venerdì 27 marzo 2015

Il "peccato originale"

Il bidone si era svuotato dell'oro. L'oro era stato messo al sicuro in cassaforte. Il bidone aveva accettato perché al momento l'oro era troppo delicato per essere esposto all'aria aperta vicino al bidone. Ma sarebbe ritornato accanto al bidone, una volta irrobustitosi, perché quella era la sua casa. Tuttavia il bidone era desolato, si sentiva privato dell'oro, anche se sapeva che era in buone mani.

La bimba era nel reparto Terapia Intensiva Neonatale Ospedaliera (TINO). Era in incubatrice e per fortuna non faceva nessun tipo di trattamento, tranne qualche flebo. Non aveva nessun problema e, in mancanza di peggioramenti, l'avrebbero dimessa quando avrebbe raggiunto almeno 1800 kg.

Il mio compagno mi descrisse la situazione e il reparto. Il personale era molto disponibile e competente. Avrei potuto star lì praticamente tutto il giorno. Avrei potuto allattarla, cambiarle il pannolino e tenerla in braccio, anche se gli intervalli fuori dall'incubatrice non dovevano essere troppo lunghi.

Chiesi se il giorno dopo avrei già potuto andare a trovare la bimba. “Sì, ma non prima del pomeriggio e a condizione che si faccia accompagnare da qualcuno in sedia.” Questa volta non avrei protestato per la sedia. 

Infatti tutte le volte che dovevo fare un esame, quando ero in reparto, chiedevo se fosse possibile camminare con le mie gambe e non essere trasportata in sedia a rotelle, visto che non era necessario. “Vi prego, per una volta che non sono legata alla flebo, vorrei camminare con i miei piedi, libera da cavi e non credete che con la sedia arriviamo prima. Inoltre, se siete d'accordo, una volta finito l'esame posso ritornare da sola in reparto senza che voi veniate a prendermi. Avete già tanto lavoro da fare e poi conosco la strada. Non avrei nessun interesse a scappare se è ciò che temete.” Le operatrici capivano che la sedia mi faceva sentire malata e sarebbe stata un ulteriore “schiaffo” alla mia indipendenza, che ormai era stata linciata. Pertanto mi lasciarono camminare.

Quella sera dormii serena. La ferita del cesareo minacciava, ma io non la sentivo. La mia vita si era risvegliata dall'anestesia. Il giorno seguente sarei stata impegnata con la bambina. Purtroppo formalmente non potevo essere dimessa prima di trentasei ore dal parto. Ma potevo comunque essere accanto alla piccola.

Il giorno dopo, gradualmente mi alzai. Che dolore, muoversi, ma ero felice. Presto sarei potuta tornare a casa, anche se purtroppo non con la piccolina. Nel pomeriggio andai a trovarla. Era molto piccola, ma bellissima. Aveva i sensori per il battito e la saturazione e la flebo. Mangiava ad orari e bisognava un po' forzarla, altrimenti le avrebbero messo il sondino. 

Venni presa dai sensi di colpa. Se la flebo le dava fastidio, se i prelievi le facevano male, se doveva mangiare per forza e non per fame come fanno i bambini di solito, se era costretta a star chiusa lì dentro era tutta colpa mia. Mi disprezzavo. Avevo sempre criticato mia madre perché da bambina mi aveva fatto mangiare troppo e la credevo complice dei miei disturbi alimentari. Però di fatto avevo commesso lo stesso errore, sbagliando nell'altra direzione. Se mia figlia avrà disturbi sarà solo colpa mia. Ma forse è inevitabile portarsi dietro ciò che ci lasciano i genitori: se il loro esempio ci piace lo imitiamo, se non ci piace esibiamo l'esatto contrario soltanto per distruggerne il condizionamento. Ma allora un genitore è già fallito in partenza: qualsiasi scelta che fa è sbagliata. E' questo il “peccato originale”?

La sera, durante l'orario di visita parenti, piansi pensando al mio cucciolo che non era lì vicino a me. Poiché dovevo riprendermi dal cesareo, mi sconsigliarono di recarmi di nuovo alla TINO. Allora mi nascosi la testa sotto il cuscino dalla vergogna. Mi credevo tanto virtuosa, ma alla fine non ero stata nemmeno in grado di nutrire mia figlia. Che razza di madre ero? Qualsiasi persona che aveva condiviso la mia stanza aveva tra le braccia il proprio figlio dopo aver partorito. Io invece no. 

Non mi fecero stare meglio neanche le visite che ricevetti, tranne quelle del mio compagno. In fondo erano venuti a trovarmi per educazione, perché in realtà non è me che volevano vedere, ma la bimba. E mi pesava sul collo il non poter farla vedere. Nessuno, a parte i genitori dei bambini ricoverati, era ammesso alla TINO. E su questo punto concordavo. Ma sentivo che era come se si ritorcesse contro di me “Per colpa tua non possiamo vederla. Come minimo devi darci sue notizie.” E mi pesava raccontare dell'incubatrice, dei sensori, degli altri bambini accanto a lei che erano molto più gravi, che soffrivano molto di più, ma per fortuna non per colpa delle madri. Io invece mi sentivo responsabile. “Non deve sentirsi in colpa” mi dicevano i medici. “Gli iposviluppi dei bambini spesso non si vedono subito e non sono sempre dovuti a cattive abitudini della madre”.

Dopo le visite dei parenti, mi ripresi. Sollecitai affinché mi togliessero il catetere urinario e, dopo, mi sentii meglio. Avevo ancora il catetere venoso centrale. Per la rimozione, che avvenne due giorni dopo il cesareo, dovetti firmare un foglio. Non mi fu ben chiaro il motivo, anche se mi fu detto che rimuovendolo era come rifiutare di continuare la terapia in caso ne avessi avuto bisogno nel puerperio. Pur di farmi rimuovere quel catetere avrei pure firmato “il dottore xxx è un coglione.” Ma per fortuna dottori di quel tipo non ce n'erano. Infatti nessuno pareva credere che ne avessi ancora bisogno, anche se la nutrizionista forse, per tutelarsi, mi consigliava quasi di tenerlo. Figuriamoci! E' mica un buco all'orecchio che, al limite, se non si mette l'orecchino si chiude da solo. Anche se non lo utilizzavo, avrei dovuto correre sempre in ospedale per la medicazione. E poi, dal momento che la bimba era nata, avrei preferito morire di fame piuttosto che continuare a nutrirmi artificialmente. 

Ma per fortuna la questione non si poneva. Dovevo riprendermi in fretta dal cesareo, farmi dimettere e tornare ogni giorno alla TINO per assistere alla piccola. Dovevo abbandonare i sensi di colpa, che non facevano che danneggiare ulteriormente la bimba. 

Nonostante tutto, non conosco nessun'altra madre che abbia dato così tanto amore ai suoi figli come mia madre. Non conosco madre migliore della mia. Quindi avrei fatto altrettanto.

I giorni successivi, il personale del reparto mi considerò molto di più come persona che come paziente. Mi chiedevano sempre notizie della bimba e non reclamavano se mi assentavo per ore. In fondo mi stimavano “lei è una persona in gamba” mi disse un'ostetrica “ha sempre fatto di tutto, durante la degenza, per migliorare la sua condizione, e quella di sua figlia”.

