venerdì 23 settembre 2011

Precarieta'

Tra pochi mesi “ scadro’ ” a Londra, o forse Londra “ scadra’ ” a me. Spesso e’ reciproco: ti assumono per un anno, con possibilita’ di rinnovo. Poi effettivamente i fondi ci sono e anche le prospettive future, ma nella tua mente e’ subentrata la scadenza. Ti dicono un anno e quindi ti prepari psicologicamente: affitti la casa per un anno, ti vincoli a pagare le bollette per quel periodo, ti concentri su obiettivi annuali che poi raggiungi e con essi si conclude anche il tuo contributo lavorativo. “Consumare preferibilmente entro (vedi contratto di assunzione)”. Tutto cio’ che potevi guadagnare l’hai introitato e cosi’ ha fatto l’azienda, con il risultato di sentirti un consumatore un po’ consumato. 
Con il contratto a tempo indeterminato invece la scadenza e’ molto piu’ naturale: finche’ c’e’ vita, da parte tua e dell’azienda oppure finche’ entrambe vi sopportate.
Non ho mai ricevuto una proposta senza termine prestabilito. Sara’ forse perche’ non cerco la stabilita’ o perche’ essa e’ diventata un lusso che pochi possono permettersi?
Il capo mi rassicura che non ci sono problemi ad ottenere il rinnovo del contratto, ma piuttosto sono io che devo decidere se chiederlo o meno.  Pero’ obietto che sulla carta nessuna proroga e’ menzionata. In realta’ mi fido delle sue parole, ma in fondo vorrei trovare una giustificazione per concludere l’esperienza, per delegare a fattori esterni la responsabilita’ della mia decisione.
In effetti non ho mai lavorato piu’ di un anno nello stesso posto, tranne all’Universita’ dove la scadenza era triennale e vincolata all’ottenimento del titolo di dottore di ricerca. Eppure mi sembrerebbe irrazionale rinunciare a proseguire l’attuale carriera. Non posso certamente lamentarmi della mia posizione: e’ un lavoro che valorizza le mie qualifiche ed e’ anche decentemente remunerato. Inoltre, al momento, non richiede neanche troppa fatica.
Sembra proprio la giusta ricompensa per le difficolta’ e i sacrifici fatti in passato. E allora, perche’ dubito di rimanere? Il lavoro che faccio e’ individuale. Sono l’unica statistica della terapia intensiva. Non ho confronto con i pari, ma solo con i medici ad alto livello o, di recente, con una “stagista”. L’aspetto positivo e’ l’autonomia che ho nell’organizzazione del mio lavoro, subordinatamente al carico stabilito dal capo e alle scadenze fissate dalle conferenze, riunioni, proposte di articoli a cui pero’ non partecipo anche se ottengo il riconoscimento del merito nelle pubblicazioni. Il lato negativo e’ che non ho modo di discutere dei risultati delle mie analisi statistiche con esperti in biostatistica, ma soltanto con i medici che si preoccupano piu’ dei numeri in se’ e della loro rilevanza clinica piuttosto che del processo che li ha generati.
E’ vero che ogni azienda ha i suoi problemi ed ogni lavoro presenta i suoi lati negativi, ma il punto fondamentale e’ che non sono attaccata a cio’ che faccio. Anzi, spesso me ne sento distaccata. Ed e’ per questo che non mi sembrerebbe ragionevole rifiutare una nuova proposta di assunzione, ma neanche accettarla. Penso di non aver nulla da perdere, se non la busta paga, ma nemmeno da guadagnare, oltre al reddito. Infatti nessuno mi insegna il mestiere, ma sono io che devo imparare da sola cio’ che non conosco e che e’ utile per il lavoro che devo fare.  Da un lato mi alletta, ma sento la mancanza di un esperto di riferimento con cui potermi relazionare e confrontare. Inoltre vorrei lavorare di piu' con le persone, elaborare idee, sviluppare concetti piuttosto che limitarmi ad analizzare dati numerici, elaborare tabelle e sviluppare modelli statistici.
A volte penso che mi sentirei piu' utile e sarei piu' soddisfatta se potessi aiutare i pazienti in ospedale, anziche' imbambolarmi davanti al computer a pensare e a produrre risultati che non si sa in quale modo contribuiscano a migliorare la vita dei degenti.
Forse il mio atteggiamento deriva soltanto dalla curiosita' per le novita', per l'incognito, per le strade non intraprese, per le mansioni di cui non sono competente.
Sarebbe tutto piu’ semplice se potessi godere di cio' che ho e non voler abbandonarlo per cercare di conquistare quello che non ho o per seguire i miei “spiriti animali”.
Ma non voglio rimanere ingabbiata in cio’ che ho realizzato finora. Si costruisce una rete per pescare, ma non per caderci dentro. Ho studiato per avere piu’ possibilita’, per essere libera di scegliere, ma non per individuare un terreno dentro il quale infossarmi. Ho studiato anche per essere libera di cambiare o migliorare.
Il cambiamento richiede mettere in discussione cio’ che si ha e vincere l'inerzia dovuta all'abitudine.
La precarieta’ ha il suo lato positivo: induce a pensare che nulla e’ duraturo, che ogni progetto ha un termine, che non si possiede nulla al di la’ delle proprie capacita’, l’unico vero patrimonio che consente la propria sopravvivenza, una volta conclusasi un’esperienza lavorativa. 
Piu’ ci si concentra su cio’ che si ha e piu’ ci si dimentica di cio’ che si e’. Ma allora chi sono? Rimarro’ a Londra o cambiero’ destinazione? 

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