riflessioni, letture e poi?


Ogni tanto è bene soffermarsi sui motivi che mi inducono a continuare a scrivere su questo blog. Lo scopo iniziale era quello di liberarmi del passato, di ciò che mi tormentava, di istantanee che ogni tanto apparivano come flash nella mia mente. Una volta aver raccontato tutto ciò che mi opprimeva, devo dire che mi sono sentita liberata, svuotata da qualcosa che non volevo possedere, da qualcosa che avrei voluto raccontare agli amici, ma che non ho mai avuto occasione di fare. Io credo molto nel potere della narrazione, anche a scopo terapeutico. E sono soddisfatta per aver promosso la narrazione nel processo di cura anche in un articolo scientifico che verrà pubblicato in una rivista americana.

Ma allora perchè non tento di divulgare il mio pensiero con altri mezzi e altri fini anzichè continuare a scrivere a tempo perso in questo sito? Il motivo perchè continuo a scrivere qua è perchè voglio scrivere ciò che mi pare, senza censure o aggiustamenti dettati dal mercato. Inoltre voglio condividere i miei pensieri e riflettere non solo su cosa mi sta succedendo, ma anche sulla situazione del paese.

A volte però mi rendo conto di quanto sia pericoloso continuare a scrivere la mia autobiografia. Infatti non vuol solo dire fermarsi a riflettere, ma anche fermarsi a formalizzare, staccandosi dalla propria vita stessa. Vuol dire cercare di dare un senso a ciò che mi sta capitando in questo momento. Dare senso al passato è molto più facile, grazie all’esperienza. Ma dare senso al momento è un po’ come trovare il senso alla singola goccia del mare, aldilà del senso che la singola goccia ha come costituente dell’essenza del mare stesso. Eppure mi giova scrivere, anche se spesso mi turba. Il narratore è infatti il protagonista di una storia che sta scrivendo senza sapere come andrà a finire. Potrebbe anche lasciarla inconclusa o terminarla con un finale diverso da quello che avrebbe voluto scrivere. Il protagonista si sente in balia del suo vivere e dunque il narratore del suo scrivere.

E poi la situazione del Paese è preoccupante: ma uscirà da questa crisi? Crisi che riguarda principalmente famiglie o piccole aziende che si impoveriscono o falliscono per debiti, mentre a livello elevato più che di crisi pare trattarsi di adeguamento alla tendenza che impone il non avere più fondi nemmeno per investire nelle attività che potrebbero arrecare vantaggio in futuro.

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Sto leggendo Erich Fromm “Avere o Essere?” Sembra essere cambiato ben poco nella società dall’epoca in cui è stato scritto: la seconda metà degli anni settanta. Rifletto sul fatto che la società ora è povera e instabile perchè è caduto il principio su cui ha basato la sua stessa esistenza: la possibilità di arricchirsi, accumulare e consumare. Il rapporto dell’individuo con il mondo è stato caratterizzato dal possesso e dalla proprietà, tale per cui si aspira a impadronirsi di ciascuno e di ogni cosa, l’individuo compreso.

Finchè ciascuno aspira ad avere di più, non potranno che formarsi classi, non potranno che esserci scontri di classe e, in termini globali, guerre internazionali. Avidità e pace si escludono a vicenda.


L’avidità, al pari della sottomissione, rimbecillisce gli individui, rendendoli incapaci persino di perseguire i loro veri interessi come per esempio la preservazione delle loro stesse esistenze” (Piaget – The moral Judgement of the Child).  

L’egoismo generato dal sistema induce i leader ad apprezzare più il successo personale che non la responsabilità sociale. Ormai non ci meravigliamo più di vedere uomini politici e dirigenti economici formulare decisioni che a prima vista sono a loro esclusivo vantaggio, ma che risultano insieme dannose e pericolose per la comunità.”

Il nostro attuale ordinamento fa di noi altrettanto malati

ci stiamo dirigendo verso una catastrofe economica a meno di non operare una drastica trasformazione del nostro sistema sociale”.

