lunedì 17 dicembre 2012

Pensieri paramagnetici

Contro la paura e l'ipocrisia, bisognerebbe adottare lo stesso espediente: l'indifferenza. Infatti se ci si assoggetta alle proprie paure o si vive condizionati dall'ipocrisia della società, allora si rimane paralizzati, intrappolati.
Spesso si ha la fortuna di poter dire “ho la fobia di ...” e di poter restare alla larga dalla propria paura. Ma quando si ha paura del vuoto e ci si trova davanti un fosso, allora se si vuole andare avanti si deve abbandonare la paura e il suo pensiero e ... saltare e basta. Se ci si ferma pensando “ho paura, non posso” allora si è già deciso la propria sorte. E analogamente, si è già deciso la propria sorte se ci si fa influenzare dal giudizio degli altri “oh no, non ce la farai, hai le gambe troppo corte per saltare”.

“Ha paura degli aghi, vero signorina?” “No, del sangue, dell'idea del suo fiume che straripa … boh. Ognuno ha le sue paure”. Però cosa le importa se ho paura dal momento che sono lì, le ho dato il braccio e non mi sto lamentando? E' un po' come se stessi saltando, anche se preoccupata, e qualcuno mi ricordasse “Hai paura?”. E cosa cambia? Certo preferirei dormire, magari. “Eh, ma ha la mano ghiacciata. Stia tranquilla.” “Sono tranquilla, sto solo cercando di non guardare.” Forse se guardassi, all'inizio sverrei, ma poi non mi farebbe neanche più effetto. E' una strategia per diventare insensibile e conosco i suoi trucchi. Ma perché non posso rinunciare alla mia sensibilità? Ho imparato a non piangere, o a limitare lo spreco di lacrime, perché devo imparare anche a considerare inserimenti di siringhe, aghi, lacci, tubi e tagli con il bisturi come gesti meccanici? Mica devo fare l'infermiera o il chirurgo? Le paure sono irrazionali, e fanno sorridere chi non le condivide. Quanto vorrei chiederle di cosa ha paura. “Ha paura della matematica? Allora si prepari perché infierisco da farla stare talmente male ...”. “I am scared of numbers”. Mi diceva un chirurgo a Londra. In realtà non ho mai infierito, e ho sempre cercato di rendere la vita più semplice ai non simpatizzanti. Mica gli ho mai chiesto di guardare tanti bei formuloni … Ad ognuno il suo mestiere, no? Anche se … ma sorvoliamo il tema.

“Dove vorrebbe essere signorina. Mare, montagna?” Ora basta, bucami quella ca... di vena e fammi sta cri... d'iniezione ché sono stanca di stare qua dentro. I pensieri istintivi sono sempre molto volgari.

E riprende il bombardamento. Le emissioni radio di quel macchinario, stavolta sono accompagnati da pensieri “paramagnetici”.

Pensieri paramagnetici
risuonano nell'encefalo
e si propagano lungo
tutta la colonna verticale.

Pain is so close to pleasure”. Risuona nella mia mente la canzone di Freddie Mercury. Sia il dolore che il piacere stordiscono, sconvolgono, alienano, impediscono di pensare e di vivere in tranquillità. E poi dopo il piacere, dopo il culmine dell’euforia o dell’eccitazione, subentra la tristezza e quindi la ricerca di nuovi piaceri. E similmente mentre si prova dolore si è impazienti, si aspetta soltanto di raggiungere il culmine, per liberarsene e raggiungere la tranquillità.
Il dolore e il piacere condividono una situazione di malessere, anche se in momenti diversi. Il malessere segue il piacere mentre il dolore lo accompagna.
Il piacere è la soddisfazione di un desiderio. Il dolore invece è l’espressione di una ripugnanza. Ma sia il piacere che il dolore possono essere accompagnati dalla gioia. Gioia, perchè si è realizzato un desiderio che è manifestazione del proprio essere. Gioia, perchè nonostante il dolore si è amati e si ama e questo legame rafforza il proprio essere.

E poi penso che non ho paura. Non mi spaventa più l'esito di nessun esame. In ogni caso sarà una nuova paura da affrontare, un nuovo esperimento, una nuova sfida verso la strada che mi porterà ad essere libera. Libera da ogni conoscenza. Libera di cogliere gli stimoli dall'esterno, senza auto-soffocazione per ansie e paure per ciò che possiedo. Vivere, dimenticandomi di me, dimenticandomi di sapere, dimenticandomi delle posizioni che occupo, usando soltanto le mie capacità di sperimentare ed immaginare.

L'uomo dovrebbe vivere come se non vivesse, né per sé stesso, né per la verità, né per Dio. Completamente libero e vuoto di ogni conoscenza.” (Eric Fromm)

L'uomo attivo e vivo è simile ad un recipiente che ingrandisce mentre lo si colma, sì che non sarà mai pieno” (Blakney).


lunedì 19 novembre 2012

Pensieri, riflessioni, letture e poi?


Ogni tanto è bene soffermarsi sui motivi che mi inducono a continuare a scrivere su questo blog. Lo scopo iniziale era quello di liberarmi del passato, di ciò che mi tormentava, di istantanee che ogni tanto apparivano come flash nella mia mente. Una volta aver raccontato tutto ciò che mi opprimeva, devo dire che mi sono sentita liberata, svuotata da qualcosa che non volevo possedere, da qualcosa che avrei voluto raccontare agli amici, ma che non ho mai avuto occasione di fare. Io credo molto nel potere della narrazione, anche a scopo terapeutico. E sono soddisfatta per aver promosso la narrazione nel processo di cura anche in un articolo scientifico che verrà pubblicato in una rivista americana.

Ma allora perchè non tento di divulgare il mio pensiero con altri mezzi e altri fini anzichè continuare a scrivere a tempo perso in questo sito? Il motivo perchè continuo a scrivere qua è perchè voglio scrivere ciò che mi pare, senza censure o aggiustamenti dettati dal mercato. Inoltre voglio condividere i miei pensieri e riflettere non solo su cosa mi sta succedendo, ma anche sulla situazione del paese.

A volte però mi rendo conto di quanto sia pericoloso continuare a scrivere la mia autobiografia. Infatti non vuol solo dire fermarsi a riflettere, ma anche fermarsi a formalizzare, staccandosi dalla propria vita stessa. Vuol dire cercare di dare un senso a ciò che mi sta capitando in questo momento. Dare senso al passato è molto più facile, grazie all’esperienza. Ma dare senso al momento è un po’ come trovare il senso alla singola goccia del mare, aldilà del senso che la singola goccia ha come costituente dell’essenza del mare stesso. Eppure mi giova scrivere, anche se spesso mi turba. Il narratore è infatti il protagonista di una storia che sta scrivendo senza sapere come andrà a finire. Potrebbe anche lasciarla inconclusa o terminarla con un finale diverso da quello che avrebbe voluto scrivere. Il protagonista si sente in balia del suo vivere e dunque il narratore del suo scrivere.

E poi la situazione del Paese è preoccupante: ma uscirà da questa crisi? Crisi che riguarda principalmente famiglie o piccole aziende che si impoveriscono o falliscono per debiti, mentre a livello elevato più che di crisi pare trattarsi di adeguamento alla tendenza che impone il non avere più fondi nemmeno per investire nelle attività che potrebbero arrecare vantaggio in futuro.

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Sto leggendo Erich Fromm “Avere o Essere?” Sembra essere cambiato ben poco nella società dall’epoca in cui è stato scritto: la seconda metà degli anni settanta. Rifletto sul fatto che la società ora è povera e instabile perchè è caduto il principio su cui ha basato la sua stessa esistenza: la possibilità di arricchirsi, accumulare e consumare. Il rapporto dell’individuo con il mondo è stato caratterizzato dal possesso e dalla proprietà, tale per cui si aspira a impadronirsi di ciascuno e di ogni cosa, l’individuo compreso.

Finchè ciascuno aspira ad avere di più, non potranno che formarsi classi, non potranno che esserci scontri di classe e, in termini globali, guerre internazionali. Avidità e pace si escludono a vicenda.


