martedì 30 agosto 2011

L'armistizio

Ero confusa, ma dovetti agire. Erano le cinque di notte. Avvertii le infermiere dell’accaduto. Poi sbaraccai tutto: vestiti, effetti personali miei e di mia madre e portai via, in modo da non dover piu’ tornare in quella stanza.
Dopo piu’ di due ore, tornai a casa di mia sorella, affrontando il momento piu’ critico: riferirle la notizia. Per fortuna, la trovai tranquilla. Subito penso’ fossi passata soltanto a prendere qualcosa per la mamma. “Come sta?”. Non ci credette. La lasciai sfogarsi. “Cosa devo fare? Devo tornare li’? Devo vedere mentre la portano via?”.
Le risposi che non doveva fare nulla e che non era neanche tenuta a venire alla cerimonia. Infatti poi non venne. Ando’ a farsi una passeggiata, vagando senza meta. La lasciai andare: sapevo che non si sarebbe persa e che la responsabilita’ per l’assistenza all’altra mia sorella la legava alla casa e l’avrebbe motivata ad andare avanti.
Passai la giornata al telefono, annunciando la brutta notizia. In particolare, avvisai le sorelle di mia madre, che non sentivo ne’ vedevo piu’ da anni. Infatti, dopo il litigio con lo zio e dopo essermene andata di casa, avevo vissuto dimenticandomi dell’esistenza dei parenti. Mia madre lo accettava e, per non rendere piu’ difficile la situazione, non richiese la visita delle sorelle quando fu ricoverata in ospedale ancora cosciente. So che avrei dovuto avvertirle prima, ma, conoscendole, temevo le loro reazioni esasperate d’ansia e angoscia, che non avrebbero giovato a mia sorella e che non avrei potuto controllare, data la mia lontananza. D’altro canto, mia sorella era assolutamente contraria a contattarle e coinvolgerle. Aveva bisogno di persone discrete che dimostrassero razionalita', autocontrollo e fermezza, non che contaminassero ulteriormente l’ambiente con pianti e urla isteriche o con lamentele ingiustificate contro i medici. Mi rendevo conto che il loro comportamento non era doloso, ma causato soltanto dalla loro incapacita’ di gestire le emozioni, non rendendosi conto delle possibili influenze negative verso l’ambiente esterno. In fondo, non le potevo giudicare. Anche io in passato avevo dimostrato tale incapacita’.
Perche’ non ci avete avvisato prima, quando la mamma era grave?”. “Zia, credimi, e’ stato meglio cosi’ per tutti”. E le spiegai la situazione. Capi’.
Alla cerimonia, nonostante i passati conflitti e attriti, ci trovammo di nuovo riuniti. Tutti condividevamo lo stesso sentimento, tutti le eravamo affezionati. Forse era stata la mancanza di dialogo ad averci allontanato, accompagnata dalla mia ostilita’ nel difendere il mio territorio e la mia posizione di capofamiglia. Ma ora nessun rancore aveva piu’ senso di esistere e ogni sentimento negativo nei confronto dei miei parenti si annientava. Non avevo piu’ nulla da temere e da difendere. Del mio territorio non restava null’altro che la mia proprieta’.

domenica 28 agosto 2011

L'ultimo dono

Dopo circa due mesi in casa, immobilizzata a letto, fu trasferita in ospedale, per le cure palliative. Mia sorella passava le giornate al suo fianco, soprattutto per aiutarla durante i pasti. “Mamma come stai?”. “Bene”, rispondeva sempre, nonostante tutto. E sorrideva, serena. Non si lamentava mai. Non aveva una ruga nel volto. Aveva sempre sorriso. Non aveva studiato, ma pur con la licenza elementare, era piu' saggia di me che avevo una laurea avanzata. Era una persona semplice. Non si aspettava nulla dalla vita e non aveva ambizioni. Si difendeva dalle avversita' con il sorriso, la sua arma vincente. Il suo spirito e la sua curiosita' erano sempre stati quelli di una bambina. E sembrava che la sua malattia, anziche' farla invecchiare, la stesse riportando allo stato di una bambina in fasce. Per intrattenerla, le proposi un giorno di giocare a carte. “Tocca a te. Scarta.” Mi guardo' con un sorriso innocente, ingenuo e tenero, come per dire. “Cosa devo fare? Quale carta devo buttare?”.
Le leggevo libri, ma non mi ascoltava, anche se sorrideva e faceva credere di gradire la lettura. In realta' era solo felice di sentire la mia voce. “Di cosa parla?” E mi ripeteva l'ultima parola che l'aveva colpita. “Guerra”. Essendo nata proprio nel D-Day, non poteva rimanere indifferente a quella parola.
La interrogavo sui proverbi, il suo argomento preferito, la sua filosofia. Iniziavo con: “Meglio l'uovo oggi ...”, e rispondeva “che la gallina domani”. “Chi pecora si fa … “ e via dicendo. Non ne sbagliava uno. Ma quando le chiedevo cosa avesse mangiato a pranzo non rispondeva. Non si ricordava. Per esperienza, avevo imparato a non piangere davanti alle persone malate che, loro malgrado, sono la causa della tua sofferenza. Ma era veramente difficile non scoraggiarsi. Spesso piangevo in bagno, oppure sul treno, rannicchiata sul sedile, dando l'impressione di dormire.
Dopo due mesi di degenza, arrivo' il primo allarme: e' entrata in coma. Mia sorella mi chiamo' disperata. Non sapeva cosa fare. Non se la sentiva di andare in ospedale. Era domenica, mi ero appena rilassata a casa dopo il viaggio di ritorno, e purtroppo era troppo tardi per ripartire. Nessun treno viaggiava a quell'ora. Chiamai un'amica di famiglia, un' infermiera, una persona riservata e affidabile che si reco' in ospedale e mi rassicuro' che si trattava di un falso allarme. La mattina seguente arrivai. Chiesi alcuni giorni di permesso lavorativo, per capire cosa poteva succedere. Di giorno passavo a trovare mia madre, dando il turno a mia sorella e poi mi fermavo durante la notte ad assisterla e sorvegliarla. Mia sorella era tranquilla perche' ero io ad avere il controllo della situazione. Ed io non volevo lasciar sola mia madre.
Dopo qualche giorno la trasferirono in una struttura ospedaliera per malati terminali. Mi avvertirono che non sarebbe vissuta piu' di tre mesi.
Mia sorella non voleva guardare in faccia la realta'. Percio' evitava il dialogo con i medici. “Come sta? Come sta? Come ti sembra? Potrebbe riprendersi?”. Mi telefonava per chiedere notizie quando non era li' presente. Cosa le potevo rispondere? Era difficile mantenere la calma, ma le rispondevo che la situazione era normale e stabile, che riuscivo a darle da mangiare e che sorrideva. Cio' bastava a rassicurare mia sorella.
Nessuno poteva sapere il giorno esatto in cui mia madre ci avrebbe lasciate, ma la situazione poteva perdurare anche qualche mese. Pertanto, ripresi a lavorare, anche se con la paura dello squillo del cellulare. I colleghi e il capo riuscirono a rendermi la vita serena, anche in quelle circostanze.
Ripartivo il venerdi' sera per passare le notti in ospedale e ripartire lunedi' mattina alle cinque per tornare a lavorare. Era tutto quello che potevo fare per non trascurare il lavoro e la mia vita e per mantenere il controllo della situazione familiare. Per fortuna, la struttura ospedaliera dove era collocata mia madre era confortevole abbastanza da rendere vivibile il soggiorno e la permanenza dei parenti che sostenevano i pazienti. La stanza di mia madre sembrava un piccolo appartamento ammobiliato, con televisione, angolo cucina, guardaroba, divano - letto per gli ospiti e bagno con doccia.
Per distrarmi, mentre sorvegliavo mia madre, leggevo romanzi o saggi, il mio passatempo preferito da quando pendolavo nel fine settimana. Inoltre ascoltavo musica e facevo acoltare a mia madre autori di suo gradimento che riconosceva e tentava di canticchiare.
Pian piano peggiorava. Ogni lunedi' che passava, il rischio di ripartire senza piu' vederla aumentava. “Per questa settimana puo' tornare al lavoro. Ma chieda il permesso per la prossima”. Mi suggeri' il medico. Io guardai mia madre. Mi accenno' un sorriso e allora ripartii.
Il giovedi' di quella settimana, arrivo' un altro allarme, che per fortuna si rivelo' soltanto un ultimo avvertimento. La settimana successiva non tornai al lavoro. Dissi a mia sorella che avrei badato soltanto io alla mamma, giorno e notte e che quindi lei poteva starsene a casa, possibilmente tranquilla. Non insistette e mi lascio' il pieno potere. Non avrebbe potuto sopportare quello spettacolo, ma non voleva ancora credere che sarebbe accaduto.
L'assistenza durante quei giorni fu terribile e agonizzante. Mia madre non rispondeva piu'. Non mangiava, ne' beveva. Il respiro diventava sempre piu' faticoso. Era questione di momenti. Non volevo allontanarmi e i pochi istanti che lo facevo, per esigenze personali, ero sempre in allerta perche' rischiavo che fosse troppo tardi per salutarla. Ed io volevo essere li' con lei in quel momento, per stringerle la mano, per accompagnarla non so dove o soltanto per confortarla nell'ultimo attimo.
Mi chiedo sempre che sensazione si provi a morire. Dolore? Sollievo? Nessuno puo' testimoniarlo. In ogni caso, la mia presenza le avrebbe certamente reso piu' piacevole la transizione, anche se non poteva esprimerlo.
Era una mamma eccezionale. Non aveva mai negato nulla alle sue figlie, anche se la sua eccessiva presenza si era rivelata diseducativa. Ma non e' per nulla facile educare e pochi lo sanno fare bene. Ma il suo coraggio, il suo sorriso e la sua sincerita' mi hanno insegnato molto di piu' di quanto belle parole, ma non spontanee, avrebbero potuto insegnarmi. La presenza delle persone a lei care la rendeva felice e lo dimostrava con il suo sorriso illuminante. Depressione, frustrazione, stress erano termini che non erano mai esistiti nel suo vocabolario, anche nelle giornate piu' cupe e nei momenti difficili. Forse l'essere nata durante la seconda guerra mondiale le aveva insegnato a vivere in balia degli eventi e a sapersi accontentare, a saper apprezzare il cibo, desinando con generose porzioni, come se fosse sempre festa. Forse non ha saputo adeguarsi ai cambiamenti sociali, o forse non era in grado di vedere aldila' della sua realta'. Ma il suo mondo, tutto quello che aveva, l'ha trasmesso alle sue figlie interamente, senza riserve. Cosi' come il suo sorriso, il suo dono piu' prezioso.
Ero in dormiveglia. All'improvviso il suono del suo respiro cambio'. Capii che era arrivato il momento. Mi avvicinai. “Non potro' mai ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me, anche se spesso siamo state in conflitto, odio e amore per la stessa ragione: la vita che mi hai dato. E ora mi stai dando anche la tua. Non la merito e non vorrei accettarla, ma non posso fare altro che accoglierla, come ultimo tuo dono, e stringerla fra le mie mani”.