Eppure, in una società fondata sulla proprietà privata, sul potere e sul profitto, acquisire e possedere sono diritti inalienabili. Da ogni piccolo gesto si capisce quanto l’attuale sistema sia basato sull’egoismo e non sulla condivisione, sul possesso delle cose anzichè sull’esperienza umana.
I genitori dicono ai figli “prendi voti alti” non “impara”. Studenti che trascrivono ogni singola parola del docente, in modo da studiare a memoria le annotazioni e superare la prova di esame. Studenti che rimangono estranei a ciò che viene loro insegnato perchè divenuti proprietari di affermazioni fatte da qualcun altro. Studenti che si sentono turbati da nuovi pensieri e idee su un argomento perchè il nuovo mette in discussione le informazioni che già possiedono. Individui che hanno paura a mutare la propria opinione o la propria abitudine, perchè percepita come possesso e quindi la loro perdita equivarrebbe a un impoverimento. Il sistema didattico che mira ad educare ad avere conoscenza come possesso, dietro al quale ripararsi e identificarsi. Matrimoni che in certi casi, seppur inizialmente basati sull’amore, si trasformano in una società fondata sui beni comuni della coppia: denaro, rango sociale, una casa, dei figli. E, infine, l’atteggiamento di possedere il proprio corpo anzichè essere il proprio corpo, così quando si sta male lo si affida completamente nelle mani di chi può ripararlo.

Che giova aver guadagnato il mondo intero se poi si perde o si rovina sè stessi?” (Luca, IX, 24-25)

La sopravvivenza fisica della specie umana dipende dalla radicale trasformazione del cuore umano. Una trasformazione del cuore umano è possibile a patto che si verifichino mutamenti economici di drastica entità, tali da offrire al cuore umano l’occasione per mutare e il coraggio e l’ampiezza di prospettive necessari per farlo.”

Cambiamento, coraggio. Come si può pensare di risolvere il problema con la sola imposizione di tasse?

domenica 11 novembre 2012

Presenza o differenza ?


Ogni volta che mi sveglio, provo la sensazione di essere appena nata. Ma dura soltanto un istante. Un unico istante in cui non comprendo ciò che è successo fino al giorno precedente. Cosa ho fatto? Cosa devo fare? Poi realizzo. Se la giornata precedente sarebbe degna di essere rimossa, la giornata odierna inizia amaramente, con l’unica consolazione che sia già trascorsa e oggi si ricomincia. Il guaio è dover ricominciare da ieri, non da oggi. Iniziare un’attività, nuova rispetto a ieri, festeggiare il successo o rimediare il danno di ieri.
A volte mi chiedo quanto peso diano gli Altri ad ogni mio sbaglio. Se ricordano ogni mia figuraccia, se ridono ancora di un mio comportamento inadeguato per il quale adesso provo vergogna e che vorrei non aver mai tenuto.

Già, ma dietro ogni mio sbaglio e ogni mio comportamento inadeguato si nasconde un disagio. Un disagio di cui il giorno dopo mi vergogno, ma che nell’istante in cui lo provo mi avvolge, mi fa star male, mi trascina con sè. E mi attrae, perchè solo lasciandomene sedurre posso poi capirlo e attribuirgli un significato.
Ma perchè non vince subito il pensiero della vergogna del giorno dopo piuttosto che il desiderio di fuga imminente dalla realtà e di abbandono al disagio?
Ma perchè, in un ambiente in cui mi sento a disagio, non riesco a far presenza, ma mi ostino a voler essere differenza?