L’avidità, al pari della sottomissione, rimbecillisce gli individui, rendendoli incapaci persino di perseguire i loro veri interessi come per esempio la preservazione delle loro stesse esistenze” (Piaget – The moral Judgement of the Child).  

L’egoismo generato dal sistema induce i leader ad apprezzare più il successo personale che non la responsabilità sociale. Ormai non ci meravigliamo più di vedere uomini politici e dirigenti economici formulare decisioni che a prima vista sono a loro esclusivo vantaggio, ma che risultano insieme dannose e pericolose per la comunità.”

Il nostro attuale ordinamento fa di noi altrettanto malati

ci stiamo dirigendo verso una catastrofe economica a meno di non operare una drastica trasformazione del nostro sistema sociale”.

Eppure, in una società fondata sulla proprietà privata, sul potere e sul profitto, acquisire e possedere sono diritti inalienabili. Da ogni piccolo gesto si capisce quanto l’attuale sistema sia basato sull’egoismo e non sulla condivisione, sul possesso delle cose anzichè sull’esperienza umana.
I genitori dicono ai figli “prendi voti alti” non “impara”. Studenti che trascrivono ogni singola parola del docente, in modo da studiare a memoria le annotazioni e superare la prova di esame. Studenti che rimangono estranei a ciò che viene loro insegnato perchè divenuti proprietari di affermazioni fatte da qualcun altro. Studenti che si sentono turbati da nuovi pensieri e idee su un argomento perchè il nuovo mette in discussione le informazioni che già possiedono. Individui che hanno paura a mutare la propria opinione o la propria abitudine, perchè percepita come possesso e quindi la loro perdita equivarrebbe a un impoverimento. Il sistema didattico che mira ad educare ad avere conoscenza come possesso, dietro al quale ripararsi e identificarsi. Matrimoni che in certi casi, seppur inizialmente basati sull’amore, si trasformano in una società fondata sui beni comuni della coppia: denaro, rango sociale, una casa, dei figli. E, infine, l’atteggiamento di possedere il proprio corpo anzichè essere il proprio corpo, così quando si sta male lo si affida completamente nelle mani di chi può ripararlo.

Che giova aver guadagnato il mondo intero se poi si perde o si rovina sè stessi?” (Luca, IX, 24-25)

La sopravvivenza fisica della specie umana dipende dalla radicale trasformazione del cuore umano. Una trasformazione del cuore umano è possibile a patto che si verifichino mutamenti economici di drastica entità, tali da offrire al cuore umano l’occasione per mutare e il coraggio e l’ampiezza di prospettive necessari per farlo.”

Cambiamento, coraggio. Come si può pensare di risolvere il problema con la sola imposizione di tasse?

domenica 11 novembre 2012

Presenza o differenza ?


Ogni volta che mi sveglio, provo la sensazione di essere appena nata. Ma dura soltanto un istante. Un unico istante in cui non comprendo ciò che è successo fino al giorno precedente. Cosa ho fatto? Cosa devo fare? Poi realizzo. Se la giornata precedente sarebbe degna di essere rimossa, la giornata odierna inizia amaramente, con l’unica consolazione che sia già trascorsa e oggi si ricomincia. Il guaio è dover ricominciare da ieri, non da oggi. Iniziare un’attività, nuova rispetto a ieri, festeggiare il successo o rimediare il danno di ieri.
A volte mi chiedo quanto peso diano gli Altri ad ogni mio sbaglio. Se ricordano ogni mia figuraccia, se ridono ancora di un mio comportamento inadeguato per il quale adesso provo vergogna e che vorrei non aver mai tenuto.

Già, ma dietro ogni mio sbaglio e ogni mio comportamento inadeguato si nasconde un disagio. Un disagio di cui il giorno dopo mi vergogno, ma che nell’istante in cui lo provo mi avvolge, mi fa star male, mi trascina con sè. E mi attrae, perchè solo lasciandomene sedurre posso poi capirlo e attribuirgli un significato.
Ma perchè non vince subito il pensiero della vergogna del giorno dopo piuttosto che il desiderio di fuga imminente dalla realtà e di abbandono al disagio?
Ma perchè, in un ambiente in cui mi sento a disagio, non riesco a far presenza, ma mi ostino a voler essere differenza?


Collaboro, come lavoratrice autonoma, con un medico privato che un giorno, mentre discutiamo del progetto di ricerca che ho avviato, si ricorda di una cena per l’anniversario della sua attività. Prende l’invito dalla scrivania e me lo porge. Lo accetto molto volentieri. Lavoro sempre da casa, conosco solo la sua segretaria e, di vista, poche persone dell’ufficio amministrativo. Pertanto vedo l’evento come un’occasione per potermi integrare meglio in un ambiente dove non ho una posizione ben definita.
Mi reco sul luogo del ritrovo. E’ un posto di lusso, più di un centinaio sono gli invitati. L’aperitivo. Comincio a mangiare e bere, credendo che la cena consista nel buffet. E invece mi sbaglio. La cena inizia alle dieci. Dimenticavo, che qualcuno potesse essere indifferente alla crisi economica, al di fuori dell’ufficio assunzioni o ricerca e sviluppo.
Ad un certo punto mi immagino Fantozzi, un misero ragioniere, al tavolo dei dirigenti. “Lei conosce le regole, vero?”. Ed io, con la mia misera collaborazione, al tavolo dei dirigenti temo di far la stessa figura fantozziana. Eppure se sono lì, dovrei sentirmi all’altezza. Al contrario di Fantozzi, ho il titolo di studio uguale o più elevato dei dirigenti ed anche il medico che mi ha invitato lo riconosce e gliene sono grata. Apprezzo che lui consideri che il cervello vale, anche se preferirei lo facesse garantendomi una posizione più stabile e aiutandomi a cibarlo con alimenti che non posso trovare in una cena di lusso.
Ma perchè, perchè non posso essere felice di essere stata invitata e sedermi lì tranquilla? Tranquilla, in un ambiente formale? Perchè sto male al pensiero che in piena crisi e scarsità di risorse ambientali qualcuno possa permettersi cene aziendali luculliane?
Eppure se mi impegno sono in grado di sostenere conversazioni superficiali. Basta sorridere, comprendere, essere gentile e stare zitta, custodendo nell’intimità le mie idee, per poi sfogarle nell’alcova di casa.
Ma non riesco, quando sto male. Mi pesa troppo il mio malessere. Vorrei parlare della mia sofferenza del giorno precedente quando ho visto una bambina disabile in pena per la paura di un semplice intervento odontoiatrico. Ed i suoi genitori soffrivano ancora di più. Soffrivano, da un lato per la società, imbarazzata dalla disabilità della figlia, e transitivamente della loro, dall’altro lato si sentivano imbarazzati dalla società stessa che li isolava. Avrei voluto discutere a quel tavolo del mio malessere, della mia impotenza nei confronti delle pene del mondo.
Discutere, liberandomi della nausea che provo per le ingiustizie, liberandomi della mia vergogna di essere vestita in maniera poco consona ai loro canoni. Liberarmi della mia vergogna di essere, del mio disagio, della mia incapacità di comprendere l’ostentazione. Liberarmi dalla vergogna di essere attratta da ciò che il tavolo forse definisce “feccia”. di essere contenta di aver visto il giorno stesso una mostra di arte contemporanea, di esser sollevata per aver visto il mio stesso disagio riprodotto in alcune opere.
Ad un certo punto realizzo che l’unico modo per liberarmi della mia vergogna interiore è fuggire. Lascio la sala alla chetichella, anche se successivamente subentra la vergogna per la mia inettitudine, per la mia maleducazione, per aver violato il galateo sociale, per non essere stata in grado di partecipare al convivio. Mando un messaggio per scusarmi: non sto bene e sono uscita senza disturbare, per non rovinare la festa. Mi ha fatto piacere il vostro invito.

