Frenare l'iniziativa, l'impulso di distrarsi diversificando le proprie attivita', per concentrarsi su un unico progetto.
Investire tutte le energie su cio' che si pensa sia lo scopo della propria esistenza. Controllare e ridurre al minimo indispensabile il tempo "inattivo", cioe' quello in cui le risorse fisiche e mentali non sono impiegate per raggiungere l'obiettivo.
Sfruttare al massimo il proprio talento per eccellere.
Ma cosa definisce l'eccellenza?
Come il desiderio richiede altro desiderio, anche l'eccellenza richiede ulteriore elevazione.
Il limite e' il talento stesso che si rischia di annientare, distruggendone il significato di dote naturale per renderlo "artificiale", al servizio di un grado di eccellenza puramente ideale, cosi' elevato da non poter essere percepito.
E cosi' distrussi la mia spontaneita', il mio umorismo e, in parte, il mio talento stesso. Rischiai di disperdere la mia esistenza in una vetta talmente elevata da non poter essere padroneggiata, raggiunta la quale non si va piu' oltre e si ha paura di scendere.
Se prima l’autocontrollo era concentrato eccessivamente sul cibo, ora si focalizza sulla ricreazione, riducendola al minimo indispensabile, fino al punto in cui la mente non puo' fare a meno di uno spazio vuoto per poter funzionare.
Ma cosa definisce lo spazio vitale?
"Non posso, devo studiare". "Devo studiare di piu', anche se ho gia' studiato". "Non devo essere soltanto brava, devo eccellere". E vissi con l’ansia di non sbagliare un compito in classe, di non commettere un errore, di poter controllare il mio tempo, ma anche per l'ebbrezza della gloria e per la soddisfazione di poter ostentare la mia pagella. L'autocontrollo sul tempo libero e la focalizzazione della mia esistenza sull'eccellenza scolastica raggiunsero un livello tale da rendermi "emotivamente e socialmente deficiente", cioe' da non essere in grado di controllare le mie reazioni e le relazioni interpersonali.
Ero talmente intransigente da non sembrare "umana". Mi comportai da persona egoista, intollerante, incurante verso l'Altro, menefreghista. Sapevo di suscitare odio, antipatia, invidia per la mia forte volonta' e determinazione e per le mie capacita'. La mia empatia mi faceva soffrire, infliggendomi i pensieri e gli stati d'animo negativi dell'Altro nei miei confronti.
Ma dovevo essere superiore, aliena ai giudizi dell'Altro: era il prezzo da pagare all'eccellenza.
La mia famiglia e gli insegnanti non potevano non lodare il mio successo ed io ero loro riconoscente. Ma anche a loro apparivo eccessiva e non giustificavano le mie tendenze masochistiche.
In fondo pensavo di essere incompresa, ma questo rafforzava la mia determinazione: l'eccellenza e’ eccesso e prescinde dalla comprensione umana, richiedendo soltanto un riconoscimento obiettivo, che nessuno puo' mettere in discussione. E tramite quel riconoscimento la mia vita non sarebbe stata insignificante. Con l’auto-affermazione avrei colmato il mio vuoto esistenziale e non avrei piu’ avuto bisogno di amore, trovando un sostituto nel potere e nel riconoscimento.
Pertanto mi allontanai dalle amiche e dalle persone che frequentavo. Non volevo che tollerassero la mia intransigenza e la mia antipatia. Non volevo che frequentassero una persona egocentrica, con un obiettivo al posto del cervello. Non volevo che assistessero ai miei patemi, quando commettevo un errore in un compito in classe. Non volevo che fingessero di rispettare la mia volonta’. Ma per fortuna, le mie amiche non mi ascoltarono, oltrepassando l’odio che provavo per me stessa.
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