Chiusi quell'esperienza ascoltando “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd, liberandomi di tutte le “scorie” accumulate (anche in senso fisico perché dopo il cesareo è condizione necessaria per la dimissione).
“Come on you raver, you seer of visions,
Come on you painter, you piper, you prisoner, and shine!”

In totale, stetti ventitre giorni in quel reparto. Quando tornai a casa, per circa una settimana, mi svegliai di notte, tastandomi il braccio per vedere se avevo ancora la flebo.




martedì 24 marzo 2015

Pensavo fosse spontaneo e invece era un cesareo

Nonostante i risultati della terapia fossero evidenti, i medici volevano far nascere la bambina prima del termine. Avrebbero individuato il momento più opportuno sulla base dell'esito dei tracciati. Il tracciato è un esame che rileva la frequenza cardiaca del bambino e le contrazioni. In pratica dovevo stare sdraiata o semi-seduta, ferma per almeno venti minuti, con due sensori legati all'addome. Spesso l'esame durava molto di più, perché la mia bimba non stava ferma o dormiva. Da quando mangiava di più, era anche più addormentata.

La sera prima dell'ecografia per valutare l'accrescimento, il tracciato durò un'ora. Ero stanca e in ansia per l'esame del giorno dopo. Ci fu una decelerazione. I medici non volevano “staccare” il tracciato, se non erano convinti che fosse tutto sotto controllo. Non ne potevo più. Il mio intuito mi diceva che non c'era nulla di cui preoccuparsi e quindi volevo solo che mi lasciassero riposare. Infatti la bimba si muoveva in continuazione e già altre volte si perdeva il segnale.

Ma c'era un modo per influire sul tracciato? Se la bimba era addormentata, potevo favorire il risveglio? Allora ascoltai della musica. Solitamente durante il tracciato non ascoltavo nulla perché mi piaceva sentire solo il suo battito. Ma ora quel battito mi metteva ansia e dovevo calmarmi. Cosa potevo ascoltare tra le canzoni che avevo nel repertorio? Ci voleva qualcosa di tranquillo, riposante, ma che al contempo desse energia e vitalità. Mi venne in mente la canzone Beppe Anna della Bandabardò: “Attenziò, Concentraziò Ritmo e Vitalità, Devo dare di gas, voglio energia, metto carbone e follia se mi rilasso, collasso mi manca l'aria e l'allegria.” “Odio il pigiama e vedo rosso, se la terra mi chiama non posso, restare chiuso fra quattro mura, ho premura di vivere perciò...” Era la canzone giusta. La bimba si riprese e staccarono il macchinario.

I giorni che seguirono, i medici aumentarono il livello di guardia. Un “losco” anestesista mi fece firmare, preventivamente, un foglio per il consenso al cesareo. Fino a quel momento avevo sperato di poter aver un parto spontaneo. Avrei continuato la terapia il più a lungo possibile per evitare che la bimba nascesse prematura. Avrei sofferto di più per risparmiarle eventuali sofferenze. E invece ero alla trentaquattresima settimana e molto probabilmente non sarei arrivata alla trentacinquesima e mi avrebbero fatto il cesareo. Ricordo che prima di finire in ospedale, avevo quasi intenzione di partorire a casa. E invece chissà quando sarei tornata a casa e chissà se da sola o con la bimba, perché se fosse nata troppo piccola come pareva, sarebbe stata in incubatrice.

La terapia di flebo continuava, ma non era determinante come i risultati dei tracciati, che dopo quella sera andarono benissimo. La musica mi aiutava. Dopo due giorni, però ci fu un altro falso allarme, anche se l'ostetrica notò che poteva essere dovuto alla postura sbagliata che avevo assunto. Tuttavia, il battito riprese bene e mi staccarono poi il macchinario. Stavolta però era stato necessario cambiare musica. Probabilmente la bimba era scocciata di essere disturbata in continuazione da quei sensori e anche io non ne potevo più di stare sempre ferma con quelle cinture elastiche strette alla pancia. Ci voleva una canzone “dura”, che esprimesse rabbia. Trovai subito quella giusta: St.Anger dei Metallica. “St. Anger 'round my neck, He never gets respect” “(You flush it out, you flush it out)” “Fuck it all and no regrets, I hit the lights on these dark sets, I need a voice to let myself, To let myself go free” “I feel my world shake” “Is it me? Is it fear?” “I'm madly in anger with you, I'm madly in anger with you, I'm madly in anger with you” “And I want my anger to be healthy” “Yeah and I want my anger to be me” “And I need to set my anger free” “Set it free”.


“La tua bimba si è ripresa molto bene.” mi disse un'ostetrica giovane che ormai mi dava del tu. “Il segreto è ascoltare i Metallica”. Sorrise. Provai una volta anche a riferire ai medici che la musica che ascoltavo influiva sul tracciato. Ma furono piuttosto scettici. Comunque non mi interessava che non ci fosse nessuna base scientifica, visto che per me funzionava e mi aiutava.

Alla trentaquattresima settimana più cinque giorni, feci un ecodoppler. Quel giorno mi venne anche un po' di febbre, ma forse perché avevo preso un colpo d'aria. Dall'esame emerse che il liquido amniotico si era ridotto. “Alla luce di questo risultato e visto che i tracciati forse cominciano a segnalare l'inizio di una possibile sofferenza fetale, domani facciamo il cesareo.” Non ci credevo. Avevo paura che la bimba potesse avere dei problemi, ma tuttavia ero tranquilla e forse sarebbe stato meglio metter fine a quella tortura. 

“Ti prego, non dire niente a nessuno, neanche ai tuoi” chiesi al mio compagno. Volevo esser serena, affrontare tutto da sola, non volevo parlarne con nessuno. Il silenzio mi avrebbe aiutato. Il silenzio mi avrebbe dato coraggio. 

Quella sera però, nonostante i Metallica continuassero a influire positivamente sul tracciato, i medici decisero di anticipare il parto. “Meglio che facciamo subito il cesareo.” “Ora?” “Sì.” “Ma ho già fatto cena.” “In certi casi il digiuno non è indispensabile.” “OK. Posso chiedervi solo di aspettare un quarto d'ora perché sta per arrivare il mio compagno e vorrei che lo sapesse e vedesse la bimba appena nata.” Alle ostetriche e infermiere faceva comodo portarmi subito in sala. “Ma cosa aspettiamo, è urgente, è la tua bambina.” Io insistetti perché non pensavo che un quarto d'ora avesse stravolto tutto. Il medico mi diede ragione. “Possiamo aspettare”. Nel frattempo, mi prepararono per la sala. Il mio compagno arrivò. Ero pronta per affrontare il cesareo.

Mi portarono in sala. Ero serena. Tutto sarebbe finito. ”Ora le farò un po' male.” “Non penso mi faccia più male di quanto ho già sofferto.” “Me lo dirà dopo.” Mi fece un altro buco. Avrei preferito non me lo avesse fatto, ma non fu nulla in confronto a quelli che già avevo dovuto sopportare. “Fossero tutte come lei” mi rispose l'anestesista. L'altra anestesista, che già avevo conosciuto perché mi aveva inserito il catetere venoso centrale, invece continuava a toccarmi la schiena per cercare il posto migliore per l'anestesia epidurale. “Mamma mia che brutta schiena che hai. Per fortuna che sei bassa, così non si nota”. “Già, per fortuna. Come direbbe mia madre Dio vede e provvede.” Ma in quel momento non era la schiena a preoccuparmi, se non per il fatto che aspettava di ricevere la puntura. Avevo poi smesso di farmi i complessi per la statura da circa diciotto anni. Quindi sorrisi.