In effetti non ho detto una bugia. Non sto bene. La mia cistifellea non mi consente di abbuffarmi. Ed allora perchè non ho rifiutato subito l’invito? Perchè non volevo tirarmi indietro. Perchè ero curiosa di partecipare e non volevo che la mia salute mi condizionasse. Devo operarmi. Da quando ho saputo dell’intervento, per quanto l’abbia accettato con stoicismo, ho cominciato a sentirmi in credito con la società. Ho cominciato a chiedere, anzichè dare. Ho ripreso ad esigere dagli altri, anzichè sforzarmi di comprendere le loro esigenze. Mi sono comportata in maniera sgarbata e aggressiva, rimproverando agli Altri ritardi e disattenzioni. Mi sono comportata male, ma in realtà reclamo solo un po’ di fiducia nei loro confronti.
E adesso reclamo anche un po’ di comprensione, un po’ di appoggio per il mio comportamento. Per non essere stata in grado di mascherare la mia insofferenza. Spero che ciò non mi escluda lentamente dall’ambiente, che al momento si rivela l’unica possibilità di finanziamento. Ma so che ciò non accadrà. In fondo hanno bisogno di me, del mio talento, anche se il mio ruolo all’interno dell’istituto è marginale. E forse per questo non si ricorderanno nemmeno della mia comparsa e scomparsa, anche se a me resta la vergogna e il rimprovero per il mio stupido atteggiamento. Tutto per un semplice intervento.
Un semplice intervento, semplice per i medici, come per me lo sono le statistiche base che turbano invece i medici. Per loro i miei calcoli sono routine, per me invece lo sono i loro.
Un semplice intervento che razionalmente non mi spaventa, ma che mi sconvolge interiormente per l’idea che persone, come quelle sedute al tavolo, siano in grado di tagliare e asportare una parte del tuo corpo, anche se questa parte è causa del tuo male. Una parte che mi toglieranno mentre io sarò completamente incosciente e al mio risveglio troverò solo dei buchi.
Sicuramente è una bazzeccola in confronto ad altri interventi o altre privazioni. Ma la sensazione è la medesima di andare in banca a prelevare soldi dal conto corrente. Sia che prelevo 100 o 1000 euro, mi ritrovo sempre con meno soldi. 

domenica 4 novembre 2012

I have a need ...


Finchè c’è vita c’è ... bisogno. Eppure capire e soddisfare i propri bisogni non è così semplice.
Sembra banale rispondere alla domanda: “Di cosa hai veramente bisogno?” Ma la risposta non è immediata. Ho bisogno di tante cose, ma se dovessi sceglierne una, quale sceglierei? E sarà vero che ho bisogno di tante cose oppure queste tante cose in realtà fanno parte di un’unica categoria?
Categorie, classificazioni, teorizzazioni: bisogni primari, secondari, collettivi, individuali. Già! Ma nulla mi aiuta a capire veramente cosa mi serve adesso.

Mi sento insofferente e stanca. Stanca dell’ambiente che mi circonda e del suo modo di non ragionare. Stanca di lavorare pensando che qualora non riuscissi a trovare risultati interessanti per il mio studio e a pubblicarli, il medico finanziatore potrebbe non pagarmi per i prossimi mesi. Stanca di non avere un ruolo ben definito, ma di dovermelo sempre costruire a fatica. Stanca di non essere nel posto giusto, al momento giusto. Stanca di seguire conoscenze e passaparola per poter sperare di trovare un lavoro ordinario. Stanca di ... In effetti sono proprio stanca. Un viaggio mi farebbe proprio bene.

Un viaggio? Ma è questo di cui ho veramente bisogno? No, un viaggio adesso non gioverebbe molto. Un viaggio dà maggiori benefici ad un apparecchio in funzione, attaccato ad una postazione fissa, che lo si stacca per evitare il surriscaldamento. Ma al momento assomiglio ad un apparecchio che, staccato dall’adattore, sta lavorando con la propria batteria interna e che cerca una posizione dove attaccarsi prima che finisca la propria autonomia. Il viaggio non farebbe che ridurre la mia autonomia. E inoltre, distratta dal pensiero dell’adattatore, finirei per non apprezzare i benefici del viaggio. Un viaggio sarebbe anche utile se dovessi prendere una decisione.

A volte si sente l’esigenza di guardare all’esterno per trovare una risposta interna. Ma al momento le mie decisioni le ho già prese e per sostenerle sento l’esigenza di guardare all’interno per trovare una risposta esterna.

Ma allora non mi gioverebbe trasferirmi di nuovo? Un altro paese, un altro luogo dove vagare per attaccarmi ad una presa. Un altro luogo dove poter trovare una risposta esterna. Forse mi gioverebbe. Ma se sono tornata a casa, un motivo c’è. Ho bisogno della mia casa, di potermi esprimere usando la mia lingua, di frequentare i miei amici, di poter garantire la mia disponibilità alle mie sorelle in caso di necessità. Però mi sento stanca ... stanca nella mia casa, nella mia situazione, stanca per organizzare visite, uscite ... Cosa mi succede? Di cosa ho veramente bisogno? Mi gira la testa. Sarà la confusione mentale. Mi calmo, va meglio. Riesco a gestirmi. Ma c’è una spada che mi trafigge l’addome. Cos’è? Ho bisogno di una diagnosi. Ho bisogno di cure.

E così a volte si crede di aver bisogno dell’ospedale, quando si necessita di un viaggio, altre volte si crede di aver bisogno di un viaggio e invece si necessita dell’ospedale. 

giovedì 25 ottobre 2012

Morendo ...


Morendo .... stiamo lentamente morendo ... abbiamo paura ... abbiamo paura di spendere ... abbiamo paura di investire ... chiudiamo le porte agli altri, per paura che ci rubino ciò che ci è rimasto ... abbiamo paura di non poter guadagnare abbastanza da poter sperperare come negli anni passati ... abbiamo ricchezza, ma non abbiamo reddito ... perdiamo tempo in cazzate, leggendo cazzate, guardando cazzate, per non pensare che stiamo morendo ... pensiamo ad andare avanti, ma non ci importa di progredire ... la recessione ... del nostro cervello, dopo lavaggi di testa di marketing, poi di spread ... se non ti pagano non ti conviene lavorare ... ma se non lavori cosa fai? ... spendi il poco che ti è rimasto ... e allora, forse, non conviene che lavori lo stesso, anche se non ti pagano? ... se non ti pagano oggi, ti pagheranno domani ... oggi hanno bisogno loro e tu li aiuti, domani avrai bisogno tu e loro ti aiuteranno ... no, ti sbagli, continueranno a non pagarti anche se hanno i soldi ... hanno capito che hai buona volontà e ti sfruttano ... così conviene a loro ... la mutualità non può esistere nell’attuale sistema ... e forse non è mai esistita... mutualità in Italia, in passato quando si poteva, voleva spesso dire parassitismo sociale ... se te lo danno, prendilo, anche se non ne hai bisogno ... e così ... chi ha preso è stato fortunato e adesso se lo tiene ... e già ... non si può mica rinunciare ai privilegi per la società ... ma dimenticano che questi privilegi li hanno ottenuti grazie alla società ... ma erano altri tempi, ormai poverini sono vecchi e adesso anzi chiedono a te di fare i sacrifici ... perchè loro sono i malati ... chi non conosce i privilegi è sano, più forte, è più flessibile ... cosa vuoi, loro ormai sono vecchi e ti chiedono ... se tu hai da dare, lo devi dare per il mercato, ma augurati di non avere mai bisogno ... augurati di non stare male ... nessuno ti pagherà ... ormai ne hanno già approfittato in tanti ... non esiste mica più la mutua ... ormai le cose te le devi sudare e se non sei in grado di farlo, te lo scordi di vivere ... morendo ... anche loro moriranno ... potessero morire con dignità, almeno ... se si deve morire, perchè non c’è più niente da produrre, allora perchè non riducono il divario tra di noi? ... avviciniamoci, non allontaniamoci ... si muore meglio in compagnia ...  aiutiamoci finchè possiamo ... poi si vedrà ... se non ci aiutiamo, moriamo più tristi, più poveri, anche se ricchi di roba che in realtà non ci serve ... in fin dei conti, tutto è superfluo rispetto alle tenebre che ci attendono .... e invece non solo non ci avviciniamo ... ma ci insultiamo ... il buon esempio arriva dal governo a cui non resta che insultare ... piuttosto ammettetelo ... non c’è più niente da fare ... stiamo morendo ... ma non infierite fino alla fine ... la morte non è bella per nessuno, neanche in un castello o in una comoda casa riscaldata ... figuratevi quanto sia bello morire nel fango ... non siete in grado di far nulla per chi muore nel fango ... va bene, ammettete i vostri limiti ...  ma per favore non insultate ... non dite ai barboni che puzzano se non ve la sentite di offrire loro aiuto ... la loro puzza è la misura della distanza tra voi e loro ... se vi dà fastidio, riducetela!


domenica 21 ottobre 2012

L'ineluttabile debolezza dell'hardware


L’hardware ha qualche problema, ma il suo proprietario vuole produrre ancora software e non si ferma per capire cosa c’è che non va.