venerdì 26 agosto 2011

Il moto pendolare


Mia madre stava di nuovo male. Stavolta il cancro aveva colpito il cervello e gli effetti sarebbero stati devastanti. Subito dopo la diagnosi, fece delle terapie che furono efficaci per qualche mese e le permisero di condurre una vita normale. Ma poi gradualmente la situazione peggioro’. Era pericoloso lasciarla sola in casa. Si sentiva confusa. Spesso non capiva dove si trovava e a volte scambiava me per mia sorella.
Andavo a trovarla tutti i week end. Facevo il possibile per aiutarla, ma soprattutto per aiutare mia sorella, che badava a mia madre e all’altra mia sorella invalida tutto il tempo, aiutata soltanto in parte dall’assistenza sociale diurna. Pero’ era veramente difficile trattare con mia sorella. Aveva una dipendenza affettiva, quasi morbosa, nei confronti di mia madre. Le sembrava normale stare tutto il giorno in casa e non lavorare per badare alla madre e alla sorella. Ed era apprensiva. Non riusciva a distrarsi. Esisteva solo la madre per lei e mi considerava un’egoista perche’ lavoravo, vivevo in un’altra citta’ e venivo a trovare la mamma soltanto nel fine settimana. Non capiva affatto quanto fosse faticoso nel week end, dopo una settimana di intenso lavoro, alzarsi alle cinque del mattino e dopo, quattro ore passate sui mezzi pubblici, vedere la mamma che peggiorava di volta in volta. Non capiva il mio dolore nel ripartire la domenica pomeriggio per ritornare a vivere lontano chilometri. Mi spiaceva essere lontana. Ma avevo diritto anche io a vivere. Sarebbe stato un vano suicidio se anche io avessi mollato tutto e fossi rimasta tutto il giorno con la mamma. In ogni caso non sarebbe guarita. Inoltre avrei rischiato anche io di alienarmi, e cio’ avrebbe potuto soltanto peggiorare la situazione, visto che mi ero appena ripresa dal mio malessere. Invece vivere una vita serena durante la settimana, mi dava le forze e lo spirito necessario per affrontare l'atmosfera infernale del week end.
Dopo circa quattro mesi dal mio trasferimento, pero’ la situazione divento’ critica: mia madre non camminava piu’. Mia sorella si rivolse ad una badante. Opinai che fosse meglio inserire mia madre in una struttura. Ma mia sorella non ne volle sentire parlare. Non voleva che andasse via di casa, a meno che non la ricoverassero in ospedale. “Ma non ti rendi conto che in casa non si hanno le strutture adeguate per poterla assistere? Neanche la badante riesce a farle il bagno.” Le dicevo. E le assistenti sociali minacciavano di intervenire. Ma io preferivo non contrastare la scelta di mia sorella che, nonostante il suo atteggiamento immaturo, era una persona responsabile. L’atteggiamento autoritario nei suoi confronti, in questa situazione, non avrebbe fatto che peggiorare il nostro rapporto gia’ difficoltoso.
In fondo, capivo quello che provava. Era come sentirsi in dovere di assistere alla demolizione della propria casa che, all’improvviso, viene giudicata pericolante. Temeva quello spettacolo e non voleva assistervi, ma non voleva neanche attivarsi per scappare o per ridurne le conseguenze. Soltanto qualcuno di sua fiducia poteva evitarle quella visione e tutte le pratiche successive. Qualcuno a cui lei avrebbe lasciato in mano la situazione e di cui anche mia madre si sarebbe fidata. Soltanto io potevo prendermi quell’incarico ed evitarle un eventuale trauma. Era l'unica cosa che potevo fare per lei. Ma il rischio di non poter intervenire al momento opportuno era elevato. Ma forse potevo sperare di individuarlo osservando attentamente la situazione, settimana per settimana.
E intanto pendolavo, tra un binario e l’altro, tra domicilio e residenza familiare, tra la mia vita e quella di mia madre.