Mi legarono e iniziarono a trafficare. Io ero talmente rilassata che quasi mi addormentai. Ad un certo punto apparve Ganga, il più bel mostriciattolo che avessi mai visto. “Ngueeee Ngueee.” Strillava proprio bene. Non aveva nessun problema. Pesava solo 1260 g. E questo però sarebbe bastato per tenerci lontane per un po'. Piansi. Volevo abbracciarla, ma avevo le braccia legate. Allora le diedi un bacino sulla guancia. Poi non la vidi più.

Finito l'intervento, mi toccai la gamba sinistra. Era paralizzata. Al tatto sembrava una sacca di carne sottovuoto. “E' normale, chiesi? Sento bene l'altra gamba invece. ” “Sì, non si preoccupi. Aspettiamo che riprenda sensibilità e la portiamo in reparto”. Ero ansiosa di rivedere il mio compagno e chiedergli dove avevano portato la bimba. Feci di tutto per accelerare il processo di “risveglio” della gamba, muovendola e pizzicandola.

Poco dopo mi riportarono in reparto. “Dov'è la bimba? L'hai vista mentre la portavano?”





giovedì 19 marzo 2015

Anestesia

“Lei non ha nessun problema, né disturbo. Forse a volte ha la cattiva abitudine di scherzare col fuoco, ma sa benissimo quando e come smettere. Vedo che ci tiene molto a questa gravidanza”. “Certamente, farei qualsiasi cosa” e poi, pensai, cattive abitudini non significa mica cattive persone.” Pertanto non le prescrivo nessun tipo di psicofarmaco. L'avverto soltanto che il catetere venoso centrale potrebbe darle molto fastidio. Non credo invece che lei possa avere problemi di depressione. Semmai potrebbe sentirsi giù di morale, ma lei ha carattere”. Fu questa la conclusione dello psichiatra.

La soluzione che mi proposero per far crescere la bimba senza danneggiarmi lo stomaco fu quella della nutrizione parenterale, cioè della somministrazione di nutrimento per via endovenosa. In pratica però non si trattava di una normale flebo. Mi portarono nel reparto di anestesia e rianimazione e mi inserirono un catetere in una vena centrale. Partirono dal braccio e sentivo che trafficavano fino al livello del collo. L'inserimento non fu troppo doloroso, ma fu terribile sentire che manovravano con le mie vene e dicevano cose del tipo “ma così terrà?” “aggiustalo un po'” “accorcia di là” … Poi mi fecero una radiografia al torace per vedere se fosse ben posizionato. Dopo un ritocco, il catetere era apposto.

La terapia consisteva in 24 ore su 24 attaccata ad una pompa ad infusione. Per andare in bagno o muovermi un po', potevo staccare la presa dalla corrente, ma avevo un'autonomia di circa 20 minuti. Poi dovevo riattaccarmi.

Dipendevo completamente sia da una flebo che dalla corrente elettrica. Se muovevo troppo il braccio, cosa che succedeva spesso, la pompa si inceppava e dovevo chiedere assistenza.
Oltre a nutrirmi artificialmente, dovevo mangiare regolarmente. I primi giorni stetti un po' male: mi doleva il collo, sudavo, avevo mal di testa e dopo i pasti mi sentivo scoppiare. Poi mi abituai. Fare la doccia completa era impossibile. Mi lavavo a pezzi e per cambiarmi dovevo chiedere se mi staccassero un attimo dalla pompa.

La nutrizionista mi aveva sempre vietato di mangiare l'insalata per evitare il rischio della toxoplasmosi. Però non fece nessuna menzione delle potenziali infezioni mortali che avrei potuto prendere con il catetere né del rischi a cui potevo andar incontro. Se mi avesse danneggiato la vena, la mia vita sarebbe stato un caro ricordo per chi mi conosce. Ma non ci pensai. In questi casi bisogna solo fidarsi, ma fidarsi è bene, rompere è meglio. Gli anestesisti mi avevano detto che mi avrebbero cambiato la medicazione una volta alla settimana e nel reparto avrebbero dovuto farmi il lavaggio due volte al giorno. “Mi raccomando: se nel reparto si dimenticano, glielo ricordi lei.”
Devo confessare che ho dovuto stressare perché altrimenti mi avrebbero trascurato. In effetti capivo che quello non era un reparto dove quotidianamente avevano a che fare con quegli aggeggi. Inoltre bisogna riconoscere che il personale fa turni da 12 ore. Mi chiedo come possano reggere questi ritmi. Penso anche all'incoerenza di promuovere la salute, quando i medici, gli infermieri e operatori sono costretti a stili di vita poco salutari. Così come i nutrizionisti vietano assolutamente di saltare i pasti (ma loro come fanno a mangiare regolarmente con quegli orari?).

Il primo giorno che iniziai la terapia andai in crisi perché, dopo aver ispezionato nella stanza dove stavo quante prese c'erano e aver studiato come muovermi con quell'aggeggio, mi dissero che avrei dovuto cambiare collocazione. Mi avrebbero spostato in una camera con tre letti, anziché due come quella in cui ero. Mi sentii per qualche minuto desolata e smarrita. E purtroppo in quel momento entrarono i medici per la visita. Fui un po' scontrosa e subito accorse la psicologa. “Possibile che non si possa neanche piangere senza bisogno di chiamare la psicologa o di ricorrere a sedativi. A voi non capita mai?” Chiesi se potevo restare per un momento da sola. Poi in un attimo raccattai la mia roba e mi feci aiutare per portarla nell'altra stanza. Le operatrici furono stupite “nessuno è mai stato così veloce come lei” “il segreto è aver poca roba”. Chiesi poi scusa ai medici e tutto si risolse. In fondo i medici ti capiscono, anche se spesso si dimenticano che non è solo la medicina a far star bene un paziente. Il cambio di stanza portò disguidi anche nelle ordinazioni dei pasti. Ma poi non ebbi più inconvenienti, a parte la tortura della flebo.

La nuova stanza era comunque dotata di prese comode. In una attaccavo la pompa, nell'altra il computer. Il bagno invece era più piccolo e scomodo e dovevo fare un po' più fatica ad entrare. Tuttavia preferivo quella stanza perché la finestra si affacciava sul cortile, da cui si vedeva bene la collina. Sembrava una cartolina che cambiava colore solo a seconda del tempo meteorologico e dell'ora. Infatti non si vedevano persone, né auto, nulla che si muoveva. Ciò si intonava di più con il mio stato d'animo. La mia vita sembrava in anestesia. Ferma, svuotata di tutte le esperienze che aveva avuto, ma che attendeva soltanto il risveglio per riprendere daccapo e farne di nuove.