E’ come se il conducente, in viaggio in auto, ad un certo punto sospettasse un guasto. Se si fermasse, quasi sicuramente non riuscirebbe ad arrivare in tempo a destinazione, ma perlomeno potrebbe ancora proseguire o tornare indietro, una volta riparato il danno. Se non si fermasse potrebbe arrivare in tempo a destinazione, ma potrebbe anche non poter essere in grado di proseguire o tornare indietro.
E allora? Qual è la scelta migliore? In realtà, dipende dalla priorità che si dà alla destinazione da raggiungere rispetto al sano mantenimento del veicolo stesso. Razionalmente, si consiglia: fermati. Ma il consiglio proviene da un soggetto a cui probabilmente non preme raggiungere la destinazione.

L’hardware ha una vita limitata, ma il software no: una volta prodotto servirà ad altri hardware, diversi da quelli che l’hanno prodotto, che a loro volta produrranno altri software. E per questo motivo il proprietario della macchina pensa sia più importante preoccuparsi di qualcosa di “immortale” piuttosto che di qualcosa che prima o poi muore.
Ma il proprietario dimentica che se vuole produrre software più a lungo, deve curare l’hardware. Senza hardware, niente software. Al proprietario infatti è consentito l’uso di un solo hardware. Ma il proprietario si ostina a prediligere la produzione attuale di software e a non preoccuparsi di quella potenziale futura o della durata in cui l’hardware potrà funzionare. Il proprietario si chiede: quanto manca alla meta e non quante mete potrà raggiungere in futuro. Il proprietario vuole minimizzare la distanza che lo separa dall’obiettivo attuale, e non gli importa se ciò può condurlo anche alla minimizzazione della distanza che lo separa dall’ultimo obiettivo che potrà raggiungere.  

Cosa importa avere un hardware longevo che teoricamente potrebbe produrre cento software, quando ne possiede uno che sta per finire di produrre un software? Meglio finire quell’unico software che fermarsi per l’idea di poter essere in grado di produrne altri cento. Un unico software che dopo la rottura dell’hardware che lo ha prodotto, può “reincarnarsi” in altri cento o più hardware. Un unico hardware, anche se potente, invece sarà soltanto un unico hardware, indipendentemente dalla durata.

Lo chiamano hardware, ma in realtà non è così “hard”. E’ la parte debole della macchina, la più vulnerabile. Quando si rompe, spesso non c’è nulla da fare o, se si riesce ad aggiustare, difficilmente tornerà allo stato precedente la rottura.

Il proprietario sente uno strano rumore, ma preferisce continuare ad usare la macchina, piuttosto che fermarsi e chiamare il riparatore. Il proprietario è ottimista: crede di poter arrivare alla meta prima che la macchina si rompa. Gioca d’azzardo, spinge finchè può anche se la macchina stenta. Il proprietario sente che “ha male all’hardware” che sta utilizzando. Il rumore che esso produce è inquietante: come quello di un elicottero che sta per schiantarsi. Ma il proprietario è distratto dai suoi obiettivi, dai suoi pensieri, dalle sue idee che prevalgono su ogni preoccupazione materiale. Il proprietario è troppo distratto ed allo stesso tempo troppo concentrato nel suo percorso per rendersi conto di quanto l’hardware sia malandato. Giorno dopo giorno, l’hardware si lamenta sempre di più. Un ultimo sforzo ed ecco la meta. Dalla meta si prospettano nuove mete. 

Ma ecco allora che il proprietario capisce che non può più produrre nuovo software se non fa riparare l’hardware. L’hardware è molto acciaccato, ma forse non è troppo tardi per aggiustarlo. Forse dopo un po’ di riposo e di restauro potrà tornare operativo. Ma se non fosse così, in ogni caso il proprietario sarebbe soddisfatto del software che ha prodotto, che sopravviverà all’hardware. Forse se il proprietario avesse fermato la macchina prima, non sarebbe stato altrettanto contento.  

domenica 16 settembre 2012

Venalità


“Quanto prendi all’ora?” Chissà quanto valgono le mie prestazioni. Certamente non bisogna valutarle sulla base dell’alternativa di stare a casa e non guadagnar nulla e neppure rinunciare a valutarle perchè sono frutto della passione. Sto offrendo un servizio che soddisfa un bisogno altrui ed in cambio è giusto che ne riceva un corrispettivo che ricompensi l’energia fisica e mentale impiegata e che quindi mi permetta di mantenermi in vita. Ma quanto valgo? Mi sto vendendo. Ma non è mica così scandaloso. 

Tutti i giorni ci vendiamo, senza rendercene conto, dando qualcosa di noi in cambio di denaro: il nostro corpo, la nostra immagine, il nostro tempo, le nostre conoscenze, il nostro futuro, la nostra patria. E c’è chi si sente scandalizzato a sentir parlare di prostituzione, mentre ciò che dovrebbe scandalizzare veramente è lo sfruttamento. Eppure lo sfruttamento è quotidiano. Basta soltanto che, in un rapporto tra due parti, una guadagni a scapito dell’altra.

E se il mercato ci svaluta allora è meglio vendersi in proprio, richiedendo il prezzo necessario per vivere, senza comunque arricchirsi (altrimenti si diventerebbe sfruttatori).

Però è veramente imbarazzante prezzarci, schiavi della nostra stessa valutazione. Forse preferirei essere libera di accettare un prezzo imposto che fissarne uno io e pubblicizzarlo. Ma se ciò non è possibile, perchè il mercato non ci offre una posizione, allora occorre mettere annunci per vendersi, sempre che si abbia qualcosa di utile da offrire. Altrimenti come si può continuare a vivere? 

Nell’attuale “regime” il lavoro non è un diritto. Ma la vita sì, a prescindere. Pertanto se nessuno mi offre un prezzo per le mie competenze o per trasmettere le mie conoscenze, il mio pensiero, le mie idee, allora devo proporlo io.

Nelle scuole e nelle università, le cattedre sono ben inferiori alle persone disposte ad occuparle. Ma nonostante la buona offerta di istruzione, la domanda di lezioni private è sempre presente. Ma cosa cercano gli studenti che in aula non trovano? Cercano un supporto, una guida che li aiuti a dominare il caos della conoscenza che li spaventa. Eppure spesso vedono l’insegnante come una persona distante, aliena. Una persona che nonostante la sua eccellenza non sia raggiungibile. Ed allora cercano comprensione altrove e se non la trovano, non possono neanche offrire la loro. E così non riescono a passare l’esame.

Ed io, mi propongo di aiutarli, ma dietro corrispettivo per poter aiutare me stessa. Non potendo valutare il potenziale beneficio o il potenziale danno che posso causare nella loro carriera, mi limito a fissare un prezzo standard. Tuttavia, per quanto ami essere una guida e mi dia notevole soddisfazione in particolar modo quando gli studenti superano l’esame, vorrei avere un ruolo, una posizione e non lavorare occasionalmente, ad ore. Certo se avessi più “clienti” guadagnerei di più che lavorando come insegnante nel settore pubblico. Ma per avere più clienti dovrei spendere più tempo in pubblicità, piuttosto che concentrarmi sulla qualità del lavoro. 