Collaboro, come lavoratrice autonoma, con un medico privato che un giorno, mentre discutiamo del progetto di ricerca che ho avviato, si ricorda di una cena per l’anniversario della sua attività. Prende l’invito dalla scrivania e me lo porge. Lo accetto molto volentieri. Lavoro sempre da casa, conosco solo la sua segretaria e, di vista, poche persone dell’ufficio amministrativo. Pertanto vedo l’evento come un’occasione per potermi integrare meglio in un ambiente dove non ho una posizione ben definita.
Mi reco sul luogo del ritrovo. E’ un posto di lusso, più di un centinaio sono gli invitati. L’aperitivo. Comincio a mangiare e bere, credendo che la cena consista nel buffet. E invece mi sbaglio. La cena inizia alle dieci. Dimenticavo, che qualcuno potesse essere indifferente alla crisi economica, al di fuori dell’ufficio assunzioni o ricerca e sviluppo.
Ad un certo punto mi immagino Fantozzi, un misero ragioniere, al tavolo dei dirigenti. “Lei conosce le regole, vero?”. Ed io, con la mia misera collaborazione, al tavolo dei dirigenti temo di far la stessa figura fantozziana. Eppure se sono lì, dovrei sentirmi all’altezza. Al contrario di Fantozzi, ho il titolo di studio uguale o più elevato dei dirigenti ed anche il medico che mi ha invitato lo riconosce e gliene sono grata. Apprezzo che lui consideri che il cervello vale, anche se preferirei lo facesse garantendomi una posizione più stabile e aiutandomi a cibarlo con alimenti che non posso trovare in una cena di lusso.
Ma perchè, perchè non posso essere felice di essere stata invitata e sedermi lì tranquilla? Tranquilla, in un ambiente formale? Perchè sto male al pensiero che in piena crisi e scarsità di risorse ambientali qualcuno possa permettersi cene aziendali luculliane?
Eppure se mi impegno sono in grado di sostenere conversazioni superficiali. Basta sorridere, comprendere, essere gentile e stare zitta, custodendo nell’intimità le mie idee, per poi sfogarle nell’alcova di casa.
Ma non riesco, quando sto male. Mi pesa troppo il mio malessere. Vorrei parlare della mia sofferenza del giorno precedente quando ho visto una bambina disabile in pena per la paura di un semplice intervento odontoiatrico. Ed i suoi genitori soffrivano ancora di più. Soffrivano, da un lato per la società, imbarazzata dalla disabilità della figlia, e transitivamente della loro, dall’altro lato si sentivano imbarazzati dalla società stessa che li isolava. Avrei voluto discutere a quel tavolo del mio malessere, della mia impotenza nei confronti delle pene del mondo.
Discutere, liberandomi della nausea che provo per le ingiustizie, liberandomi della mia vergogna di essere vestita in maniera poco consona ai loro canoni. Liberarmi della mia vergogna di essere, del mio disagio, della mia incapacità di comprendere l’ostentazione. Liberarmi dalla vergogna di essere attratta da ciò che il tavolo forse definisce “feccia”. di essere contenta di aver visto il giorno stesso una mostra di arte contemporanea, di esser sollevata per aver visto il mio stesso disagio riprodotto in alcune opere.
Ad un certo punto realizzo che l’unico modo per liberarmi della mia vergogna interiore è fuggire. Lascio la sala alla chetichella, anche se successivamente subentra la vergogna per la mia inettitudine, per la mia maleducazione, per aver violato il galateo sociale, per non essere stata in grado di partecipare al convivio. Mando un messaggio per scusarmi: non sto bene e sono uscita senza disturbare, per non rovinare la festa. Mi ha fatto piacere il vostro invito.

In effetti non ho detto una bugia. Non sto bene. La mia cistifellea non mi consente di abbuffarmi. Ed allora perchè non ho rifiutato subito l’invito? Perchè non volevo tirarmi indietro. Perchè ero curiosa di partecipare e non volevo che la mia salute mi condizionasse. Devo operarmi. Da quando ho saputo dell’intervento, per quanto l’abbia accettato con stoicismo, ho cominciato a sentirmi in credito con la società. Ho cominciato a chiedere, anzichè dare. Ho ripreso ad esigere dagli altri, anzichè sforzarmi di comprendere le loro esigenze. Mi sono comportata in maniera sgarbata e aggressiva, rimproverando agli Altri ritardi e disattenzioni. Mi sono comportata male, ma in realtà reclamo solo un po’ di fiducia nei loro confronti.
E adesso reclamo anche un po’ di comprensione, un po’ di appoggio per il mio comportamento. Per non essere stata in grado di mascherare la mia insofferenza. Spero che ciò non mi escluda lentamente dall’ambiente, che al momento si rivela l’unica possibilità di finanziamento. Ma so che ciò non accadrà. In fondo hanno bisogno di me, del mio talento, anche se il mio ruolo all’interno dell’istituto è marginale. E forse per questo non si ricorderanno nemmeno della mia comparsa e scomparsa, anche se a me resta la vergogna e il rimprovero per il mio stupido atteggiamento. Tutto per un semplice intervento.
Un semplice intervento, semplice per i medici, come per me lo sono le statistiche base che turbano invece i medici. Per loro i miei calcoli sono routine, per me invece lo sono i loro.
Un semplice intervento che razionalmente non mi spaventa, ma che mi sconvolge interiormente per l’idea che persone, come quelle sedute al tavolo, siano in grado di tagliare e asportare una parte del tuo corpo, anche se questa parte è causa del tuo male. Una parte che mi toglieranno mentre io sarò completamente incosciente e al mio risveglio troverò solo dei buchi.
Sicuramente è una bazzeccola in confronto ad altri interventi o altre privazioni. Ma la sensazione è la medesima di andare in banca a prelevare soldi dal conto corrente. Sia che prelevo 100 o 1000 euro, mi ritrovo sempre con meno soldi. 