Esteriormente mi stavo riempendo, la pancia cresceva, così come il mio peso, ma internamente mi svuotavo. Non ero nulla e non mi importava di nulla tranne che quella terapia servisse a far crescere la bimba. I medici mi vedevano rifiorire: il mio colorito era più roseo e il mio aspetto migliore. Ma dentro mi sentivo marcire. Ammazzavo il tempo. Non riuscivo a leggere, né a scrivere. Dovevo solo prendere nota di ciò che mangiavo, che ricopiavo dalla lista scritta ad ogni pasto che mi portavano. Avrei potuto scrivere un romanzo in tutto quel tempo trascorso, ma riuscii solo a scrivere questa frase “Tu crescevi e nessuno si accorgeva di te. Dal momento in cui tutti han cominciato ad osservarti, allora hai smesso di crescere.” Nemmeno guardare film mi consolava: se erano comici non mi facevano ridere, se erano drammatici mi facevano stare ancora peggio.

Quando arrivavano i parenti delle mie compagne di stanza che avevano partorito, avrei voluto infossarmi. E invece non potevo neanche uscire dalla camera. Il corridoio era pieno di gente e non c'era un posto tranquillo dove potermi sedere con accanto una presa di corrente elettrica. Ed allora stavo a letto, ascoltando la musica, tutta coperta con le lenzuola per non farmi vedere che piangevo. Piangevo perché mi sentivo diversa, aliena a tutto quello, aliena alla vita e diversa perché non avevo ancora tra le braccia la mia piccola.

Volevo stare isolata perché l'isolamento è spesso un rifugio per non sentirsi diversi in mezzo agli altri. Stare isolati non vuol dire necessariamente star da soli. Infatti si può star isolati insieme a tante persone che condividono la tua sensazione di diversità (ad esempio i ghetti di persone immigrati in altri paesi). Penso che, a differenza di ciò che si crede, tutti vivano isolati in gruppi, Anche la famiglia è una sorta di isolamento. Pochi però riescono a star da soli, che è diverso da stare isolati.

Purtroppo non potevo permettermi di stare da sola e allora volevo stare isolata. Ero anche isolata quando parlavo con le altre pazienti che dovevano ancora partorire. Infatti avevamo in comune la gravidanza,anche se la mia situazione era diversa. Una volta che partorivano, invece nulla più ci accomunava.

Quando il mio compagno veniva a trovarmi, non volevo che si fermasse troppo a lungo. In primo luogo perché rispettavo il suo tempo. In secondo luogo perché non permettevo che condividesse il mio isolamento. Infatti lui faceva parte della mia vita e allora preferivo che andasse a casa a preservare il luogo dove sarei ritornata a vivere con lui e la bimba. Avrei gradito, al risveglio della mia “anestesia”, ritrovare tutto nello stesso ordine e stato in cui era prima del ricovero.

Dopo dieci giorni di terapia mi fecero l'ecografia per valutarne i benefici. Ero contenta, i risultati erano positivi: la bimba aveva ripreso a crescere. Tuttavia c'era qualcos'altro che adesso allarmava i medici.


venerdì 13 marzo 2015

Gravi-degenza

17.45, 31 settimane + 6 giorni di gravidanza. Ero alla stazione e dovevo ancora prendere il treno. Arrivai a casa intorno alle 19. Fu l'ultima sera che rincasavo col pancione.

Sul treno cominciai a preoccuparmi per quello che mi aveva detto la dottoressa “la bimba è un po' piccina. Sembra che il suo sviluppo sia fermo al settimo mese. Comunque potrei sbagliarmi. Per questo motivo domani ti consiglio di andare a farti vedere.”

In effetti da un po' di tempo non mi sembrava di aver preso peso. Anzi mi vedevo più magra, seppur la pancia fosse sempre uguale o più grossa. In effetti nell'ultimo mese avevo fatto più attività fisica ed ero così distratta dal pensare di aver tutto in ordine in casa che non mi curavo di quanto mangiavo e se mangiavo a sufficienza. Pensavo ormai che la bimba si fosse già formata bene e che quindi non dovevo controllare l'alimentazione. D'altro canto la dottoressa mi aveva detto di pesarmi, ma non mi aveva detto di quanto avrei dovuto aumentare di settimana in settimana per non preoccuparmi e nemmeno mi aveva dato indicazione su quanto avrei dovuto mangiare. Eppure le avevo accennato dei miei disturbi alimentari in passato, ma forse l'avevo convinta (e ne ero convinta anche io) che fosse tutto finito. Ora mi rendevo conto che comunque avevo sempre paura di mangiare più del necessario, ma non di meno. Ero sicura di sapere quanto fosse il necessario?

Avevo giurato a me stessa, quando seppi della gravidanza, che avrei fatto di tutto per non far soffrire mia figlia di problemi di alimentazione né di peso: l'avrei fatta mangiare il giusto a seconda delle tabelle e di più se soltanto lei me lo avesse chiesto. Non le avrei imposto nulla, ma soltanto promosso un'alimentazione corretta. Però forse sottovalutavo che tutto inizia in gravidanza. Dovevo abbandonare quella lotta con me stessa. Adoravo quella pancia perché sapevo che non era grasso, ma forse senza rendermene conto non volevo creare delle riserve solo per me, non destinate cioè a lei. Ma forse quelle riserve dovevo averle. Ma possibile che pur sapendolo e sapendo anche che bastava mangiare un po' di più non l'abbia fatto? Avrei dovuto scrivere una dieta e seguirla. E invece no. Avevo lasciato correre. A volte pur sapendo dove sbagliamo ci lasciamo trasportare dall'errore un po' per sfida, un po' per inerzia, un po' per lassismo o forse per assenza.

Comunque abbandonai i sensi di colpa e i pensieri negativi. Ripensai al sogno. Anche se fosse stato vero, se fosse successo qualcosa, mio padre mi diceva che si sarebbe risolto tutto, anche se … chissà cosa avrei passato. Decisi di non pensarci più e di passare la serata e la notte tranquilla.

La mattina dopo mi recai in ospedale.“In effetti la bimba è molto piccola per l'età gestazionale. Il resto sembra tutto a posto. Io la ricovero perché comunque la sua gravidanza è a rischio.” A rischio di cosa? Non capivo. “Mi ricoverate domani?” “No, subito” “Posso almeno passare a casa a prender la roba?” “No, la roba se la fa portare”. La dottoressa non capiva quanto fosse importante per me non scomodare nessuno e passare a casa, visto che comunque la situazione non mi sembrava così grave. “E quanto tempo dovrei stare?” “Ah non lo so. Ragazza mia, qui si sa quando si entra, ma non quando si esce.”Continuavo a non capire: “Ma se devo seguire qualsiasi dieta giuro di farlo anche a casa. Ho sottovalutato il problema, ma ho già imparato la lezione. Devo ricoverarmi per forza, subito?” “Sì, dobbiamo monitorarla. Prima proviamo con la dieta e vediamo se la bimba cresce. Altrimenti dobbiamo farla nascere e farla crescere fuori. Deve stare qui perché i tracciati ci indicheranno il momento giusto per intervenire. Certo, se le cose vanno bene noi preferiremo che la bimba stia dentro il maggior tempo possibile perché altrimenti ci sarebbe il rischio di problemi respiratori.” Era meglio non far troppe domande per non farsi venire troppe preoccupazioni.