E l’alternativa a vendersi è farsi sfruttare, mentre in una dimensione più “umana” si dovrebbe poter scegliere tra minor fatica o maggior guadagno. Ma come liberarci dalla schiavitù del mercato?

domenica 2 settembre 2012

Riflessione volontaria


"Se non ti conformi sei tagliato fuori. Se sei tagliato fuori non sopravvivi."

Riecheggiano parole che potrebbero spaventare chiunque, persino me. Mi chiedo allora se sarò in grado di sopravvivere ancora e per quanto tempo. Che strana giungla questa società. La legge del più forte sembra la legge di chi segue le mode, di chi vive dietro la propria immagine, di chi accetta e basta, di chi crede perché si deve credere, di chi segue gli altri senza nemmeno chiedersi dove sta andando.

Intendendo per intelligenza "la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e apprendere dall'esperienza", dubito che l'intelligenza sia una forza, invece che una debolezza.

Chi è morto per sostenere le proprie idee era più forte o più debole? Era più intelligente o più stupido? O forse non era abbastanza intelligente da sapersi adattare?

Mi sento paranoica. Non riesco a pensare, parlare, scrivere d'altro, se non del mio disagio, ma al contempo trovo difficoltà a raccontarlo perché lo sto vivendo. Negli ultimi due mesi mi è sembrato di aver fatto passi avanti, ma in realtà ho soltanto percorso una rotonda. Così come facevo da bambina quando giocavo con mia sorella rincorrendola attorno al tavolo rotondo che avevamo in casa. Correvamo girando intorno senza di fatto raggiungerci o raggiungere qualcosa.

Spero che il prossimo mese sia decisivo per poter trarre delle conclusioni o prendere delle decisioni. Diversi progetti bollono in pentola, ma non mi è chiaro quali verranno serviti in tavola o vuotati direttamente nell' "immane vaso".

Un articolo scientifico che ho scritto, ha riscontrato un certo interesse da parte di una rivista medica, ma per varie ragioni sono ancora in attesa di sapere se verrà pubblicato. Se non lo vogliono, capisco bene. Se non riconoscono i miei sforzi, il mio impegno, pazienza. Ci ho dedicato tanto tempo, sottratto ad attività più sociali o più "utilitariste". Tempo per me prezioso che però non reputo perso perchè impiegato a fare ciò in cui ho creduto, anche se questo "ciò" non dovesse concretizzarsi in un "cioè".

Così come non essere un cantante non significa non saper cantare allora il fatto che il mio articolo poi non venga pubblicato, non implica che non sia degno di pubblicazione. E, analogamente, il fatto che io non percepisca uno stipendio, non vuol dire che il mio lavoro non valga un accidenti. Piuttosto vuol dire che non desta abbastanza attenzione da parte del mercato. E nel mercato sono impliciti il conformismo e molto altro che io non conosco nè voglio conoscere.

Ma fino a quando accetterò questa situazione? Continuerò a lavorare all'articolo finchè non me lo pubblicheranno e a impormi a voler far ricerca finchè non mi pagheranno oppure mi arrenderò prima?

Per ora resto nell'ombra. Partecipo anche ad altri progetti che mi consentano di sperimentare lavori di cui non ho esperienza (lavori più sociali o manuali, ma comunque non pagati). Eh, già! Non si capisce come mai una persona con un titolo di studio troppo elevato per trovare un lavoro poco qualificato, ma almeno retribuito, venga giudicata idonea a svolgere la stessa mansione nell'ambito di un progetto di volontariato. Chissà come mai se non ti devono pagare ti accettano per come sei, anzi ti valorizzano.

Non mi avrebbero mai pagato per allestire una mensa e servire ai tavoli in occasione di un evento locale come un Festival musicale. E allora ho provato a farlo gratuitamente. E sono riuscita anche a farlo bene. E' stata un'esperienza particolare, stancante (anche grazie al sole cocente). Ma è un'esperienza che rifarei (sempre che di fatto non favorisca lo “sfruttamento” a fine di lucro di alcuni).

Infatti ho svolto un lavoro tutt'altro che sedentario (odio scaldare la sedia) e dove, per la sua esecuzione, è fondamentale la collaborazione e la coordinazione con le altre persone. Nessuno pagherebbe una dottoressa di ricerca, reduce da un prestigioso lavoro a Londra, per servire ai tavoli. Figuriamoci! Una che ha sempre studiato mica sa muovere le mani, aldilà di un foglio, di un libro o di una tastiera, e mica vuole sporcarsele. Mica vuole stancarsi fisicamente? Mica è motivata a farlo.

L'apparente mancanza di motivazione del candidato per un lavoro diventa infatti l'alibi per il pregiudizio del datore di lavoro. Dietro il parere “Non è motivato per la posizione” di fatto si cela la considerazione “è troppo brutto, troppo vecchio e troppo stronzo”. Pregiudizi.

D'altra parte, però, un centro di ricerca di eccellenza, che avesse i fondi per assumere, difficilmente pagherebbe un ricercatore se sapesse che la persona si sporca le mani a servire ai tavoli. Una persona così non dà infatti l'impressione di essere veramente motivata a far ricerca perchè pare non abbia abbastanza chiari i suoi obiettivi professionali. Pregiudizi.

Se invece il lavoro di ricerca scientifica rientrasse nell'ambito di un progetto di volontariato, sono convinta che accetterebbero pure mia sorella (con tutto il rispetto per mia sorella! Volevo solo chiamarla in causa perchè non possiede la mia formazione professionale e oltretutto non ha neanche l'interesse a svolgere la mansione).

Non c'è lavoro. Siamo ormai tutti vecchi, ignoranti, incompetenti. Non siamo abbastanza flessibili per il mercato. Non siamo efficienti. Non sappiamo le lingue straniere. Ma chissà come mai per i progetti di volontariato siamo tutti impiegabili, tutti giovani, competenti, eruditi, flessibili, efficienti e non solo, ci affidano pure l'incarico di dare informazioni ai turisti stranieri.

Chissà per quale legge fisica la luce si trova ad incontrare due superfici attraverso le quali la stessa immagine viene riflettuta in maniera totalmente diversa!

Due “mercati”. Due specchi, che danno due immagini diverse di una stessa persona che vuol soltanto essere riconosciuta per quello che è.

