domenica 27 gennaio 2013

L'unica certezza

Perché si teme la morte quando è l'unica certezza che abbiamo in questa vita? Non è forse l'incertezza che dovremmo temere? L'incertezza di ciò che ci separa dall'unica meta che condividiamo con qualsiasi essere vivente sulla Terra. La morte. La morte allora dovrebbe indurci ad essere solidali. Ma spesso per ipocrisia, e forse anche per superstizione, si è solidali dopo la morte con onoranze, ricordi … E invece si dovrebbe essere solidali durante la vita e rispettarla. Rispettare l'ambiente perché prima o poi morirà. Avere rispetto per la nostra stessa esistenza, per la nostra intelligenza, per la nostra forza, bellezza perché prima o poi svaniranno. Cercare di migliorare la nostra vita e quella degli altri. A chi importa se offriamo un funerale di lusso se abbiamo sempre contribuito ad una vita di miseria?

Quante volte in mezzo ad un ponte ho pensato: e se mi buttassi giù? Raggiungerei subito la meta a cui sono destinata. Sarebbe la soluzione più semplice, più veloce. Ma scherzando ho sempre pensato: “Fatico sempre per ottenere qualsiasi cosa. Non è mai piovuto nulla dal cielo e scommetto che se volessi morire, persino la morte dovrei conquistare a fatica”. E la paura di finire in ospedale e di soffrire ancora di più mi ha sempre tenuto coi piedi sul ponte. “Se devo lottare per la morte, tanto vale lottare per la vita”. “E poi l'alternativa alla morte è la dipendenza dagli altri. Quindi se la morte non mi volesse, finirei direttamente tra le mani di coloro da cui vorrei scappare. Non è un controsenso?” Tra la morte o la dipendenza scelgo me. Però è molto facile adagiarsi, impigrirsi a tal punto da non curarsi più della scelta. E' facile cadere in questo stato quando ci si sente rifiutati dal mondo. Un po' come dire: “Non apprezzi la mia vita, le mie capacità? Bene allora fammi morire o curami. Eppure se mi avessi accettato, ora non sarei un peso per te”.

E intanto aspetto. Aspetto che mi chiamino. Sembra quasi che mi abbiano fatto uno scherzo. Mi dicono che devono operarmi e non mi chiamano. Prima mi fanno illudere di potermela sbrigare in day hospital. Poi la prospettiva del reparto. Eppure sono ancora a casa, coi miei dolori, sapendo di essere malata. Perché prima di sapere di dover essere operata andavo in bicicletta, camminavo per ore, correvo pur avvertendo dolore addominale. Ora invece che so di essere malata, mi sento nauseata persino all'idea di uscire. E se mi viene la colica? Poi mi sprono “Come on”. Ed esco, faccio le scale, a dispetto di quel maledetto calcolo che mi punge ogni volta che mi muovo, ma che ignoro. E non sento il dolore che sarebbe altrimenti insopportabile se stessi ferma in casa. E' incredibile come un'etichetta ti condizioni la vita. Paziente, degente, malato. Stereotipi che stereotipizzano la tua vita. Ma quale paziente, io la pazienza non ce l'ho mai avuta. Mica sto ferma ad aspettare che mi chiamino. Quando mi chiameranno, andrò, ma adesso ho da fare, devo vivere. Degente? Ma no. Avrò soltanto bisogno di assistenza per qualche giorno. Malato? E cosa vuol dire. Definitemi malata e sarò incurabile. Chiamate delinquente un ragazzino monello e vedete che tra qualche anno finirà in prigione.