giovedì 25 agosto 2011

Terreno fertile

I presupposti per un buon inizio nella nuova citta’ esistevano. Il luogo di lavoro era in una villa, collocata in un paesino in posizione collinare in mezzo al verde, lontano dal traffico cittadino. Ebbi la fortuna di trovare casa ad un passo dal lavoro. Era un bellissimo posto, dove mi sentivo tranquilla, in pace. Inoltre feci amicizia con la padrona di casa, una signora molto gentile e disponibile con la quale era piacevole anche scambiare pensieri e riflessioni personali.
Anche al lavoro mi sentivo a mio agio e non percepivo minimamente lo stress, pur essendo molto impegnata con studi e analisi varie. Cio' grazie all'ambiente piacevole: colleghi molto simpatici e spiritosi, ma anche solerti e diligenti ed il capo, persona davvero eccezionale. Del mio ex capo apprezzavo l'entusiasmo coinvolgente nello svolgere il lavoro e nel condividere le sue ottime conoscenze, la sua disponibilita' al dialogo e l' interesse e considerazione mostrati non solo nell'attivita' professionale, ma anche verso i dipendenti o i collaboratori. Pur essendo molto indaffarato, si soffermava sempre a spiegare in dettaglio il lavoro da fare. Mi sentivo guidata, non subordinata o strumentalizzata: il capo lavorava con me, al mio stesso livello. Non si limitava ad ordinare X e Y, ma mi insegnava passo dopo passo. Ed io imparavo ed ero motivata a voler imparare sempre di piu', non studiando su aride dispense o libri inpolverati, ma lavorando con lui e interagendo con i miei colleghi. Percepivo la vacuita’ del mio ideale puramente astratto di “Eccellenza”. Qual era il senso di pagare con l'alienazione e l'antipatia sociale il raggiungimento di un livello elevato? Essere eccellenti ed allo stesso tempo sorridenti, simpatici e umani, non trascurando le proprie attivita’ ricreative e mantenendo la propria personalita’ e dignita’ era possibile: il mio capo ne era un esempio.
Non sentivo piu’ il bisogno di un modello astratto: la realta’ era piu’ affascinante. Non percepivo nessun vantaggio a rifugiarmi nella mia isola poiche’ vivevo serenamente nell’ambiente dove mi trovavo e le persone mi incuriosivano. Ormai non mi attiravano piu’ i testi accademici. L’osservazione dell’ambiente circostante dava maggiori stimoli. Inoltre non sentivo piu’ l’esigenza di essere autodidatta quando tutto cio’ che volevo apprendere potevo impararlo dal capo e dai colleghi.
In un ambiente tale potevo concepire il concetto di “far carriera”. Nonostante la paga non fosse incentivante, tenuto anche conto delle spese di alloggio e trasporto che dovevo sostenere vivendo lontano dalla famiglia, ed il lavoro fosse precario, il terreno era fertile per una crescita personale e professionale. Non percepivo il tempo passato davanti alla scrivania come tempo sprecato. Non guardavo costantemente le prime due cifre dell’orologio aspettando di leggere 18. Non mi annoiavano, anzi mi divertivano, i discorsi che sentivo in pausa pranzo o in pausa caffe’. Non sentivo nessun desiderio di evasione o prevaricazione. Volevo essere simpatica e collaborare al meglio. Non percepivo la routine lavorativa: ogni giorno era diverso, nonostante le analisi a volte fossero ripetitive. Inoltre avevo occasione di parlare in pubblico: di presentare i lavori durante i meeting o le conferenze mediche. Il lavoro sfruttava bene le mie capacita’ e conoscenze, ma soprattutto la mia personalita’ ed il mio temperamento “artistici” venivano accettati. Pertanto la mia indole non sentendosi repressa e rifiutata, tendeva naturalmente ad adattarsi e integrarsi alle esigenze lavorative.
Nessuna giacca e cravatta, nessuna divisa: solo persone che vogliono contribuire ad interpretare in maniera corretta la realta’ clinica, nelle terapie intensive italiane, e a suggerirne possibili miglioramenti. Non solo lavoratori, ma membri di una squadra, ognuno con il suo ruolo e la sua personalita’. Nessuna rivalita’ tra loro. Nessuna subordinazione alle esigenze di mercato o alle mere pubblicazioni scientifiche. Una fervida attivita’ di studio e scambio di conoscenza. Un vero centro di ricerca con degli obiettivi concreti.
Capii’ che l’ambiente lavorativo, l’organizzazione e le persone con cui si interagisce sono gli aspetti fondamentali del lavoro. Da essi infatti dipende la qualita’ delle giornate e quindi della vita stessa. Qualita’ che viene percepita soltanto a livello individuale: non definita in termini oggettivi e astratti, ma dettata soltanto dalle nostre esigenze. I titoli accademici richiesti, la responsabilita’ delle mansioni, la paga, la scadenza del contratto, il “prestigio” idealizzato del lavoro, definito da una Legge esterna e non dalla nostra Natura non devono condizionare la scelta lavorativa. Se e’ possibile scegliere, perche’ non seguire la strada che migliora la qualita’ della nostra vita e da cui dipende anche la nostra felicita’?
Se la mia felicita’ fosse dipesa soltanto dal lavoro, sarei ancora li’ adesso. Ma la mia vita privata necessitava di qualcos’altro. Era incompleta. Cosa mancava? O meglio, chi mancava? Una persona che al momento era lontana. 
 

lunedì 22 agosto 2011

Nomadismo

Negli ultimi sei mesi di dottorato avevo trovato un lavoro part-time come assistente di ricerca nello stesso dipartimento di matematica e statistica applicata all’economia. Nonostante gli incarichi assegnatomi fossero operativi e l’ambito di ricerca non mi incuriosisse particolarmente, il lavoro mi piaceva perche’ sfruttava le mie capacita’ e mi coinvolgeva nella stesura degli articoli scientifici che i docenti avrebbero pubblicato menzionando la mia collaborazione. Mi si chiedeva di analizzare dati o di fare delle simulazioni, di leggere le bozze degli articoli e correggerne gli errori, di controllare le referenze bibliografiche... Il lavoro da svolgere era ben definito, ma non lo erano il modo ed i mezzi usati per ottenere i risultati, che dipendevano  dalle mie conoscenze statistiche e/o informatiche e dalla mia motivazione ad acquisirne nuove. Potevo organizzarmi il lavoro arbitrariamente, lavorando di giorno oppure di notte, a casa o in ufficio, purche’ rispettassi le scadenze di pubblicazione e gli appuntamenti con i docenti per discutere dei risultati. Grazie al dialogo e al confronto con gli esperti, non percepivo l’isolamento. Inoltre la necessita’ di utilizzare particolari risorse informatiche mi legava all’ufficio e mi dava l’occasione di socializzare di piu’ con gli altri studenti di dottorato e con i ricercatori.
Quando conseguii il titolo di dottore di ricerca continuai il lavoro per qualche mese. Inoltre collaborai come assistente alla docenza del mio ex relatore della tesi di laurea. Tenevo le esercitazioni agli studenti in aula, correggevo gli esami, elaboravo del materiale didattico e avevo il contatto con gli studenti. Mi sarebbe piaciuto molto proseguire e far carriera come insegnante. Anche il professore mi avrebbe incoraggiato, ma purtroppo non aveva potere decisionale nel dipartimento perche’ si era sempre occupato di didattica trascurando, per ragioni che condividevo, l’attivita’ di ricerca scientifica. E nel mio dipartimento non avrei avuto possibilita’ perche’ non vantavo pubblicazioni scientifiche rilevanti nelle attivita’ di ricerca di interesse dei docenti. “Cambiare aria, cambiare citta’ ”. Fu il suggerimento del docente.
Pertanto, mentre continuavo a lavorare come assistente, cercavo impiego altrove, spinta anche dall’imminente scadenza del mio contratto.
Epidemiologia era il campo di ricerca piu’ vicino ai miei interessi e piu’ attinente a cio’ che avevo studiato al dottorato. Infatti i dati si riferivano a persone e non ad entita’ astratte o ad oggetti materiali. Le informazioni erano complesse da analizzare e la complessita’ mi affascinava. Inoltre avrei acquisito conoscenze di base in ambito clinico, e competenze specifiche in ambito statistico. Infatti, per quanto avessi delle ottime nozioni teoriche, peccavo di  esperienza con dati reali e con i modelli piu’ usati nella prassi. Trovai lavoro come statistica in un centro di ricerca in epidemiologia clinica a circa duecento chilometri dalla mia citta’. Il pensiero di lasciare la mia casa, il mio rifugio e di essere lontana dalla mia famiglia subito mi intristi’, dandomi la percezione della futura nostalgia che avrei provato. Ma poi prevalsero il mio spirito di avventura ed il fascino per le novita’, la voglia di andare avanti, iniziando una nuova carriera in un’altra citta’, incontrando nuove persone e staccandomi dalla mia dimora. Avrei potuto vivere libera da condizionamenti da luoghi vissuti e da persone note. Avrei potuto vivere seguendo soltanto la mia indole e il mio istinto, non essendo nella nuova citta’, legata sentimentalmente a nessuna persona, non possedendo nessun oggetto immobile e non avendo pratiche amministrative da sbrigare. Avrei ricominciato la mia vita vivendo alla giornata. Il cielo e l’ambiente circostante avrebbero determinato la mia direzione. Nessun altro obiettivo. In fondo ambivo a contribuire con successo all’attivita’ lavorativa che dovevo iniziare. Ma non era la mia priorita’. Volevo partire, in balia degli imprevisti. Soltanto l’abbandono di cio’ che aveva influito all’imposizione della mia Legge e alla definizione del mio Ideale mi avrebbe consentito un’esistenza in linea con le mie forze vitali ed il mio istinto. E, in quel momento, l’unico modo per conseguirlo fu il “Nomadismo”.
Ma nuovamente le avversita’ mi ostacolarono e mi impedirono di godere pienamente della mia nuova condizione. La mia famiglia era il legame che, non la mia Legge, ma la mia natura mi impediva di rompere. Inoltre ero ancora profondamente legata al mio ex convivente. 