Il mio istinto mi diceva che la bimba non aveva nessun altro problema, se non che fosse piccola e che pesasse poco. In ogni caso non potevo far valerne la presunzione e mi affidai completamente a loro.

Non ero più dipendente ora e non mi sentivo neanche libera. Quindi mi sarei sentita morta. Rimasi incredula. Fino al giorno prima me ne andavo a spasso e adesso non potevo più tornare a casa. Ma contava solo la bimba. L'importante era fare il possibile per lei, anche a costo di morire.

Avvisai il mio compagno del “sequestro” e gli dissi di portare la borsa che avevo già preparato. “Fai pure con comodo. Tanto qui mi sa ci starò per molto.”

Il primo giorno, in mancanza di disponibilità di un letto in una camera normale, mi piazzarono in sala tracciati, una stanza dove tengono le macchine per fare gli esami. Per fortuna non ci furono urgenze e non mi disturbarono. Altrimenti avrei potuto passare giorno e notte con donne che urlavano dal dolore aspettando di entrare in sala parto. Donne che comunque in quel momento avrei invidiato. Tuttavia non mancarono il disagio e il senso di abbandono.

La sera prima di cena, dopo un'intera giornata di confusione e smarrimento, riuscii per pochi istanti a rilassarmi e a leggere un libro. Ad un certo punto guardai l'ora. Avrebbe dovuto arrivare il pasto, ma non arrivava. Passò quasi un'ora. Poi uscii fuori e vidi già i carrelli vuoti. Chiesi alle donne delle altre stanze se avevano già mangiato e mi risposero affermativamente. Mi venne il nervoso: "vogliono che stia qui, anziché a casa per mangiare e vedere quanto mangio e poi non mi portano la cena?" Andai a bussare in cucina.

“Ci scusi è che nella lista dei pasti non c'era il letto in sala tracciati e ce ne siamo dimenticati. Le porto subito la cena.” Dopo un po' arrivò col vassoio. Era abbastanza freddo. Non riuscii a terminare il pasto, pur sforzandomi, perché solitamente non riesco a mangiar la carne se non è ben calda. Piansi.

Mi sentivo sconfortata: chissà quanti giorni avrei dovuto passare così. Pensai a quanto sia inutile parlare con nutrizionisti e psicologi quando non mangiare e stare male è dovuto a scarsa collaborazione del personale dello stesso reparto. Il vassoio rimase lì. Mi dava fastidio sentire l'odore di quella roba, ma l'ostetrica mi aveva detto che sarebbero passate le operatrici a portarlo via. Ma non passava nessuno.

Decisi di alzarmi e farmi valere. Presi il vassoio e bussai in cucina: “Riporto questo. Potevate almeno scaldarmelo visto che vi eravate dimenticate di portarmelo.” L'operatrice mi guardò con una faccia stupita. “Ma io l'ho scaldato”. Io la guardai come per dire “Voglio vedere se a casa tua lo scaldi così”. Poi dissi qualcosa come “e poi pretendono che mangi.” Tornai in camera. Pensai che avrebbero potuto portarmi un formaggio in alternativa. Per compensare, bevvi un intero integratore sostitutivo del pasto. Me l'aveva dato la nutrizionista, anche se mi aveva detto di provare con qualche sorso.

Un altro inconveniente fu il bagno. Nella sala tracciati c'era, ma era chiuso a chiave perché riservato al personale. Di giorno avevo chiesto se potevo usarlo, ma mi avevano risposto negativamente. Dovevo recarmi al bagno della camera di fronte, disturbando le pazienti ricoverate e i loro bimbi. In più avevo il contenitore puzzolente delle urine delle 24 ore dove dovevo trasferirvi ciò che facevo. Provai a dormire, ma con quel contenitore sotto il naso fu molto difficile. Entrò un'ostetrica che sembrava comprensiva. Mi chiese come stavo. Le raccontai l'episodio della cena e mi capì. Poi vide il contenitore. “Devi dormire pure con quell'affare. In effetti, non saprei dove spostartelo”. Colsi la palla al balzo. “Vorrei chiederle se fosse possibile, solo per questa notte, avere le chiavi di quel bagno. Spesso mi alzo per urinare. Mi spiace entrare a svegliare e disturbare le pazienti e i bambini della camera di fronte. In più c'è anche il rischio di portare batteri trasportando questo affare. Io ci sto attenta, ma potrebbe cadermi di notte, perché per non disturbare non accenderei neanche la luce.” Convinsi l'ostetrica. “Adesso vedo cosa posso fare.” Arrivò con le chiavi e così lasciai il contenitore in bagno. Ero soddisfatta. Le mie richieste erano state ascoltate.

Riuscii a dormire due ore. Poi mi svegliarono per prendere qualcosa nella sala. Alle tre di notte feci un giro del reparto. Le foto dei bambini nel corridoio mi facevano piangere anche se mi sollevava leggere che qualcuno di quei bellissimi bimbi alla nascita pesava sotto i due chili. Mi toccavo la pancia. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei.

Il giorno dopo mi diedero un letto in una camera normale. Fu molto meglio.

La routine giornaliera fu sempre la stessa: notte insonne con sottofondo di pianti che coprivo con la musica in cuffia. Poi, quando riuscivo ad addormentarmi mi svegliavano: “Ragazze avete messo il termometro?” E no che non l'avevo messo: dormivo. Misuravano la pressione, il peso, il battito del bimbo. Arrivava la colazione. Mi lavavo. Poi iniziavo con il primo tracciato. La visita dei medici. Pranzo. Poi estranei in camera (visita parenti). Secondo tracciato. Poi termometro. Di nuovo estranei in camera. Cena. Tracciato. Poi sonno-veglia sonno-veglia sonno-veglia.

Le mie consolazioni delle giornate iniziali furono: le visite del mio compagno, la musica, la doccia, le passeggiate in corridoio e negli altri piani, il computer e internet che mi facevo portare da casa, i film, libri, la settimana enigmistica. Era comunque insopportabile farsi servire, aspettare sempre gli operatori, i medici, le ostetriche, ma soprattutto non sapere nulla né sul parto, né sulle dimissioni.

Alla data presunta del parto mancavano ancora poco meno di 8 settimane. Rischiava di diventare veramente eterna quella degenza.

Dopo circa cinque giorni mi abituai anche a dormire. Ormai, le urla e i pianti non mi disturbavano più. Non ebbi più problemi a mangiare e finivo tutto. Gli integratori proteici invece mi davano fastidio. Procedeva tutto bene, ma bisognava intervenire diversamente. Non avrei potuto mangiare di più per non avere problemi di stomaco. Pertanto trovarono un'altra soluzione per nutrire direttamente la bambina. Una soluzione che richiese il coinvolgimento del reparto di anestesia e rianimazione. Mi fu allora perfettamente chiaro il sogno e la parola “Anestesia.”


mercoledì 11 marzo 2015

Carry-era (17.45)

Quando feci la prima visita specialistica, da un medico consigliatomi da un'amica anche lei incinta, ero già alla ventesima settimana. La mia gravidanza non era convenzionale: non avevo l'agenda ostetrica. E mi sentivo quasi come una bambina che inizia la scuola quando già metà del programma è stato svolto. Per “recuperare” e fare d'urgenza alcuni esami nell'ospedale dove volevo partorire, il medico scrisse una lettera al responsabile del reparto illustrando il mio caso. Senza quella lettera, sarei stata respinta per questioni burocratiche e amministrative. (Qui nascono spontanee domande con la stessa risposta: “that's Italia”, ma in questa sede sorvoliamo). 