domenica 19 agosto 2012

Il territorio delle Azygos


Ed ecco che mi ritrovo di nuovo faccia a faccia con te. Dopo quasi quattro anni di latenza, ora ti fai di nuovo vedere. Ti aspettavo. Così come si prova ansia e attesa nel voler rivedere le persone care o nel vivere momenti piacevoli, si freme anche nel voler affrontare il nemico, anche nel caso in cui si debba uscire devastati.
Ti nascondevi, ma adesso ti rivedo di nuovo scorrazzare all’aria aperta e ti sto braccando, come un cacciatore con la preda, ma senza fucile. Non posso ucciderti, ma catturarti. Catturarti e mostrarti al pubblico, che penserà lui a darti il colpo finale.
Eppure mi ricordo quanta paura che mi facevi. Avevo paura che ti saresti impossessata di me. Che mi avresti distrutto piano piano il sistema nervoso, prima paralizzandomi il corpo, poi la mente, impedendomi di camminare, di parlare, di pensare, di ridere.
E invece ora sono io che voglio catturarti, o perlomeno immortalarti per il tempo necessario a chi potrà sconfiggerti.
Forse sono io che di fatto mi sono nascosta, rimanendo tranquilla nel mio rifugio, non appena ho saputo che non mi avresti cercato. Ma nella mia apparente tranquillità, ti ho sempre pensato e il mio pensiero mi ha condotto nella strada per poterti incontrare di nuovo e sfidare. Mi sono affidata alla sorte, ma il dado l’ho lanciato io. E adesso il destino mi riporta a te. Ti osservo, nel territorio delle Azygos. Vedo quanto sei pericolosa, ma non voglio toglierti gli occhi di dosso. In fondo anche tu hai paura. Se io ho paura che mi conduci nelle tenebre, tu hai paura che io ti conduco alla luce. Non vuoi farti vedere. Vuoi agire all’oscuro, fuorviando gli sguardi. Vuoi che nessuno ti capisca per agire indisturbata. Ma io invece voglio vederti in faccia e capirti, distruggendo la tua falsità. Certo, osservarti non è facile. Mi fai percepire come una reincarnazione delle tue vittime, con le quali ho in comune alcuni sintomi e un “marchio” nel cervello che pare innocuo. Devo confessarti che mi spaventa ciò che non è, ma che potrebbe diventare. Ma questo è un tuo trucco, per indurmi ad arrendere. Mi spiace, ti sbagli. Continuerò ad osservarti. Per adesso la priorità è guardare come agisci all’esterno. Poi mi preoccuperò di guardarti anche all’interno. So che invece vorresti distrarmi, in modo da costringermi ad occuparmi di me anzichè di te e farmi cercare un rifugio anzichè cercare di stanarti.
Ma vuoi solo spaventarmi.
Sfoglio le cartelle cliniche che devo analizzare. Disgrazie, sintetizzate in esiti di esami. Competenze mediche e tecnologiche riassunte in diagnosi e tomografie. Ed io riassumo ulteriormente gli esiti di esami in dati numerici. Interi archivi cartacei diventano databases. Databases diventano tabelle descrittive o prendono forma di grafici per essere più facilmente osservati. Il tutto poi verrà ulteriormente riassunto in conclusioni. Osservare analizzando per poi sintetizzare e permettere ad altri di osservare per poi decidere.
Il medico è in grado di esaminare ogni tua singola traccia fisica, ma per osservare il fenomeno globalmente in tutti i pazienti, ha bisogno dello statistico che sa gestire la complessità dei dati, sa riassumerli in maniera razionale, sa testare delle ipotesi, sa fare delle stime o previsioni. Pertanto sarà una sfida per me far chiarezza su alcune tue “mosse false” e smascherare i tuoi trucchetti.
Supero l’angoscia di leggere le vicissitudini dei pazienti malati. E’ anche la mia empatia per la loro situazione che mi motiva ad andare avanti e a concentrarmi sul lavoro. Ma la mia indole “artistica”, mi induce ad immaginare un volto, una persona, una vita dietro ogni singolo nome e caso che leggo. Vite che la malattia ha reso “diverse”. Ma l’essenza principale di ogni “diversità” è dovuta al fatto che la sua espressione comporta esigenze particolari e soprattutto maggiore attenzione, sforzo di comprensione e collaborazione da parte degli Altri. Ed io cercherò di concentrare i miei sforzi, con la speranza di fare un lavoro che “abbagli”. Ma in ogni caso sarò contenta per ogni piccola “illuminazione” che riuscirò a dare.   

lunedì 30 luglio 2012

Vasi di fiori


Le idee debbono sposarsi all’azione ...
Le idee non possono esistere da sole nel vuoto del pensiero. Le idee sono in rapporto con la vita ...
L’estetica dell’idea genera vasi da fiori e i vasi da fiori si mettono alla finestra. Ma se non c’è pioggia o sole, a che giova mettere i vasi da fiori fuori dalla finestra? – Henry Miller ”

Penso sempre in questo periodo che dovrei fare qualcosa, attivarmi per trasformare le mie idee in azione. Il mio vaso da fiori è fuori sul balcone, grazie a questo blog. E sta aspettando la pioggia. Magari pioverà, ma se non voglio fare appassire i fiori, devo innaffiarli con l’acqua. L’idea non basta.
Ma cosa vuol dire nel mio caso “innaffiare”? Forse vorrebbe dire far diventare le mie idee un progetto, ma soprattutto trovarmi dei collaboratori o, meglio, far parte di un’associazione dove le mie idee possano prendere forma.
Sento che dovrei farlo, per non diventare soltanto una persona che dopo aver aperto la finestra “New post” del blog, comincia a vomitare idee, anche se poi riesce a impacchettarle come vasi da fiori. Ma cosa vorrebbe dire entrare a far parte di un’associazione?
Vorrebbe forse dire conformarsi. Infatti ciò che fa la differenza, per l’appartenenza o meno ad un gruppo, non è credere ai suoi valori, ma adeguarvisi. Un po’ come andare a messa. L’importante è partecipare, anche se non si crede. A chi importa se la nostra fede sia sincera se sappiamo “venderla” come tale? Di certo non al prete, che apprezza molto di più le offerte pecuniarie. Al pubblico interessa? No, per definire il pubblico basta la presenza, non l’intento, la volontà di presenziare.
Ciò che mi turba e mi fa sentire inetta è la mia incapacità di conformarmi: troppo donna per essere un uomo e troppo uomo per essere donna, troppo ignorante per essere erudita e troppo erudita per essere ignorante, troppo produttiva per essere perdigiorno e troppo perdigiorno per essere produttiva, troppo ingenua per essere scaltra e troppo scaltra per essere ingenua, troppo individualista per essere socievole e troppo socievole per essere individualista, troppo per essere niente e troppo poco per essere qualcosa.
Non sono nemmeno conformista nel mio stato disoccupazionale, visto che possiedo un titolo di studio e una formazione che non rientrano tra le lauree più richieste tra le mura domestiche.
Ma cosa importa avere titoli, valori, impegno concreto? Ciò che fa veramente la differenza e pone le basi per il successo è il conformismo: conformarsi all’ambiente scolastico, lavorativo, sociale ... Rispettare le regole imposte anche senza credervi.

Se ci fosse un uomo che osasse dire tutto quel che ha pensato di questo mondo, non gli resterebbe un piede quadrato di terreno su cui stare in piedi. Quando un uomo si fa avanti, il mondo gli crolla addosso e gli rompe la schiena.
Ma ne restano in piedi sempre troppe di colonne ...
La sovrastruttura è una menzogna e le fondamenta sono una paura trepidante ...
Se un uomo mai osasse tradurre tutto quel che ha nel cuore, mettere giù quella che è la sua vera esperienza, quel che è veramente verità, io credo allora che il mondo andrebbe infranto, che si sfascerebbe in frantumi ... !

Continuo a leggere “Tropico del Cancro di Miller” e a riconoscermi nell’ ”uomo” che vuole esporsi, per esprimere ciò che sente. E allora devo mediare tra il voler far qualcosa per migliorare la società ed il voler essere libera di starne fuori. Ma c’è una strada per cambiare la società senza farne parte?

 “Fianco a fianco con la razza umana scorre un’altra razza di creature, le disumane, la razza degli artisti che, stimolati da impulsi ignoti, prendono la massa inanimata dell’umanità ... rovistano l’universo, capovolgendo ogni cosa, coi piedi che sempre si muovono nel sangue e nelle lacrime, le mani sempre vuote, sempre tese ad afferrare quel che c’è oltre, il bene lontano; trucidano tutto quel che raggiungono per quietare il mostro che rode loro gli organi vitali. Vedo che quando si strappano i capelli nello sforzo di comprendere, di afferrare questo eterno inattingibile, vedo che quando muggiscono come bestie impazzite, e stracciano e trafiggono, vedo che questo è giusto, che non c’è altra strada da seguire. ... E tutto ciò che non sia questo tremendo spettacolo, tutto quello che sia meno tremendo, meno terribile, meno pazzo, meno avvelenato, meno contaminante, non è arte. E’ artifizio. E’ umano.

Ma può un essere disumano rivoluzionare l’umanità? Può senza l’aiuto della razza umana?

Toglietemi tutte queste idee. Fatemi diventare consumista. Fatemi diventare una “donna”. Fatemi guardare soltanto allo specchio. Fatemi vivere per badare soltanto alla casa o per collezionare borsette, vestiti, scarpe. Fatemi ricercare in un “uomo” il suo portafoglio ed incoraggiarne il suo maschilismo. Fatemi vivere una vita normale. Datemi un lavoro che mi renda incapace di pensare, che mi costringa soltanto ad eseguire, che mi faccia abbassare soltanto la testa. In cambio, prendetevi tutto. Le mie lauree, la mia personalità, esaminatemi pure per vedere se son pazza o malata. Prendetevi tutto e soprattutto non lasciatemi il cervello.