sabato 20 agosto 2011

La discesa in Rete

Il dottorato segno' la fine della mia ricerca dell'eccellenza e degli imperativi che mi avevano imposto un percorso verticale.
Cominciai a realizzare che l'altitudine era opprimente e insana poiché mi distaccava dalla mia natura. Ero ormai in una posizione talmente elevata da rendere la discesa l'unica possibilita' di proseguimento del cammino. Cio' non voleva dire che dovevo tornare indietro, ma che dovevo soltanto scendere, con la possibilita' di percorrere una strada alternativa a quella che mi aveva condotto alla salita, osservando aspetti della realta' ancora ignoti. Inoltre la discesa mi avrebbe consentito anche di spostarmi verso un'altra vetta.
Ma la priorita' era scendere, scendere per vivere, la piu' naturale delle ambizioni che gli studi avevano oscurato.
L'azione, il movimento sono piu' importanti di qualsiasi pensiero o principio. Pertanto non dovevo deprimermi se trovavo un lavoro non abbastanza qualificato da giustificare i miei studi oppure un lavoro interessante, ma precario e sottopagato.
Costituisce un vantaggio aver studiato se ci vincola ad uno "status" che la societa' impone? E' un vantaggio aver studiato se ci induce a pensare che un lavoro non sia adatto a noi solo perche' non qualificato anche se sfrutterebbe le nostre capacita' e fosse in linea con la nostra personalita'? E' un vantaggio aver studiato se ci allontana dalla nostra natura, dalle persone che amiamo e quindi da cio' che ci renderebbe felice? Si studia per avere maggiori opportunita' oppure per precludere alcune strade?
Analogamente, non era fondamentale che il mio progetto di ricerca, conclusosi con la tesi di dottorato, ottenesse un riconoscimento e fosse pubblicato in una ricerca scientifica.
"La tua tesi va bene per finire il dottorato e conseguire il titolo di studio. Ma se vuoi avere piu' possibilita' di fare carriera come ricercatrice all'Universita' dovresti lavorarci ancora per poter rendere il tuo lavoro pubblicabile. Puoi chiedere l'estensione della borsa di studio per un anno". Mi disse il coordinatore del corso di dottorato. Ma io ero stanca e la mia impazienza era piu' forte della mia perseveranza. Realisticamente, se non avevo ricevuto abbastanza stimoli e incentivi nel corso dei tre anni, la situazione non sarebbe cambiata in un ulteriore anno. "Voglio chiudere", pensai. In fondo ero soddisfatta. Avevo fatto un lavoro abbastanza dignitoso per poter ottenere il titolo nel piu' breve tempo possibile. Il mio tempo, la mia vita valevano di piu' di qualsiasi possibile gratificazione futura che poi forse non avrei neanche apprezzato.
L'importante allora era recuperare quello che avevo perduto: la mia spontaneita', il mio umorismo, la mia predisposizione naturale ad aiutare gli altri, ad ascoltarli e comprenderli, la mia voglia di intrattenere le persone e, a mia volta, essere intrattenuta da loro.
Negli ultimi anni passati, avevo posto me stessa sempre in primo piano, dimenticandomi di quanto fosse importante la "tappezzeria" nel determinare la bellezza e l'armonia di un ritratto.
Dovevo uscire dal mio isolamento. Purtroppo la rottura con il mio convivente fu inevitabile. Ero confusa, distante, pur amandolo. Forse perche' lo consideravo complice della mia isola, o meglio, della nostra isola che in sua compagnia trovavo piacevole, ma in sua assenza paranoica.
Sentii il bisogno di rivedere le amiche piu' care da cui, inspiegabilmente, mi ero allontanata. Rivedendole e restando sempre in contatto tramite i social network, ho ritrovato la voglia di ridere, ridere fino al punto in cui si prova male alla pancia. Ero stufa di controllare le mie emozioni: volevo poter sfogare la mia gioia o la mia rabbia urlando in liberta'. La mia indole in fondo non era cambiata. Era sempre quella di quando avevo quindici anni, ma soffocata dalle responsabilita' familiari e dalla Legge che mi ero imposta. Anche la mia creativita' artistica era rimasta tale, anche se in forma latente. Infatti era da tanto tempo che non disegnavo piu! Ora potevo ricominciare. Ora ero libera dall' "Ideale" che mi aveva salvaguardato, ma anche trascinato in una situazione di stallo radicale.
Quali erano le mie vere preferenze? Le persone mi interessavano piu' dei numeri. Scrivere, mi piaceva di piu' che risolvere problemi matematici. Perche' negarlo? Perche' ostinarsi a voler essere indifferente alla gente? Perche' voler soffocare l'empatia e la curiosita' per le esperienze altrui?
Ora potevo condividere i miei pensieri e manifestare liberamente le mie idee su Internet, confidarmi con le mie amiche come un tempo e ascoltare le loro confidenze. Potevo farlo anche senza abbandonare la mia isola, che pian piano divenne soltanto un luogo dove rifugiarsi e non un luogo in cui radicarsi e identificarsi.
Grazie alla Rete partecipai alle rimpatriate con i vecchi compagni di scuola delle medie e delle superiori.
Non posso negare quanto mi fece piacere rivederli e quanto contribui' all'abbandono del mio isolamento.
Seguire i miei amici e leggere le loro pagine in Rete mi interessa di piu' di ogni materiale accademico o di un libro. Perche' negarlo? E' con sincerita' che esprimo tuttora la mia ammirazione per gli amici che si sposano, che hanno figli, per quelli che manifestano le idee in cui credono e per quelli che sono sempre alla ricerca di avventura e che vivono pienamente il presente nella sua instabilita'.
Ogni scelta di vita, ogni pensiero devono essere manifestati se esprimono la propria natura. La diversita' crea confusione, ma e' dalla diversita' che nascono le nuove prospettive.

mercoledì 17 agosto 2011

L'approccio modulare

Per quanto dietro il mio malessere ci fosse un disturbo fisico, la sua gravita’ fu amplificata dal fattore psicologico.
Infatti il mal di testa incontrollabile nasceva da una condizione di rassegnazione e quasi di incoraggiamento del Male.
Negli ultimi 18 mesi del dottorato di ricerca infatti avevo vissuto una situazione di stress, uno stress di cui ignoravo l’esistenza: il cosiddetto “stress negativo”. “Come faccio ad essere stressata se non sto facendo nulla e non mi sto muovendo in nessuna direzione?”. Mi chiedevo, illudendomi di non percepire alcuno stress. Infatti ero carica di energie che, male impiegate, si trasformarono in forze autodistruttive. Non dovevo piu' sostenere esami, ma pensare soltanto a quale progetto di ricerca seguire. Nessuna ispirazione. Nessun incoraggiamento. Per colmare il vuoto allora studiavo, studiavo anche senza un obiettivo preciso. Mi ritornera’ utile, pensavo. Trovero’ di sicuro l’argomento. Ma dopo un po’ mi sentivo confusa, non riuscivo a concentrarmi, perdevo la motivazione. Ma non volevo mollare. Osservavo gli altri studenti di dottorato e i ricercatori. Anziche’ isolarsi a casa a studiare, passavano il tempo in ufficio. E intanto socializzavano. Sembravano sempre indaffarati. Al contrario di me, pareva che avessero le idee chiare su quale direzione seguire e su come impostare il lavoro. Scambiavo con loro due chiacchiere, ma nulla di piu’. Odiavo la mia isola, ma mi dava sicurezza. Era la mia corazza, contro le convenzioni sociali ed il luogo comune. Mi proteggeva da qualsiasi istituzione sociale che volevo evitare: il matrimonio, la famiglia, i convivi. Il mio approccio antisociale mi aveva fatto perdere il contatto con la realta’ e la curiosita’ verso il mondo esterno. Di conseguenza avevo perso interesse per la mia esteriorita’, per la mia immagine. Allo specchio vedevo un fantasma. Non una persona. Sentivo solo la mia mente che viveva. Un cervello, staccato dal corpo, che non aveva limiti, ne’ principi.
Pertanto la mia concentrazione e pressione sulla “materia grigia” aveva rotto l’equilibrio con il corpo, causando la cefalea. In fondo sapevo che il mio stile di vita e il mio atteggiamento erano sbagliati, ma la situazione di stallo e di impotenza nel mio lavoro, mi induceva a lasciarmi andare, a farmi trasportare dal Male. Se non fossi riuscita a terminare il mio progetto, la colpa non sarebbe stata mia, ma del mio Male che stavo lasciando entrare nella mia vita.
Mi sentivo barcollare quando camminavo per la strada. Ogni oggetto in movimento mi disturbava. A volte la vista si annebbiava. Il mio stordimento era la giustificazione per la mia assenza, per la mia distrazione. Attraversavo la strada con noncuranza. Se avessi avuto un incidente, la colpa sarebbe stata del mio Male.
Sto male. Come potrebbe essere il tuo futuro con me?”. Il Male aveva allontanato il mio convivente. “Sto male, non posso venire”. “La testa non mi regge”. E dormivo piu’ di quello che avrei voluto.
Anche i medici spesso contribuiscono indirettamente alla perdita di responsabilita’ del paziente nei confronti della propria salute.
Infatti spesso danno l’impressione di considerare il paziente come un insieme di parti fisiche, tutte staccate tra loro e non come una persona. Usano cioe’ un approccio modulare anziche’ olistico. Inoltre tendono a soffocare i primi sintomi prescrivendo farmaci. In tal modo il paziente pensa di essere guarito e che la sua vita e la sua salute dipendano dal medico e dai farmaci. E quando il sintomo ritorna, un’altra dose di farmaci. Capisco che quella sia la via piu’ immediata e piu’ comoda perche’ evita lo sforzo di individuare la causa del problema. Inoltre capisco che la routine lavorativa e la stanchezza che ne deriva possano contribuire alla perdita di motivazione: cosi’ come io posso essere svogliata davanti ad una tabella di dati, il medico puo’ essere distratto di fronte al paziente. Ma guarire attraverso la sola repressione dei sintomi e’ come voler combattere la violenza con altra violenza.
Ma come potevo migliorare la situazione? Era poi vero che il mio mal di testa non avesse un attimo di tregua? In effetti c’erano delle situazioni in cui non mi sentivo male, uscivo dall'isolamento ed il mio cervello “rientrava” nel corpo. Cio’ avveniva quando tenevo le esercitazioni agli studenti universitari. Ricordo che a volte entravo in aula stando male, ma poi guardavo il pubblico che mi divertiva e incuriosiva. Gli studenti erano li’ per me, per sentirmi parlare. Potevo contribuire all’esito dei loro esami. Potevo migliorare la loro vita, se fossi stata in grado di chiarificare i loro dubbi. Allora il Male spariva o forse non lo sentivo. Le mie conoscenze acquisivano forma e significato grazie al gesso e alla lavagna. Le manifestavo non per farmi valutare, ma per farmi capire. Volevo aiutarli e percio' dovevo comprendere le loro difficolta' e le loro esigenze. Dovevo creare un contatto, ma al contempo mantenere l'ordine in classe. Gli studenti avevano bisogno di me ed io di loro. Se sognavo la rivoluzione, il luogo ideale per insorgere era in piazza, o meglio in aula.