Da un lato penso comunque di aver preferito saperlo così tardi: mi sono risparmiata un bel po' di prelievi, visite, ulteriori mesi di attese, paure, privazioni dovute al fatto che quasi ti mettono in testa di esser malata solo perché sei incinta.

Il mio istinto mi aveva portato naturalmente ad evitare farmaci, cibi potenzialmente pericolosi e a riposarmi. Tuttavia non avevo mangiato molto, seppur bene, per colpa della nausea e di dolori vari.

Mi stupiva che questa creatura avesse potuto formarsi nonostante il mio stato di salute debilitato e l'alimentazione scarsa.

E cresceva bene: gli ulteriori esami che feci esclusero problemi di malformazione o di sviluppo.

“I bambini nascono e crescono malgrado noi” mi disse la dottoressa che mi fece l'ecografia morfologica. Aspettavo una bambina.

Cominciai a leggere alcuni libri sul parto e di puericultura. Volevo arrivare preparata e farmi un'opinione personale, così non avrei accettato consigli sbagliati solo per ignoranza. Inoltre non volevo cadere nelle trappole del marketing sui prodotti per bambini. Davvero serve tutta quella roba che ti propongono? No di certo. E poi i bambini non sono una categoria a parte, ma sono soltanto cuccioli d'uomo. Ti fan quasi credere che servano dei guanti apposta solo per toccarli. 

E poi non parliamo dell'ossessione di dover comprare tutto nuovo, quando nei negozi di seconda mano si trovano di fatto articoli nuovi che sono stati portati lì solo perché si son ricevuti troppi regali o perché sono stati fatti acquisti superflui. 

Non volevo che nessuno avesse potuto condizionare le mie idee e impormi uno stile diverso dal mio. Soprattutto, volevo fare i primi acquisti quando mi sentivo pronta, mediando tra il non voler comprare tutto subito per evitare previsioni sbagliate e il non aspettare all'ultimo momento per evitare che la fretta scegliesse per me. Sarei andata in crisi se qualcuno fosse arrivato con degli articoli che in casa non ero pronta a ricevere.

Nonostante mi sentissi sicura di me e del mio carattere, temevo che qualcuno o qualcosa avesse potuto portarmi via il mio tesoro una volta nato. Quindi andavo in panico se sentivo qualcuno che aveva interesse alla bimba, ad eccezione del mio compagno, accennare discorsi tipo “e poi chi la tiene? Tu? Sola? Ti sei informata per il nido?” Erano questioni che potevano mettere in dubbio le mie capacità e la mia adeguatezza nel ruolo di madre. E poi era troppo presto per parlarne.

Per gestire meglio lo stress che alcuni mi mettevano, sommato all'ansia che non ci fossero complicazioni prima, durante e dopo il parto, facevo esercizi di rilassamento, indicati in uno dei libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca. 

Non mi spaventava invece il dolore del parto, visti tutti i dolori delle coliche biliari che avevo patito. E poi la gioia di stringere la bimba in braccio avrebbe compensato qualsiasi sofferenza. All'inizio temevo di non saper individuare il momento giusto per recarmi all'ospedale, ma poi mi convinsi a lasciarmi guidare dall'intuito.

Avevo poi iniziato il lavoro. Mi trovavo bene e mi piaceva, anche se forse l'avrei apprezzato di più in un altro momento. Tuttavia mi distraeva dalla gravidanza, anche se, devo ammettere, d'altra parte la gravidanza mi distraeva dal lavoro.

Tutto procedeva bene, anche se ero sempre un po' infastidita quando mi chiedevano come andava perché quando dicevo bene avevo un po' paura che poi qualcosa non andasse più bene. Il classico proverbio in questo caso diventava: “Non dire quattro se non ce l'hai fuori dal sacco.”

Dal settimo mese in poi la stanchezza si ridusse. E mi sentii molto meglio. Quasi correvo di nuovo al posto di camminare. Mi autorizzarono a lavorare fino all'ottavo mese. Ad un certo punto, cominciò a venirmi l'ansia di dover aver tutto pronto in casa. Alla trentunesima settimana avevo già la valigia pronta. Mi chiesi perché, perché quella fretta. Perché ora ero più distratta dal preparare che dall'essere preparata per il parto? Perché avevo paura di non aver tempo? Perché pensavo meno a mangiare come prima?

Intorno al settimo mese feci un sogno. Sognai mio padre che indicava un orologio. Erano le 17.45. Mi diceva che qualcosa sarebbe successo quando mi sarei trovata su un mezzo pubblico dopo quell'ora. Mi diceva che si sarebbe poi risolto, ma mi toccava subire qualcosa. “Anestesia” mi diceva.

La mattina dopo fui un po' sconvolta. 

Eppure la bimba scalciava come una matta. Non c'erano poi ragioni per temere il cesareo perché si era già ben posizionata. Cercai di rimuovere il sogno. Ricordo di non aver dato nessun peso ad un altro sogno che feci quando ancora non sapevo della gravidanza, in cui mia madre mi diceva che ero incinta. Ed io, come ero solita risponderle quando mi diceva, in vita, che dovevo credere ai sogni le dicevo: “Mamma, non dire boiate.” 

Preferisco non credere ai sogni per non condizionarmi negativamente. In effetti però neanche la scienza sa perché noi sogniamo e se i sogni condizionano ciò che ci accade oppure se ciò che ci accade condiziona i nostri sogni, come è più ragionevole pensare. 

Tuttavia non presi mai l'autobus dopo le 17.45, non per scaramanzia, ma perché dopo quell'ora ero stanca per uscire e volevo starmene a casa. L'ultimo giorno della trentunesima settimana andai dal ginecologo. “La bimba sembra un po' piccina, per sicurezza fatti vedere domani. Ti scrivo un'altra lettera per farti fare una visita in ospedale.” 

Mi recai alla stazione ferroviaria. Il treno stava per partire. Mi affrettai, ma lo persi. L'altro passava dopo mezz'ora. Guardai l'orologio della stazione. Erano le 17.45.


sabato 7 marzo 2015

Il bidone pieno d'oro

Il bidone è un contenitore il cui valore e uso sono attribuiti dalla società.
Il bidone è il cesso dei borghesi e la cucina dei barboni.
Il bidone è l'esperto dei rifiuti.
Il bidone è tuttologo.
Il bidone si espone alle intemperie e alle offese pubbliche.
Il bidone trascura l'apparenza per concentrarsi sul contenuto.
Il bidone viene allo stesso modo considerato, anche se viene pulito e disinfettato.
Il bidone è sempre uguale esteriormente, ma cambia sempre internamente.
Il bidone non cresce di dimensione, ma si riempie fino all'orlo e poi si svuota per riempirsi di nuovo.
Il bidone non ama gli oggetti materiali e quindi ne assorbe i rifiuti.
Il bidone raccoglie, ma non produce spazzatura.
Il bidone mostra l'essenza delle cose senza processarle.
Il bidone resta isolato perché mostra ciò che la gente non vuol vedere.
Il bidone accoglie tutti finché è pieno, poi li butta fuori.
Il bidone non fa discriminazioni, se non a fini ambientali.
Se non ci fossero i bidoni le case sarebbero bidoni e le strade pure.
Se non ci fossero i bidoni, tutto (o niente) sarebbe spazzatura.