Forse Miller ha ragione. Dovrei essere fiera di far parte della razza disumana e di non aver come meta quella di diventare essere umano. Altrimenti ciò equivarrebbe a distruggermi.

Sono disumano ... non ho nulla a che fare coi credi e coi principii. Non ho nulla a che fare con la cigolante macchina dell’umanità ...

Ma se sono disumana allora perché ricerco l'umanità? Oppure è proprio il mio essere disumana che mi porta ad avere bisogno di ciò che non posso avere? Oppure ho in mente un'altra accezione del termine umanità?


mercoledì 25 luglio 2012

Nostalgia perversa


Ciao sono la nostalgia londinese.

Ehi, ciao. Mi sorprende la tua candidatura spontanea, visto che non ti ho chiamato. Mi spiace ma al momento non ho possibilità di inserimento nel mio animo.

Lo so, ma io il bisogno lo creo. Ti tormenterò fino a quando non mi assumerai.

Mi spiace, ma stavolta perdi tempo ed io non ho fondi. Sai come siamo messi qua!

Sei sicura? Io sono perversa, ma anche razionale, pragmatica. Ti convincerò ...

Sentiamo allora. Perchè dovrei riconoscere di provare nostalgia? Di Londra poi!

Beh non puoi negare che ti incuriosivano le “stranezze” che vedevi in giro, ti affascinava la multietnicità, il fatto che potevi mangiare cibo da tutto il mondo, potevi vestirti come volevi ...

Guarda che anche qua faccio ciò che mi pare, a misura di sguardi della gente. Per la multietnicità, basta  andare in certi quartieri della città. Certo, non è la stessa cosa, ma ci si può accontentare. Per le “stranezze”, se a Londra le vedevo, qua le immagino e sai di cosa sono capace ...

Ti mancano forse il caffè AMT e suoi derivati?

Non mi sembri tanto intelligente. Ah scusa! Dimenticavo! La tua è ironia inglese.

Ok, Veniamo ad argomenti seri. Ora stai facendo lo stesso lavoro nella tua città natale. Ma non ti pagano. Non è che ti manca la sterlina?

Good point! No ... Ho più nostalgia della lira, di quando ancora c’era mio padre. Non ha sopravvissuto abbastanza da toccare con mano un euro, anche se ne ha annusato il profumo dal forno bancario. Oh scusami! Non ti piacciono le divagazioni. Torniamo al punto. L’ambiente dove lavoro mi piace. Le persone sono umane, simpatiche e competenti.

Mi sorprende la tua ingenuità. Come fai a decantare la loro umanità se non ti pagano? Che strana simpatia questi italiani!    

Senti, se non mi pagano non è colpa loro. Al momento non ci sono fondi disponibili perchè in Italia certi privilegi irrinunciabili costano allo Stato troppi soldi. Mica si può peggiorare la condizione di chi sta già bene, no? Meglio abortire feti precari o potenziali di innovazione. D’altronde tu, da inglese, metteresti al mondo un figlio se questo volesse dire rinunciare alla possibilità di comprarti l’ultimo modello iPad e di poterlo comprare al nascituro?

Ma allora tu stai servendo il privilegio? Lavori per mantenerlo?

Io non servo nessuno. Io sono un feto che vuole nascere, nonostante lo vogliano abortire. Sento che devo nascere, anche se non possono mantenermi. Mi nutrirò con i miei mezzi. Mi basta poco per vivere.

Allora se non sarà aborto,sarà suicidio. Meglio che scendi in piazza a far la rivoluzione e ti fai arrestare, almeno mangerai gratis.

E’ assurdo! Tutti i privilegiati o gli stranieri non viventi in Italia ci incitano a far la rivoluzione. Questo mi fa riflettere sul loro potere: possono pure permettersi di prenderci in giro, tanto sanno che pure fingendo di appoggiarci manterranno il loro privilegio. Ed io dovrei farmi arrestare inutilmente per confermare la loro inespugnabilità? Quello non solo sarebbe suicidio, ma anche omicidio della mia famiglia!

E allora cosa vuoi fare? Lo sai che in Italia l’unico privilegio che difficilmente si può mantenere è l’intelligenza.

Beh! In tutta onestà nemmeno a Londra la mia intelligenza era così valorizzata. Anche se mi trattavano bene.

Vedi, riconosci che in fondo a Londra non stavi male. Certo, dicevi che ti mancava la vita sociale italiana. Ma adesso tendi di nuovo a isolarti, a chiuderti. Ti stanno pure venendo i rigurgiti anti-italiani. Sei tornata per le persone che ami. Ma le persone che ami finiranno per odiarti nel vederti ridurre in uno stato pietoso. E tu finirai per odiarle e attribuir loro la responsabilità di averti rovinato.

Mi stai tentando, anche se ti sbagli! Non ho mai ritenuto nessuno responsabile delle mie scelte. Ma, cosa mi proponi?

Io sono la nostalgia londinese. Non la passione, la spinta rivoluzionaria, patriottica ... Lascia di nuovo l’Italia. Salvati il cervello!

Londra è stata una bella esperienza. Rimpiango alcune cose, ma soltanto perchè le ho sentite parte di una mia vita, anche se di una vita in esilio. Oltre al mio dialogo quotidiano con il Tamigi, in particolare, c’è una giornata che vorrei rivivere, ma di fatto quella giornata ha un legame con l’Italia. Il resto di ciò che rimpiango è piuttosto superficiale e facilmente sostituibile, grazie al mercato globalizzato.  Comunque a Londra non ci tornerei. Sono troppo burocratici.

E allora perchè non vai in Francia o in Germania?

Servire un altro paese ricco? No, grazie...

Ma almeno lì potresti vivere.

Vivere come? Facendo la stessa vita, ma usa e getta, senza poter costruire nulla di stabile, senza parenti, casa propria o senza poter aiutare nessuno?

Ma almeno la tua intelligenza sarebbe ben investita.

Diciamo che sarebbe soltanto ben retribuita. In realtà la mia intelligenza sarebbe ben investita se emigrassi in un Paese povero.

Beh! In Italia siamo sulla buona strada.

Ti sbagli! L’Italia è un Paese di falsi poveri. Altrimenti apprezzerebbe e riconoscerebbe la mia buona volontà e voglia di “sporcarmi le mani”  (di terra da lavoro, non di sangue o denaro sporco). E invece, no! Decidono per me: se non possono garantirmi la paga e il prestigio che avevo nel lavoro precedente allora mi lasciano a casa. E sappiamo tutti che i redditi inglesi non sono paragonabili a quelli italiani. E quindi mi impiego nel volontariato, sicura che qualcosa accadrà.

Sei solo una sciocca.

Sei solo nostalgia, che ti spiace di non aver vinto questa volta.

domenica 22 luglio 2012

La delega

Paghiamo per delegare.
Deleghiamo per non fare.
Non facciamo per non stancarci.
Non ci stanchiamo per non stare male.
Stiamo male e andiamo dal medico.
Andiamo dal medico per farci curare.
Ci facciamo curare per non prenderci cura di noi.
La nostra cura e il nostro benessere dipendono dalla nostra attenzione.
La nostra attenzione richiede la nostra presenza.
La nostra presenza è la nostra vita.
La nostra vita non può essere delegata.

Ho composto questi versi a seguito di una riflessione piuttosto banale, in un giorno di pigrizia: “quanto è faticoso vivere!”. Quanto tempo a pulire casa! Quanto tempo per cucinare! Quanto tempo per organizzare la giornata! Quanta fatica nel formalizzare i miei pensieri la cui scarica elettrica disturba la mia mente! Quanti pensieri con mia sorella non autosufficiente, il cui benessere dipende da persone che pago per delegare la mia responsabilità assistenziale. Persone di cui mi devo fidare se non voglio attivarmi per gestire in prima persona la situazione, se non voglio essere presente. Ma fino a che punto posso delegare la mia presenza? Fino a che punto posso disinteressarmi dei miei problemi? Le mie sorelle, la mia salute, la mia precarietà, la mia responsabilità? 