lunedì 15 agosto 2011

Autoimmunita'

Inizio’ con la percezione di suoni, fischi, interferenze. Me ne accorsi un giorno, qualche mese prima di partire per Edimburgo. Camminavo per la strada quando ad un certo punto sentii uno strano rumore, che si presento’ inizialmente simile al processore di un computer e poi assomigliante alla risacca del mare. Ma da dove proveniva? Forse era stata un’allucinazione sonora, una sorta di miraggio, complice il sole abbacinante.
Arrivai a casa. Il suono era ancora li’. Era dentro la mia testa. Lo sentivo manifestarsi piu’ decisamente, isolato tra le mura domestiche. “Forse sono stanca. Domani mi alzero’ e non lo sentiro’ piú’”, pensai.
E invece era sempre li’. Di notte, prima di addormentarmi era un tormento, perche’ lo sentivo amplificarsi ed espandersi sul cuscino. Un computer sempre acceso che sembrava non funzionare piu’ correttamente. E se si rompesse da un momento all’altro?
Preoccupata, chiesi al medico di base. “Iniziamo con gli antinfiammatori. Se non agiscono andiamo dall’otorino”. Andai dall’otorino. Nessun problema. E dall’audiometria non risultarono segni di perdita di udito. Mi prescrissero degli integratori, qualora fosse carenza di vitamine. Nessun effetto. Feci una radiografia alla mandibola. Nessuna disfunzione. Nessuna patologia dentaria. Cominciai a documentarmi. Le cause degli acufeni, questo il termine medico che denota il mio disturbo, non sono state ancora identificate con esattezza. E’ un disturbo complesso ed e’ difficile trovarne una cura efficace, supposto che se ne determini la causa. Valutai che, molto probabilmente, avrei continuato a stressarmi, sottoponendomi ad esami inutili. E se imparassi a convivere con questi fruscii? In fondo ho sempre vissuto con ridotte capacita’ visive, parzialmente corrette da lenti a contatto.
Mi tranquillizzai, facendo il possibile per ignorare quel suono. Partii per Edimburgo. Il suono mi accompagno’ anche li’. Ma non mi rovino’ il soggiorno.
Quando tornai in Italia, un nuovo compagno si era aggiunto agli acufeni. Il mal di testa cronico. Le giornate si susseguivano e lo stordimento non passava. Interpellai di nuovo il medico di base. “Facciamo una risonanza magnetica all’encefalo”. Feci anche quella, ma la mia fobia degli esami invasivi, mi impedi’ di farmi iniettare il cosiddetto mezzo di contrasto per migliorare la visibilita’ delle immagini.
Risulto’ una lesione, non significativa da sola, ma se accompagnata dagli acufeni e dal mal di testa poteva presagire l’esordio di una neuropatia demielinizzante, cioe’ di una malattia che distrugge la mielina, guaina delle fibre nervose.
Consultai un neurologo. “Deve ripetere l’esame con il mezzo di contrasto, per capire meglio la sua situazione, e prenda gli antidepressivi per il mal di testa”.
Fu il terrore di un’iniezione endovenosa e la paura della diagnosi che mi fecero rimandare l’esame di qualche mese. “Devo portare a termine il mio progetto di ricerca”. Era la mia giustificazione. Non volli assumere farmaci per poter avere il controllo di me stessa, dei mie pensieri e delle mie reazioni. “Voglio vivere la mia vita. Preferisco vivere nell’ignoranza della malattia. Preferisco vivere anni in meno, ma con la mia indipendenza, la mia padronanza, le mie idee piuttosto che guadagnare anni di vita in ospedale, dipendendo da farmaci, sottoponendomi a torture e diventando un “corpo da esaminare”. Ma capivo che il mio ragazzo, che da qualche anno era anche il mio convivente, premeva affinche’ mi sottoponessi all’esame e che prendessi tutti i farmaci necessari. In effetti anche io, anni prima, convinsi mia madre ad affrontare la chemioterapia. Forse cio’ e’ dovuto al fatto che le persone sane danno piu’ valore alla vita rispetto alle persone malate. O forse, come nel mio caso, perche’ la propria vita ha un valore diverso rispetto a quella dell’Altro. Si e’ altruisti o egoisti quando si pensa che l’Altro debba vivere ad ogni costo ed in qualsiasi condizione pur di non abbandonarci? E’ per sadismo o per rispetto della vita altrui che si suggerisce ad una persona di sopportare qualsiasi operazione, qualsiasi tortura pur di vivere?
Non avrei ceduto, ma il dolore diventava sempre piu’ forte. E adesso il dolore si irradiava anche dal collo verso il braccio fino alla mano. Ogni piccola attivita’ quotidiana mi pesava. E anche pensare, cominciava ad essere faticoso. Non potevo lasciarmi distruggere dalla mia testardaggine. Mi decisi a ripetere l’esame e a superare la mia fobia. L’esame non aggiunse alcuna informazione. Mi convinsi a prendere gli antidepressivi per poter continuare a lavorare al mio progetto. Non sopportandone gli effetti collaterali, consultai un altro specialista. Si apri’ una speranza per la mia guarigione. Il medico mi ascoltava, mi comprendeva. Mi diede altri farmaci, dopo attenta analisi. Ma soprattutto mi consiglio’ cure alternative, una volta che il mal di testa me l’avesse concesso: attivita’ fisica, gite ...
I farmaci fecero effetto e mi aiutarono a portare a termine la mia ricerca ed ottenere il titolo di dottore di ricerca.
Affrontai anche altri esami di accertamento, non troppo piacevoli, per escludere la presenza di danni di funzionalità dei nervi periferici, del nervo ottico e di quello acustico. Il medico reputo' non necessario proseguire ulteriormente le indagini. “Ripeta soltanto la risonanza magnetica, per vedere se le zone di lesione non sono aumentate”. “Che dice la estendo anche alla zona cervicale, che non abbiamo ancora indagato? ”, azzardai. “Perche' no, in effetti potrebbe essere quella la causa del mal di testa, dell' acufene e degli altri dolori”. Leggere libri medici mi aveva aiutato. La precedente lesione era rimasta tale. Ma c'erano segni della sindrome cervico-brachiale. Quindi si trattava di cervicale e avere individuato la causa del Male ne preannunciava la vittoria.
Ma la strada era lunga. Dovevo riprendermi fisicamente, poiche' ero magrissima, e sconfiggere definitivamente il mal di testa. Inoltre mi trovavo da sola, perche' avevo allontanato il mio Amore.
Piano piano tutti i fastidi sparirono, tranne l'acufene che mi e' fedele tuttora, anche se ormai conviviamo pacificamente.
Ma il fattore determinante alla mia ripresa non furono i farmaci, ma gli amici, le persone care ed il contributo decisivo provenne poi dal mio ragazzo.