Agli occhi di qualcuno, nella famiglia acquisita, credo di essere sempre apparsa come un bidone, interessata più ai rifiuti della società piuttosto che alla società stessa. Un bidone, perché non ha paura di esporsi in strada. Un bidone perché ricco di ciò che la gente comune non apprezza. Un bidone perché non cura l'aspetto esteriore e nemmeno “l'etichetta”. Un bidone perché non usa mezzi termini. Un bidone perché ha tutto, ma non produce nulla che venga venduto. Un bidone perché preferisce puzzare di verità che profumare di ipocrisia.

Un bidone che ad un certo punto si è scoperto contenesse l'oro. E allora tutti a curarsi del contenitore, che sempre bidone rimane però. Tutti a cercare di mettere al riparo dalla strada quel bidone, soltanto per proteggere l'oro. Il bidone però, a differenza di ciò che è avvenuto con gli altri contenuti, non vuole abbandonare l'oro una volta svuotatosene. Vuole tenersi accanto il suo tesoro. Quell'oro che, una volta uscito dal bidone, vorrebbero mettere al sicuro ed educare in un luogo più idoneo: un forziere. Ma non comprendono che l'oro ha bisogno del bidone perché è lì che è stato concepito.


venerdì 6 marzo 2015

La fiction

“Lei aspetta un bambino.” “Aah sì?” Restai attonita. “Guardi.” E guardai il monitor con distacco e discrezione, come quando guardo per la prima volta un database da analizzare.

L'assistente in sala mi guardò indignata come se rimproverasse un ragazzino che avesse combinato una bravata: “Ma lei non si rende conto del danno che avremmo potuto fare al bambino se avessimo proceduto con l'esame.” La guardai con innocenza e stupore: “Ma lei forse non si rende conto che non sapevo nulla. Però so chi è il padre, non si preoccupi”. Sembrò sollevata. “Però non so come dirlo al lavoro, visto che devo iniziare tra due giorni, e proprio ieri ho firmato il contratto.” A quel punto mi guardò come se volesse dire: “Ragazza mia, sei un disastro!”

Accorse tutto il personale del reparto. “Un bambino! Complimenti! Ma è maschio o femmina secondo voi?” “Io vedo il pisello.” “Tu vedi il pisello dappertutto”. Risate. Sembrava stessero assistendo ad una fiction. “E' il bambino del reparto. Ci sentiamo anche noi genitori. A proposito, ma il padre è già stato avvisato?” “Ce lo fa battezzare?” “Ma come è possibile che non sapeva nulla?” “Guardatela, in effetti non si vede proprio che è incinta.”

Ad un certo punto la dottoressa cambiò canale: ora trasmettevano il reality show. “Si faccia vedere al più presto da uno specialistica che potrà stabilire l'età del bambino e tutto il resto. Se dopo aspetta qua fuori le lascio il referto e scrivo che l'esame non è stato fatto per questa ragione, così lei non paga nulla.” “Grazie davvero, se non ci fosse stata lei! Non oso immaginare”. Raccontai tutta la storia, poi cambiai di nuovo canale sulla fiction. “Vi porterò a vedere il bambino.”
“Oh che bello! Saremo i suoi padrini.” “Faccia le visite necessarie, ma cambi medico però.”

Una volta fuori dalla stanza, rimasi immobile, confusa. Poi chiamai il padre. Non rispondeva, a nessun tentativo fatto nell'arco di mezz'ora. Avrà dimenticato il telefono a casa, pensai. Allora chiamai mia sorella per dirle che nel pomeriggio non sarei potuta andare ad una riunione in programma. Neanche lei rispondeva. Allora mi mossi dall'ospedale, prima di aver disdetto altre visite dall'urologo. Peccato di non aver incrociato quel medico, lo avrei “ringraziato” per l'attenzione con cui mi ha visitato.

Sull'autobus di ritorno mi chiamò mia sorella. “Un bambino? Ma dai!” Non potei evitare lo sguardo della gente che mi guardava e forse pensava: “in effetti non si vede.”

Arrivata a casa, chiamai di nuovo il mio compagno, ma in casa non si sentiva squillare il suo cellulare. Non rispondeva però. Sarà in riunione? Avrà perso il cellulare? Scrissi una mail. “Appena puoi chiamami”. Mi chiamò. In effetti aveva avuto riunione fuori ufficio e il cellulare era rimasto sulla sua scrivania. Gli diedi la notizia, ma rimase incredulo. Rientrò a casa prima del solito.

Andai poi dal medico di base per farmi scrivere le classiche analisi e i test. “Che figura ci facciamo noi medici! A volte non sappiamo capirvi. In effetti non sapevo avesse un compagno.” Cosa pensava allora di me? Che frequentassi più persone? Che non frequentassi nessuno? Beh forse se pensava avessi rapporti occasionali con più gente magari per sicurezza mi avrebbe fatto fare il test dell'HIV. E se non le avessi detto che mia madre aveva avuto il tumore al seno mi avrebbe mandato prima dal ginecologo anziché farmi fare subito un'ecografia? E se invece avessi tirato fuori la risonanza magnetica di anni fa avrebbe di nuovo sospettato la sclerosi multipla facendomi fare altri accertamenti? In effetti i disturbi della minzione, la stanchezza e la mancanza di concentrazione non mi avrebbero certamente risparmiato qualche esame invasivo. E cosa sarebbe successo del bambino? 

Se non avessi fatto degli studi sul tema, non saprei quanto la comunicazione tra medico e paziente sia fondamentale per arrivare ad una corretta diagnosi. Molto spesso però viene sottovalutata. Noi, da pazienti, pensiamo: loro sono i medici, loro sanno a prescindere da ciò che noi diciamo e così trascuriamo di raccontare alcune cose che potrebbero essere rilevanti. D'altro canto i medici pensano: io devo curare la malattia, mica sapere tutto della vita del paziente. Il fatto è che se si parte dal presupposto di curare la malattia e non la persona si lotta contro un “sistema”, un nemico che noi stessi, per mezzo della scienza, abbiamo definito. La malattia di fatto non esiste se non la vedi nell'espressione di una persona. Si comprendono le malattie dal momento che si studiano le persone piuttosto che i testi accademici.