Mi avevano tolto l'etichetta “disoccupato” e adesso invece mi appiccicano quella di “paziente”. E se assorbo l'etichetta, vivo alla mercé altrui. Prima in attesa di un'occupazione e poi in attesa di un'operazione. E allora il solo modo per cambiare e non subire il cambiamento è togliere ogni etichetta da sé, dagli altri e anche dall'ambiente.
Voglio togliere anche l'etichetta “crisi”, che vuol soltanto dire che ci sono dei grossi deficit finanziari un po' dappertutto, che l'unica preoccupazione che si ha è che non si abbiano abbastanza soldi da spendere, ma non che non ci siano abbastanza possibilità per ricominciare a vivere e non che si senta la necessità di ridimensionare le spese sulla base dell'effettiva utilità personale piuttosto che sulla base delle proprie disponibilità economiche.
Il capitalismo consumista ci confonde, ci impedisce di valutare correttamente i nostri bisogni e l'utilità individuale che da esso ne ricaviamo. Di conseguenza condiziona il nostro stile di vita, le nostre spese e il nostro lavoro. Già. Speravo che almeno la crisi potesse distruggere il consumismo. Ed invece no. Chi può spendere, continua a farlo. Alcune aziende continuano ad assumere, indipendentemente dall'utilità che ne traggono dal singolo lavoratore, soltanto per salvaguardare la propria immagine o perché comunque hanno un certo budget di spese. Di conseguenza offrono contratti che quasi offendono il lavoratore, che entra in azienda già demotivato e preoccupato a dover cercare un altro lavoro nei prossimi mesi quando sarà di nuovo a casa. E oltretutto, non percepisce neanche il suo lavoro come utile alla società. Invece chi non può spendere rinuncia e basta. Non assume, taglia, costretto a rinunciare ad attività vitali. E chi può spendere, invece, non si preoccupa di essere sobrio, con la conseguenza che si continua a sprecare, anche se con meno ostentazione, per nascondersi dietro l'etichetta crisi.

E allora basta. Togliamo l'etichetta “crisi”, ma poiché è pretenzioso nonché frustrante ambire a togliere le etichette agli altri e all'esterno, cominciamo a toglierla da noi stessi. La crescita del reddito, dei consumi ci ha fatto credere in un progresso, in un miglioramento della nostra qualità di vita. Ed invece no. Presupposto per migliorare la nostra vita e puntare verso il progresso umano, inteso come valorizzazione dell'individuo e delle sue capacità all'interno della società è proprio quello di rinunciare all'etichetta, di guardarci per ciò che siamo e per ciò che possiamo offrire.
Pensate che grazie alle etichette un ricercatore, o persino un laureato, fatica a ricollocarsi sul mercato per posizioni meno qualificate. Si manda un curriculum. Chi seleziona i lavoratori cerca una “figura” e non una persona. Spesso non guarda alle capacità del candidato, a cosa possa offrire in azienda, ma lo etichetta. Se l'etichetta non coincide con quella imposta dalla direttiva aziendale allora “avanti il prossimo”. E si continua ad essere scartati e degradati; allora si tenta di costruire un'etichetta e se si è fortunati si finisce a lavorare nel posto sbagliato, infelici e occupati, senza nemmeno potersi permettere l'idea di poter cambiare mestiere.
E poi giudichiamo. Giudichiamo i criminali, i ladri, gli spacciatori, le prostitute. “Han solo da cambiar mestiere”. Già, facile. Non riusciamo a cambiare il nostro, pur essendo qualificati e seri professionisti, figuriamoci cosa può fare una puttana nell'attuale sistema. Non potrà che continuare a far la puttana, come è sempre stato nei secoli dei secoli. In una vita sola, non c'è mica tempo per cambiare dal momento che fin dalla nascita ti dicono: “Il tempo è denaro” e non “Il tempo è vitale”. E allora ci etichettiamo, perché non abbiamo neanche il tempo per pensare e poi perché il pensiero è pericoloso, in quanto sconvolge la nostra stessa esistenza.

E allora togliamo anche le etichette “Vita” e “Morte”. In effetti non possiamo sapere cosa sia la morte, dal momento che mai nessuno è tornato indietro a descrivercela. Sappiamo solo che è la nostra meta certa nell'incertezza della vita.

E mentre ribollono idee nella mia testa, che ho cercato di catturare anche se non troppo sistematicamente, perchè accompagnate da dolori vari e nausea, arriva inaspettatamente una lettera. Un altro scherzo?