domenica 14 agosto 2011

Artisticamente scienza

Portare a termine un progetto di ricerca significa focalizzarsi su un argomento ben specifico che comporti innovazione in un determinato contesto. Tale innovazione va intesa nel senso di apporto di utilita' nello sviluppo della conoscenza o dell'applicazione scientifica. Ma non ha nulla a che vedere con l'introduzione di armonia o di bellezza, come in un lavoro artistico.
Un progetto di ricerca, nel mio caso particolare, avrebbe dovuto introdurre originalita' nello sviluppo teorico di un modello matematico e/o nel suo ambito di applicazione. Pertanto necessitavo di una guida e di un sostenitore per poterlo conseguire, non avendo idea di come si estrinsecasse l'originalita' richiesta. Ma non trovando nessun suggerimento o incoraggiamento, persi l'orientamento verso gli ambiti di applicazione della ricerca svolta all'interno del dipartimento.
Trovai interesse invece nella statistica medica e nell'epidemiologia per diversi motivi. Il primo fu che l'epidemiologia era un argomento che esulava dalle applicazioni economiche. Studiando qualcosa di innovativo ed estraneo al dipartimento, pensavo di ottenere un vantaggio competitivo, ma invece me ne distaccavo, escludendomi da ogni possibilita' di dialogo e condivisione delle conoscenze con altri ricercatori. Il secondo motivo fu la curiosita' per l'ambito di analisi: le entita' matematiche e le valutazioni numeriche si riferivano alle persone e non ai soldi, come nelle applicazioni finanziarie o economiche. Inoltre l'esperienza del tumore di mia madre mi incentivo' a voler contribuire ad una migliore conoscenza delle malattie, mediante modelli matematici che aiutino a prevederne lo sviluppo.
I numeri e i modelli cessano di essere astratti se rappresentano un fenomeno reale. Ma cessano anche di diventare “arte” perche' si allontanano dal concetto di bellezza ideale.
Per il mio progetto pero' era piu' importante concentrarsi sull'aspetto scientifico piuttosto che su quello artistico. Dovevo trovare qualcuno con cui lavorare, ma dovevo anche trovare un'applicazione economica alla mia ricerca, per giustificare ai docenti la rilevanza del mio lavoro per il dipartimento.
Contattai un professore di Edimburgo, direttore di un centro di ricerca in epidemiologia genetica applicata al settore assicurativo. Si dimostro' disponibile ad aiutarmi. Riuscii ad ottenere dal mio dipartimento il finanziamento per potermi recare in Scozia per un periodo di studio di tre mesi. Dopo un'attesa snervante, dovuta a procedure burocratiche e organizzative che non potevo controllare, partii. Ma dove sarei andata a parare non lo sapevo e mi affascinava l'incognito. Cercavo nuovi stimoli e ispirazioni per sfruttare in modo costruttivo le mie energie. Ma piu' che con spirito da ricercatore professionale, partii con quello da ricercatore di avventure. E il mio approccio era sempre quello dell'artista e non dello scienziato. Infatti il professore mi colse alla sprovvista quando mi chiese in dettaglio quale argomento avrei voluto sviluppare. Gli risposi che avrei fatto affidamento sul suo saggio consiglio.
Quei tre mesi furono utili per capire il mondo della ricerca al di fuori della realta' italiana. Per quanto sia stimolante, mi resi conto che, benche' fossi capace di risolvere problemi e teoremi assegnati sulla base delle conoscenze che potevo acquisire, avevo difficolta' a formulare quesiti e ad individuare problemi utili ai fini professionali o accademici. Inoltre, mancavo di pragmatismo. Sedotta dalla sfida, tendevo ad approcciare i problemi scegliendo la strada piu' tortuosa invece che quella piu' lineare e facilmente percorribile.
La ricerca mi aveva dato l'illusione di poter far qualcosa di artistico, ma poi di non poterlo esprimere completamente per ragioni di “mercato” e ora rimanevano soltanto la frustrazione e il malessere per il mio isolamento.
Quando tornai in Italia, la situazione di distacco dai docenti e dagli ambiti di applicazione del dipartimento si accentuo'.
E fu da quel momento che si manifestarono in maniera aggressiva i sintomi di una malattia che avrebbe minacciato di distruggere il mio sistema nervoso e, di conseguenza, la mia vita.

sabato 13 agosto 2011

Il sogno rivoluzionario

Rinchiudermi nello studio, o in casa, per ideare e realizzare un progetto rivoluzionario che introducesse innovazione e contribuisse decisivamente al patrimonio scientifico o culturale era il mio ideale chimerico della ricerca accademica. Ma sottovalutavo che ogni rivoluzione implica un'azione collettiva. Un’idea radicale, se non riceve comprensione e sostegno da parte della societa' o da un gruppo di persone, non viene percepita come rivoluzionaria, ma piuttosto come pazzia. L'individuo non puo’ concepire il progresso senza il dialogo, il confronto e la collaborazione con le altre persone.
Inoltre in una societa’ evoluta e’ utopistico ambire all’estremismo, ma ci si deve accontentare di realizzare un modesto contributo che richiede comunque il riconoscimento altrui. Non ci si puo’ distinguere se si passa inosservati, ma nemmeno se si esce dal campo di osservazione: in tal caso infatti si annienta la propria visibilita’.
Mi illudevo di potermi distinguere per la mia genialita’ facendo qualcosa che si notasse da se’ e che non avesse bisogno di pubblicita’. Aspiravo ad essere talmente brava nel mio campo di specializzazione da non aver bisogno della collaborazione di nessuno e nemmeno di un promotore. Avrei voluto innovare il sistema, o la societa’, rimanendovi al di fuori.
Ma la scienza e la cultura non possono definirsi prescindendo dalla collettivita’. Diversamente, l’arte trova la sua espressione anche rimanendo a livello individuale. Infatti se si dipinge un quadro e lo si tiene in casa, il lavoro, pur non venendo riconosciuto all' esterno, avra' valore artistico. Ma non si puo' parlare di scienza, ma piuttosto di creativita' o di “arte”, nel caso di un marchingegno innovativo, progettato con intento scientifico, che poi rimane tra le mura domestiche. In tal caso infatti manca l'utilita' pubblica della scoperta che ne determina la successiva divulgazione e omologazione.
Ma perseguivo un ideale artistico o accademico?
Chiaramente artistico. Ma avendo studiato statistica e matematica consideravo il dottorato di ricerca e la successiva carriera accademica come l'unica possibilita' per introdurre l'arte nella scienza o nella conoscenza. Pertanto il mio atteggiamento fu quello dell'artista intrattabile. E potevo permettermelo, non dovendo piu' sostenere esami in aula. La valutazione del mio profitto infatti consisteva nello svolgimento di dimostrazioni di teoremi assegnati dal docente. Ogni ansia da prestazione e angoscia da compito in classe svani' nella mia isola domestica, dove potevo accendere lo stereo ad alto volume e scrivere uno dopo l'altro i vari passaggi algebrici che conducevano al teorema finale. Era come se la musica mi dettasse le formule. Continuavo per ore, alternando dischi e generi musicali, dal rock metallico alla new age, e sfogliando libri per acquisire le conoscenze necessarie. Entravo cosi' in simbiosi con la musica e la matematica, che riflettevano il mio stato d'animo e la complessita' dei vari passaggi.
Quando ero assorta negli esercizi, non mi rendevo conto di cosa accadesse all'esterno. Null'altro esisteva. Quello era il mio mondo. Non sentivo la stanchezza e neanche le gambe anchilosate per la sedentarieta'. Ma quando uscivo di casa anche solo per far la spesa, mi sentivo invisibile, anche se in realta' era perche' non osservavo piu' la realta'. Ero distratta. Mi vestivo con noncuranza. Trascuravo le faccende casalinghe. Ero immersa nei miei pensieri che si astraevano da tutto, persino dal fine del mio lavoro. 
La mia valutazione da parte dei docenti fu positiva, per quanto riguarda i risultati accademici. Ma la situazione cambio' quando dovetti intraprendere il mio progetto di ricerca finale. In fondo forse i professori pensavano che la mia indole ribelle e l'estraniazione avrebbero impedito il successo in ambito accademico. Ma se per un ricercatore sono fondamentali la collaborazione e il dialogo, anche piu' dell'eccellenza accademica, perche' allora il corso di dottorato mirava a fornire un'ottima istruzione, ma trascurava il coinvolgimento dello studente nell'attivita' accademica o scientifica? Perche' non si promuoveva il lavoro di gruppo anziché quello individuale? Il mio atteggiamento era certamente sbagliato, ma non trovavo nessuna motivazione che mi inducesse a cambiarlo. 