Dopo questo “spazio promozionale”, torno alla fiction. Dovevo ora avvisare della scoperta le persone con cui avrei lavorato. Infatti, visti gli acciacchi dell'ultimo periodo, avevo deciso di rinviare la mia partenza per la Danimarca di qualche mese. Nel frattempo era uscito un bando, per un centro di ricerca della mia provincia. Avevo partecipato e mi avevano offerto l'incarico, pur sapendo che forse l'avrei lasciato per trasferimento. Avrei dovuto iniziare due giorni dopo l'esame rivelatore, ma il giorno prima avevo firmato il contratto. Ricordo come ero imbarazzata. Finalmente dopo mesi avevo trovato ciò che cercavo, ma ora avevo un altro pensiero, un altro obiettivo. Mi inquietava dar l'impressione di una persona subdola che vuole far la furba: prima firma il contratto e poi ne approfitta. Ma invece non era così e mi compresero perfettamente. Poco ci è mancato che stappassero una bottiglia per festeggiare. “Siamo contenti per te. Poi guarda, sei nel posto giusto, sai quante abbiamo visto andare in maternità pure con contratti precari?” Era vero, ero nel posto giusto, ma purtroppo ero troppo assente per riconoscerlo.

E ora “spengo la TV”, lasciandovi immaginare lo stupore di tutti i parenti e affini.

Ritorno per un attimo al monitor. Devo ammettere che prima di vedere quelle immagini, superata l'iniziale incredulità, non avevo mai veramente desiderato un figlio. Non riuscivo infatti ad immaginarmi come madre. Avevo però l'alibi: “mi han detto che forse non ne posso avere.” Quindi ero salva. Salva da ogni possibile paranoia: potrei mai gestire un bambino? e salva dalla paura che un bambino avesse potuto cambiare i rapporti con il mio compagno e con gli altri. Salva da ogni possibile impegno, preoccupazione e da ogni ulteriore responsabilità. E invece ora salva non ero, ma non mi importava. Capii che desideravo veramente essere madre e che quello era il momento giusto per esserlo. Il momento giusto, nonostante il lavoro che avrei dovuto iniziare ed il trasferimento in programma. Ora quella creatura era passata davanti a tutta la mia vita.


martedì 3 marzo 2015

Gravid-azione

Mi ero completamente disintossicata dai farmaci e tuttavia la nausea si alleggerì gradualmente fino a sparire. Mi sentivo molto meglio. Avevo un obiettivo (andarmene) e una direzione (Danimarca). Mi alzavo al mattino con la voglia di mandare un'altra candidatura e di riceverne poi un riscontro. Notai che via via tendevo a voler stare sempre più in casa e a impiegare il mio tempo libero in passatempi solitari, come guardare film in inglese. A differenza di altri periodi in cui il mio isolamento era derivato da delusione e amarezza verso la società, mi sentivo in pace a casa. Ero concentrata sulla Danimarca e mi stavo disinteressando a ciò che accadeva in città. 

Sentii l'esigenza di andare a trovare degli amici e delle amiche che non vedevo da molto, anche perché avevano avuto bambini. Ero felice per loro e, stranamente, non provavo tristezza nel vedere la vita che pensavo di non saper generare. Non mi sentivo da meno: loro avevamo quella splendida creatura, ma presto avrei avuto la mia: una nuova vita rigenerata in Danimarca. Non sarebbe stata proprio la stessa cosa, ma sarei stata felice. Infatti sono le proprie capacità a dare il senso alla propria esistenza, non i figli. I figli non sono la vita del genitore, ma è il genitore ad essere la vita dei figli.

Inoltre, non provavo più quella sensazione di inettitudine per essere disoccupata e stare tutto il tempo a casa senza aver nessuno a cui badare. Non mi sentivo più disoccupata, ma emigrante. Il mio compagno non mi faceva più pesare il fatto che non avessimo figli perché ora eravamo distratti dalla partenza. In fondo mi sarebbe piaciuto averne, e pensavo che la Danimarca fosse il luogo migliore per una famiglia. Mi ero comunque rassegnata al parere negativo del mio ginecologo e non volevo fare cure particolari.

Nonostante la mia serenità e tranquillità, mi comportavo in maniera strana. Avevo quasi l'ossessione di non poter mangiare a casa perché ultimamente ero piuttosto capricciosa. Quando mi alzavo al mattino pensavo già al menù del giorno e andavo in crisi se non mangiavo esattamente quello. Inoltre diventavo intrattabile se non mangiavo all'ora che volevo. Ogni giorno cucinavo qualcosa di nuovo che leggevo su libri di ricette e su internet. Mangiavo molta più frutta e verdura di stagione del solito che acquistavo sempre rigorosamente dai coltivatori diretti perché altrimenti non sarei riuscita a mangiarla. Evitavo qualsiasi cibo pronto o in scatola e avevo quasi il terrore di qualsiasi colorante o conservante. Avevo provato anche ad eliminare il caffè, sostituendolo con l'orzo. Ma non ci riuscii perché a differenza di altre volte l'orzo peggiorava la nausea facendomi quasi vomitare.

Notai di avere meno pazienza del solito. Ero particolarmente intollerante alle attese, alle code ai negozi o agli uffici e addirittura al semaforo rosso. Ero più distratta e facevo molta fatica a mantenere la concentrazione. Spesso infatti non riuscivo ad assistere interamente ad un incontro culturale o conferenza e, se cadeva vicino l'ora dei pasti, dovevo abbandonare la sala.
Non mi spiegavo la ragione di questi atteggiamenti, anche se li collegavo sempre al mio disagio.

Cominciai a preoccuparmi quando diventai sempre più sedentaria. Una volta, dopo aver percorso circa 10 km in bicicletta dovetti tornare indietro. Avevo quasi l'affanno, anche se fino a poco tempo prima ero abituata a ben altri percorsi. La cosa peggiore è che mi stancavo anche a camminare. Pensavo fosse l'inizio di una depressione. Ma riflettendoci, non ero di pessimo umore, anzi al contrario. Mi sentivo soltanto stanca fisicamente.

Altri disturbi somatici destarono la mia attenzione: puntini sulla faccia, seno che era cresciuto e pancia più pronunciata. Il ciclo mestruale non si vedeva da alcuni mesi, ma questo non mi preoccupava perché sono anni che ho un ciclo che scompare e riappare come l'alta marea. E poi ero andata a fare una visita, subito dopo la ri-scomparsa, ma non era uscito fuori nulla. Mi avevano raccomandato soltanto di riprendere peso per riaverlo. In effetti mi chiedevo perché non arrivasse, visto che mi sembrava di aver “messo su” pancia.

Ciò che mi fece correre dal medico furono invece i disturbi della minzione. Mi alzavo sempre almeno una volta di notte per andare in bagno e dovevo sempre recarmici di corsa. Mi venne anche un'altra lieve infezione. Feci la visita dall'urologo. Notò qualcosa di strano che riassunse con il termine “dilatazione”. Se avesse guardato un po' più aldilà del suo pezzo di competenza, forse ne avrebbe scoperto la causa. E invece si limitò a scrivere “si sospetta diverticolite” e mi spedì a fare degli accertamenti.
Il giorno prima della cistografia, sentii qualcosa dentro di me che si muoveva. Pensai che nella migliore delle ipotesi avrei subito un intervento chirurgico e nella peggiore sarei finita prima dal neurologo e poi in clinica psichiatrica.

Il giorno dell'esame, per fortuna, mi imbattei in una dottoressa molto scrupolosa. Prima di procedere con l'esame e con le radiazioni, mi toccò la pancia. Insospettitasi di qualcosa di strano, un fibroma o qualcos'altro che non mi ricordo, mi fece l'ecografia all'addome.

“Aah quindi lei non sapeva di essere incinta? Parrebbe già al quinto o sesto mese”.