La dannazione umana è l’insensibilità. Non accorgersi, non vedere, non farci caso. E’ una cosa che va esercitata, si comincia ignorando la gente che dorme sui marciapiedi. Si finisce per non accorgersi che il caffè è senza zucchero. La rivoluzione non ci sarà. (Jacopo Fo).” 

L’insensibilità è la virtù delle macchine. Le macchine non reagiscono neanche se le si vuole rompere. Le macchine pagano senza protestare, senza essere presenti. E noi stiamo sempre più assomigliando a loro. Andiamo avanti azionando il meccanismo del pagamento. Deleghiamo e paghiamo per il nostro tempo, la nostra salute e il nostro svago. Paghiamo per avere tempo che poi buttiamo via. Paghiamo per la salute che poi trascuriamo. Paghiamo per lo svago, per la distrazione, per la fuga dalla realtà. Realtà di cui facciamo parte senza essere coinvolti. Realtà che accettiamo delegando. Deleghe che possiamo permetterci solo pagando. Paghiamo il prezzo della dipendenza e dell’insensibilità. Meglio pagare in denaro che in fatica umana, fisica o mentale che sia. Meglio aprire il portafoglio che la mente. Ecco perchè la vita è così cara dal punto di vista economico. Ma per cosa risparmiamo le fatiche? Abbiamo progetti di investimento? 

"La vita è una perpetua distrazione, che non lascia neppur prendere coscienza di ciò da cui distrae. (F.Kafka)."

 Ma ciò da cui vogliamo distrarci non è il pensiero della morte? E allora viviamo, con tutta la fatica che la vita richiede! Con tutto il dolore che la sensibilità infligge!

lunedì 9 luglio 2012

Flessi F rigidità

Dopo circa sei mesi di riflessione, forzata dalla disoccupazione, ho finalmente trovato una collocazione nella mia città. O meglio, adesso faccio di nuovo parte di un centro di ricerca, anche se, a causa dei tagli, non posso essere assunta con un contratto di lavoro dipendente, ma ricevo almeno un compenso per collaborazioni varie. Però sono contenta perchè avrò occasione di poter far ricerca nell’ambito dell’epidemiologia dei tumori.   

Io sono disponibile ad essere flessibile e ad adeguarmi per fare ciò in cui credo. E’ anche grazie alla mia determinazione se riprenderò a lavorare. Infatti non credo sia giusto che la ricerca debba fermarsi a causa dei vari tagli. Ed io piuttosto lavorerei anche a titolo gratuito.

Io sarei ben disposta a farlo, ma quali sarebbero le alternative se non lo facessi? Ciò che ho fatto finora. Stare a casa, senza avere un ruolo sociale e senza neanche poter sperare in un futuro lavorativo. E allora la mia flessibilità, pur di fatto essendo una scelta, diventa un’imposizione, il mio volontariato una sorta di lavoro forzato, la mia “vocazione” una “forzatura”.

E la flessibilità, si intende, è sempre a carico del lavoratore. Infatti se il mercato fosse altrettanto flessibile potrebbe assumermi anche senza richiedermi esperienza nel settore, accontentandosi della mia buona volontà e del mio potenziale. Ma non è così. Mi son sentita dire che ho un curriculum particolare, un profilo troppo elevato. Ma troppo elevato per cosa? Per stare all’altezza del quadro aziendale?

Sono tornata in Italia consapevole di non poter pretendere di fare carriera come ricercatrice, ma disposta ad adeguarmi pur di vivere con il mio convivente e di abitare vicino alle mie sorelle. Ma allora perchè il mercato ha mille pregiudizi ed è così rigido? Perchè non è in grado di “adeguarsi” alla mia candidatura? Perchè ha mille pretese: competitività, produttività e tutte le varie formule per far fronte alla crisi.

Ma è giusto che soltanto le aziende abbiano pretese ed i lavoratori no? Ma è giusto costringere le persone ad essere flessibili? Rendere flessibile qualcosa che non può esserlo vuol dire di fatto spezzarlo. Se per ipotesi infatti mi ammalassi? Addio tutto. Addio progetti di ricerca. In tal caso, l’imposizione della flessibilità mi darebbe soltanto il colpo di grazia. Inoltre la flessibilità imposta decide anche la tua residenza (e magari anche il tuo divorzio con il coniuge). Infatti se uno non è disposto o non può per varie ragioni spostarsi ed ha una certa esperienza nel settore, non è detto che possa trovare lavoro in altri settori se rimane nella sua città di origine.

E’ questo che chiamiamo progresso? Miglioramento delle condizioni di vita e delle possibilità di sviluppo? In Italia siamo indietro, si sente sempre dire. Ma a che cosa ci riferiamo? Che cos’è l’”avanti” a cui miriamo? Sogniamo il modello statunitense o ci accontentiamo del modello tedesco? Certo, magari gli altri Paesi pagano meno tasse, hanno più soldi per la ricerca, la gente può consumare di più, la benzina costa meno.  Ma è solo questo che ci interessa? E’ solo questo da cui dipende la nostra società?

“Il lavoro non è un diritto”. Certamente non lo è. Ma pensate che negli altri Paesi lo sia? Volete che il lavoro sia garantito a tutti? Allora forse occorrerebbe sacrificare l’attuale sistema capitalista. Capisco, vi fa paura la parola “com......” associata a “Pericolo rosso”, “Anti-Cristo”, “Regime”, “Rinuncia alla proprietà” e tutti gli altri luoghi comuni dietro cui si nasconde quella parola? Ma credete che mantenendo l’attuale sistema tali pericoli non si prospettino? Non penso che pagheremo più di quel che stiamo pagando ora. La differenza è che forse potremmo avere servizi migliori.

E poi basta nascondersi dietro falsi ideali e farne una questione politica. Bisognerebbe unirsi anzichè dividersi. Basta con la creazione di nuove associazioni, ciascuna con una virgola in più che la distingua dalle altre per salvaguardare il protagonismo individuale. Le associazioni dovrebbero lottare unite, anzichè divise. Le relazioni dovrebbero fondarsi su ciò che unisce le parti, non su ciò che le divide. Vi capisco, anche io ho bisogno di protagonismo e libertà. Ed è anche per questo che scrivo questo blog. Ma un’associazione è ben altro. E quando si tratta di cooperare, sono ben disposta a mettere da parte il mio ego.  

Ma cooperare non vuol certo mica dire premere il tasto “Condividi” sui social network e poi continuare a farsi i fatti propri. Quella è solo ipocrisia. Sui social network siamo tutti rivoluzionari, abbiamo tutti dei valori, crediamo tutti in qualcosa. Ma poi?

Molta gente di fatto critica solo il rigore dell’attuale Governo, ma in fondo in fondo pensa: “Si stava meglio quando c’era il Cavaliere. Almeno si poteva “cavalcare”, spendere, evadere ...”

Ma ciò che mi chiedo è: “Dove ci porterà questo rigore?” Da una parte pensavo fosse necessario e servisse veramente a migliorare. Ma più passa il tempo e più ne dubito, chiedendomi dove si voglia andare a parare. Quale sarà il futuro? Potrò fare ricerca senza essere precaria o, in alternativa, trovare un lavoro dignitoso?

E nel frattempo, paghiamo. Paghiamo per essere flessibili, per non poter condurre ciò che i nostri genitori con meno soldi mandavano avanti: la baracca familiare. Baracca, non di lusso, ma stabile. Mentre ora si sogna il lusso, anche se ciò richiede di vivere in una roulotte pagandone pure la tassa.  

Sono stanca. Sono stanca di leggere cazzate. Sono stanca di firmare petizioni che servono solo da marketing per varie associazioni. Sono stanca di aziende che prima di assumerti cercano in rete il tuo nome per vedere se la tua immagine è "pulita". Sono stanca di persone che non parlano in maniera chiara. Sono stanca persino di poter soltanto scrivere, a tempo perso, per raggiungere i miei lettori. Sono stanca di essere stanca senza far nulla.