martedì 9 agosto 2011

Il paradosso della legge

Per tentare la carriera accademica, avrei prima dovuto ottenere il titolo di dottore di ricerca.
Ma che cosa comportava? Che cosa voleva dire fare ricerca? Quali erano le reali prospettive? In realta’ non ne ero consapevole. Quello di cui ero certa era che volevo ancora studiare, nonostante la situazione di precarieta’ della carriera da ricercatore universitario in Italia. Ed il percepire una borsa di studio, anche se inferiore ad uno stipendio, per poi conseguire il piu’ alto titolo accademico, mi allettava. E non solo, in futuro mi avrebbe consentito di fare dello studio il mio mestiere e la mia vita. 
Ma era per mero interesse oppure anche stavolta cercavo un ideale da perseguire e una legge con cui identificarmi? Forse ricercavo nuovamente la trascendenza, per fuggire alle contingenze della vita e perche’ non volevo fare del consumismo l’unica motivazione della mia carriera. In fondo avevo paura che, continuando a lavorare in azienda, non avrei piu’ avuto desideri se non quelli materiali, che avrei abbandonato i miei sogni, i miei ideali lasciandomi passivamente arrendere al non avere altro scopo di guadagnare se non quello di spendere.
Quando andai a vivere da sola, cominciai di nuovo ad avere sintomi anoressici, anche se la presenza del mio fidanzato, che spesso veniva a stare da me, ne impedi’ ogni sviluppo. Stavolta pero’ i sintomi furono dovuti in parte al distacco dalla mia famiglia. L’obbligo di cucinare e far la spesa soltanto per me, mi spingeva all’eccessivo autocontrollo per evitare gli sprechi. Non usavo la bilancia per misurare le quantita’, perche’ non volevo fare la contabile del cibo e ragionare in grammi. Pero’ l’unita’ di misura con cui valutavo le mie porzioni, tendeva via via a ridursi, senza che io ne fossi conscia. Inoltre a volte, per evitare la routine o semplicemente per comodita’, sostituivo un dolce al pasto. Cio’ non accadeva quando mangiavo e cucinavo in compagnia del mio fidanzato. Con lui era un piacere anche cucinare e mangiare, senza correre il rischio di eccessi o sregolatezze.
Ma il motivo principale del mio malessere, che ancora una volta trasferivo nel cibo, fu la frustrazione per il mondo del lavoro. Inizialmente perche’ risultai inadatta al lavoro che avrei voluto fare e successivamente perche’ il lavoro che svolsi si rivelo’ diverso dalle mie aspettative.
Pertanto la via accademica, dell’eccellenza, appariva come un’ancora di salvezza dal malessere e dai disturbi alimentari, come lo era stato in passato. Ma se nel triennio delle superiori fu la solitudine ad indurmi a cercare un modello in cui rifugiarmi, questa volta fu l’isolamento. La legge in cui mi identificai non si baso' piu’ sull’autosufficienza, sull’autoritarismo e sul rigore, ma sull’alienazione, sull’astrazione, sulla ribellione e, paradossalmente, sull’anarchia. Mi identificai cioe’ in una legge che non aveva disciplina. E rischiai di perdere il controllo della mia vita, della mia mente e del mio corpo.

domenica 7 agosto 2011

Apparente inettitudine

Con la mia laurea in statistica applicata all'economia, finanza e assicurazione, mi presentavo alla realta' professionale. Ma dietro al titolo di studio e al bagaglio di conoscenze che avrei portato in dote, dimenticavo che c'era una personalita', un carattere che avrebbe interagito con altre persone.
In un lavoro qualificato o in uno competitivo non e' il lavorare o meno a far la differenza, ma il modo in cui si svolge la mansione: la velocita', l'ordine e la precisione, l'autocontrollo anche nelle situazioni stressanti, la simpatia, l'entusiasmo... Tutte qualita' insite nell'indole e non nella cultura della persona, anche se e' vero che talvolta l'istruzione influenza tali caratteristiche.
Se il lavoro richiede delle conoscenze, non e' tanto importante il possederle, ma avere la capacita' di utilizzarle al meglio nel preciso contesto e di saperle condividere con i colleghi. Cioe' occorre padroneggiarle e manifestare agli altri la propria competenza. Altrimenti le proprie conoscenze rimangono nella propria isola e allora qual e' il vantaggio della cultura se giace tra le mura domestiche?
Pertanto, poiché non concepivo l'importanza di me stessa come persona e non come insieme di conoscenze, non era sorprendente che diversi colloqui intercorsi non andassero a buon fine. Mi domandavo quale fosse la causa. Mi presento male? Eppure il vestito era adeguato, i capelli in ordine e la postura accettabile. Quasi sicuramente avro' ottenuto un risultato non soddisfacente nei test attitudinali, soprattutto nei test di valutazione del quoziente intellettivo. Ma non era un problema di intelligenza accademica, ma semmai di intelligenza sociale. Infatti penso che il fattore principale del mio fallimento in alcuni colloqui di lavoro siano state le risposte date all'intervista. E quello di cui non mi accorgevo era che non c'era una maniera corretta per rispondere, ma una maniera adeguata alle aspettative dell'interlocutore. E se non riuscivo spontaneamente a trovare una risposta appropriata ne conseguiva che non ero idonea al lavoro, ma era altrettanto vero che neanche il lavoro sarebbe stato adatto a me. Ma io percepivo soltanto la mia inettitudine.
Inoltre ero annebbiata dall'ambizione di diventare il matematico delle assicurazioni o, in linguaggio tecnico, “attuario”, cioe' il professionista che valuta economicamente il rischio dei prodotti assicurativi e tutte le risorse necessarie all'azienda per farvi fronte.
Ma in realta' aspiravo a questa professione soltanto perche' i professori, durante il corso di laurea, mi avevano condizionato descrivendo il mestiere come se fosse l'unico ambito di realizzazione dell'eccellenza accademica. Mi stavo focalizzando su un obiettivo senza chiedermi se fosse in linea con i miei ideali e il mio carattere.
Infatti se lo studio era stato la scelta migliore, non se ne poteva concludere altrettanto con l'applicazione. Si puo' studiare con interesse e profitto una materia, senza poi avere il desiderio o essere in grado di applicarla.
Ci parli della sua tesi di laurea”. Mi chiedevano. “La mia tesi non ha toccato un argomento ben preciso, ma tutti i contenuti del programma di matematica e tecnica attuariale (assicurativa). Infatti ho elaborato in maniera creativa il materiale didattico per sviluppare un corso on-line che ancora adesso l'allora relatore della mia tesi usa durante le sue lezioni”.
Quindi, laureandomi, ho realizzato un obiettivo concreto e non soltanto un mucchio di fogli elegantemente rilegati che poi raccattano la polvere nel dipartimento e nella segreteria universitaria dove vengono archiviati.
Il mio progetto mi e' piaciuto per la sua multidisciplinarieta': matematica, economia, storia delle assicurazioni, demografia ...Inoltre e' stato divertente trovare delle immagini ed esempi evocativi al fine di rendere piu' efficace l'apprendimento e la comprensione da parte dello studente”.
Ma erano le abilita' insite nella realizzazione di questo prodotto che le aziende cercavano? Probabilmente no. Forse cercavano una persona meno creativa, ma che tendesse di piu' a concentrarsi su un lavoro piu' specifico e che lo eseguisse con ordine e precisione, focalizzando l'attenzione su una sola direzione, piuttosto che espandersi e vagliare piu' orizzonti. Forse cercavano una persona meno passionale e piu' convenzionale.
Il mio progetto didattico mi mancava. Avrei voluto continuare a lavorarci a tempo perso, come avrebbe voluto anche il mio professore. Ma l'angoscia di non essere pagata per la mia dedizione mi impediva di continuare. Inoltre mi ostinavo a voler farmi assumere nel settore assicurativo. “Insegnare non e' la mia aspirazione”. Dissi chiaramente al mio professore per giustificare la mia volonta' di terminare la mia collaborazione. Ma lo dicevo con rabbia, pensando che una carriera didattica non avrebbe ricevuto lo stesso prestigio e riconoscimento di una carriera assicurativa.
Finalmente, dopo diversi colloqui, trovai impiego nell'ufficio risk management di una Compagnia di assicurazione. Un lavoro molto simile all'attuario per la valutazione economica dei rischi. Ma, a differenza dell'attuario, non riguardava i rischi dei prodotti assicurativi, ma i rischi dell'attivita' operativa. Mi chiesi sempre se, a favorire la mia assunzione, non fosse stata la mancanza dell'intervista da parte di uno psicologo del lavoro. Infatti, a differenza di altri colloqui, questo aveva previsto soltanto l'intervento di “tecnici” del mestiere e del responsabile dell'ufficio.
Lavorai per meta' anno, ma la nostalgia dell'ambiente universitario fu tale da farmi rassegnare le dimissioni ed avviarmi verso la strada che pensavo mi avesse permesso l'ingresso alla carriera accademica. L'esperienza mi aveva insegnato che il rischio di perdere qualsiasi prestigio percepito all'esterno comporta meno danni rispetto al rischio di perdere la motivazione interiore.