domenica 4 novembre 2012

I have a need ...


Finchè c’è vita c’è ... bisogno. Eppure capire e soddisfare i propri bisogni non è così semplice.
Sembra banale rispondere alla domanda: “Di cosa hai veramente bisogno?” Ma la risposta non è immediata. Ho bisogno di tante cose, ma se dovessi sceglierne una, quale sceglierei? E sarà vero che ho bisogno di tante cose oppure queste tante cose in realtà fanno parte di un’unica categoria?
Categorie, classificazioni, teorizzazioni: bisogni primari, secondari, collettivi, individuali. Già! Ma nulla mi aiuta a capire veramente cosa mi serve adesso.

Mi sento insofferente e stanca. Stanca dell’ambiente che mi circonda e del suo modo di non ragionare. Stanca di lavorare pensando che qualora non riuscissi a trovare risultati interessanti per il mio studio e a pubblicarli, il medico finanziatore potrebbe non pagarmi per i prossimi mesi. Stanca di non avere un ruolo ben definito, ma di dovermelo sempre costruire a fatica. Stanca di non essere nel posto giusto, al momento giusto. Stanca di seguire conoscenze e passaparola per poter sperare di trovare un lavoro ordinario. Stanca di ... In effetti sono proprio stanca. Un viaggio mi farebbe proprio bene.

Un viaggio? Ma è questo di cui ho veramente bisogno? No, un viaggio adesso non gioverebbe molto. Un viaggio dà maggiori benefici ad un apparecchio in funzione, attaccato ad una postazione fissa, che lo si stacca per evitare il surriscaldamento. Ma al momento assomiglio ad un apparecchio che, staccato dall’adattore, sta lavorando con la propria batteria interna e che cerca una posizione dove attaccarsi prima che finisca la propria autonomia. Il viaggio non farebbe che ridurre la mia autonomia. E inoltre, distratta dal pensiero dell’adattatore, finirei per non apprezzare i benefici del viaggio. Un viaggio sarebbe anche utile se dovessi prendere una decisione.

A volte si sente l’esigenza di guardare all’esterno per trovare una risposta interna. Ma al momento le mie decisioni le ho già prese e per sostenerle sento l’esigenza di guardare all’interno per trovare una risposta esterna.

Ma allora non mi gioverebbe trasferirmi di nuovo? Un altro paese, un altro luogo dove vagare per attaccarmi ad una presa. Un altro luogo dove poter trovare una risposta esterna. Forse mi gioverebbe. Ma se sono tornata a casa, un motivo c’è. Ho bisogno della mia casa, di potermi esprimere usando la mia lingua, di frequentare i miei amici, di poter garantire la mia disponibilità alle mie sorelle in caso di necessità. Però mi sento stanca ... stanca nella mia casa, nella mia situazione, stanca per organizzare visite, uscite ... Cosa mi succede? Di cosa ho veramente bisogno? Mi gira la testa. Sarà la confusione mentale. Mi calmo, va meglio. Riesco a gestirmi. Ma c’è una spada che mi trafigge l’addome. Cos’è? Ho bisogno di una diagnosi. Ho bisogno di cure.

E così a volte si crede di aver bisogno dell’ospedale, quando si necessita di un viaggio, altre volte si crede di aver bisogno di un viaggio e invece si necessita dell’ospedale.