sabato 6 agosto 2011

Isola

Vivere da soli: si mangia cio' che si vuole e quando si ha fame, si esce senza giustificazioni ne' specificazioni di moto da e per luogo, si dorme senza essere svegliati, in casa ci si dimentica delle buone maniere. Ma si puo' degenerare: disordine, sporcizia, vizi ...
Quello che spaventa di piu' e' il silenzio. Gli unici rumori che si sentono o provengono dall'esterno o sono derivati dai propri movimenti. Se si parla, la propria voce risponde come un eco. Se si piange o si ride, si realizza di essere ridicoli, poiche’ la manifestazione delle proprie emozioni sembra burlarsi di noi. E allora si diventa insensibili. E ci si barrica dietro l’indifferenza: nulla ci preoccupa, ma nulla piu’ ci interessa. Per quanto all’inizio si tema e odi la propria isola, ci si finisce per identificarsene e si ha paura ad abbandonarla. Nella propria isola non si hanno maschere e non ci sono ruoli. Tutti gli ideali e le ambizioni non hanno ragione di esistere. Solo i passatempi ci distraggono dal nichilismo e dalla logorazione del trascorrere del tempo.
Ma stando da soli si scopre veramente se' stessi, i propri gusti e le proprie idee. Si pensa e agisce in funzione del proprio istinto, senza condizionamenti da parte di altri essere umani.
La conoscenza e la comprensione di se' stessi sono pero' utili dal momento che ci si deve relazionare con l'Altro. Ma se poi si rimane senza contatti esterni, che vantaggio ci arreca sapere se siamo coraggiosi, pigri, invidiosi? Non si pone neanche il problema di accettarsi o migliorarsi: ci siamo solo noi e basta.
Ogni descrizione e caratterizzazione diventa pleonastica, puramente convenzionale poiché, dal momento che il soggetto e' unico, non ha bisogno di essere classificato.
Vivendo da sola, percepivo la seduzione e il pericolo dell' isola.
Ma la ricerca di un impiego non me lo permetteva. E la mia brama di iniziare una carriera annientava ogni riflessione sulla mia esistenza.

martedì 2 agosto 2011

Secessione

Nel mio ruolo di capofamiglia non trovai difficile gestire le pratiche, gli affari e prendere decisioni, anche perche’ mia madre mi lasciava pieno potere, come se fossi mio padre. Trovai invece arduo gestire il rapporto con mia sorella: non mi considerava ne' un genitore, ne' tantomeno una sorella. Infatti si sentiva subordinata a me: non si intrometteva, ne' esercitava ostruzionismo sulla gestione familiare, visto che nemmeno mia madre lo faceva. Ma per le questioni che riguardavano la sua vita, non esercitavo alcuna influenza. Infatti non seguiva i miei consigli che la invitavano a esporsi, a cercare la sua strada, ad immaginare il suo futuro al di fuori del nido materno. L'avrebbe fatto soltanto se la madre l'avesse spronata.
Mia madre non la incoraggiava neanche a cercare lavoro. L'avrebbe mantenuta a tempo indeterminato . "Mi aiuta in casa". Era la sua giustificazione. Ed io mi sentivo impotente di fronte al suo lassismo ed ero preoccupata per mia sorella. Ma e’ inutile lottare per dare la vista ad un cieco che vuole vivere nell’oscurita’.
Sperimentai allora la stessa frustrazione che provo’ mio padre. Un disagio derivato anche dall’influenza dei parenti stretti di mia madre. Spesso le mie zie e la loro carovana si presentavano a casa mia, senza avvisare della loro visita. E mia madre accoglieva tutti calorosamente, dimenticandosi dei suoi lavori casalinghi o della passeggiata che avevamo in programma. Mio padre non lo sopportava. Lo vedeva come una mancanza di rispetto nei confronti della nostra famiglia. Ma per mia madre invece era una mancanza di rispetto chiudere le porte alla sua famiglia. Ma eravamo noi la sua famiglia o erano le sue sorelle e suo fratello? Io ho sempre difeso la posizione di mio padre, incitando mia madre a parlare chiaro con i parenti. “Ma non puoi dir loro esplicitamente che dobbiamo uscire?” “Inoltre, non puoi pregarli di avvisarci prima che si presentino?”
Ma mia madre non seguiva il mio consiglio. E mio padre, per il quieto vivere, usciva di casa, per non manifestare la sua collera che io comunque percepivo e capivo che lo distruggeva internamente.
Soltanto una volta, uno o due anni prima di morire, non riusci’ a contenere l'irritazione. Nell’appartamento di mia zia erano in corso lavori di ristrutturazione. Per tutta la loro durata, quasi un mese, mia zia sarebbe venuta tutti i giorni a pranzare da noi. A mia madre non arrecava alcuna fatica cucinare o rigovernare. Ma non si accorgeva di quanto mia zia fosse invadente e maleducata e, quando di malumore o angosciata, anche esasperante. Mio padre la sopporto’ per una settimana, finche’ non ebbe l’occasione di rispondere sgarbatamente ad un suo intervento inopportuno.
Mia zia si offese e trovo’ un’altra “pensione”. Mia madre, che si rendeva conto dell’esistenza di un tormento solo se esso veniva manifestato, non cerco’ di convincere la zia a ritornare.
Dal momento che ero io il capofamiglia, avvertii l’esigenza di difendere il mio territorio. Non soltanto per cercare di rivendicare mio padre. Ma perche’ avevo bisogno di tranquillita’. Non sopportavo di assistere a sceneggiati di lamenti e flagelli da parte delle zie che, alludendo alla morte di mio padre, ripetevano: “Che febbre strana! Che sara’ stato? ”. Ed era assurda la stupidita’ che si palesava nella risposta che cercavano di darsi. “Magari e’ stata colpa degli uccelli! Ho sentito che portano malattie”. Infatti si riferivano ai canarini che avevamo in casa.
Dissi a mia madre che non sopportavo piu’ le loro visite. Quindi mia madre, per venirmi incontro, fu costretta a chiedere ai parenti di avvisare prima di venire, in modo che io potessi pacificamente evitarli. La mia ostilita’ nei loro confronti derivava dall’intolleranza per il turbamento della quiete familiare, dal timore della loro influenza su mia madre e della loro ingerenza nella gestione familiare. Inoltre, la loro presenza richiamava continuamente il malessere di mio padre, che ora vivevo in prima persona.
In particolare, intuivo che prima o poi avrei avuto occasione di rimproverare un mio parente per il danno economico che le sue vane promesse avevano causato a mio padre. E l’opportunita’ si presento’. Mio zio premeva per formalizzare per iscritto un accordo verbale intrapreso con mia madre anni fa. Io mi intromisi facendo attrito perche’ volevo tutelare mia madre e venire a conoscenza degli obblighi fiscali e legali. Non sopportando la sua insistenza, gli dissi per telefono cio’ che pensavo, cio’ che mio padre non ebbe il coraggio di dirgli. Provocai la sua adirazione. Suono’ il campanello di casa. Mia madre non lo fece entrare, temendo una reazione violenta, ma volle scendere nell’androne per parlargli. Rimasi sconvolta dalla prepotenza del parente e dalla minaccia del danno che avrebbe potuto arrecare. Decisi allora di andarmene di casa affinche’ mia madre si ricordasse dell’episodio e si allontanasse dal fratello.