Lavorando a Londra, si diventa sensibili alle differenze culturali. Aldilà del modo di vestirsi, della carnagione o delle fattezze fisiche, si nota nettamente la differenza tra un inglese “autentico”, nativo, ed uno “taroccato” (con tutto il rispetto per le signore sottomarche).
A fornirmi un esempio e’ il mio attuale capo che, per quanto risieda da anni a Londra ed occupi una posizione professionale rilevante, non ha l’atteggiamento ed i modi di fare di un tipico inglese. Con lui infatti e’ molto più facile parlare e mi trovo a mio agio. La schiettezza e la spontaneità invece non si addicono certamente all’ “etichetta inglese”. Gli inglesi non parlano mai in maniera diretta, ma piuttosto subdola.
Condivido l’ufficio con persone che hanno diverse origini. Tra di esse, spicca una signora inglese che e’ cortese, non si esprime mai senza mezzi termini, non lascia trasparire i suoi veri sentimenti e la sua vera opinione, interagisce con gli altri seguendo un certo rituale, ripetendo sempre le stesse frasi in occasioni simili, come se recitasse un copione. Il suo modo di socializzare e’ forzato. Segue delle regole particolari, non pone mai domande dirette ed in generale non tende a far domande all’interlocutore.
Usa spesso l’ironia e la falsa modestia che solo un vero inglese possono capire e condividere. Quando parla con altri “inglesi autentici”, usa un tono diverso, parlando quasi in codice e, a volte, bisbigliando all’orecchio chissà quali segreti o pettegolezzi. Non contraddice mai nessuno, se non indirettamente. Infatti l’”etichetta inglese” impone di assecondare sempre l’interlocutore. “Nice day, isn’it?” (“Bella giornata, non trovi?”) mi chiese. “Mmmh, yesterday was better” (“Mmmh, ieri era migliore”) risposi. Ci fu silenzio. Non mi rivolse più la parola finché non lo impose la necessità. Infatti avevo violato un tabù. “Nice day, isn’it?” non esprime un’ osservazione oggettiva o soggettiva sulle condizioni atmosferiche, ma e’ un “preliminare” , un modo per rompere il ghiaccio, per iniziare un discorso. La mia risposta, pur essendo razionale, e’ stata interpretata quasi come un’offesa, un insulto al quieto vivere, alla cortesia e all’accondiscendenza. Ma cosa dovevo risponderle che la giornata era bella se c’era un sole fiacco? Perché non dialogare esprimendo le proprie vere impressioni? Spesso sento dire: “It’s warm today, isn’it?” (“Fa caldo oggi, non trovi?”). E’ davvero forte la tentazione di rispondere l’equivalente in inglese dell’espressione: “E lo chiami caldo questo? Sei mai stato in Italia?” Ma rispondo: “Yes, isn’it?”. Poi però sto zitta, assorta nei miei pensieri. Non ho voglia di parlare: ho violato uno dei miei tabù: la franchezza. Si può stare al gioco, abituarsi, ma si perde l’interesse verso l’Altro, ci si sente distaccati, con indosso una maschera. E’ come vedere se stessi rispondere senza intervenire, limitandosi soltanto a schiacciare il pulsante della risposta automatica: “Yes, isn’it?”. Le altre persone del mio ufficio, non inglesi autentici, si sono adattate al quieto vivere, ma si vede che non lo esaltano e non ne sono fautori. Sono pacati, educati, ma non con la cortesia inglese, che spesso è solo ipocrisia. Nessuno però osa parlare in termini diretti. Nessuno osa dire: “Possiamo spegnere il condizionatore perché ho freddo”. Il freddo passa se l’altro dice: “It’s warm, isn’it?” (“Fa caldo, non trovi?”) “Yes, it is”. Mai contraddire! Piuttosto meglio morire di freddo. Si risparmierebbe energia elettrica in Italia se le temperature estive fossero ai livelli londinesi. E invece a Londra si accende l’aria condizionata persino se la temperatura e’ di ventitre gradi. Forse si ha paura che le teste diventino “calde”.
Gli inglesi sono flemmatici, rimangono impassibili di fronte ad ogni situazione. Ciò implica anche esprimersi attenuando sia gli aspetti negativi che quelli positivi di una condizione o situazione. Il loro “Not too bad” (“Non troppo male”) corrisponde al mio “Bene” mentre “We have some problems we need to fix” (”Abbiamo qualche problema da risolvere”) corrisponde al mio “La situazione e’ un disastro”.
Avevo da poco iniziato a lavorare quando due persone, che non conoscevo, entrarono nel mio ufficio ad utilizzare uno dei computer momentaneamente disponibili. Parlavano ad alta voce e ridevano, forse approfittando dell’assenza di due mie colleghe di stanza. Dovevo concentrarmi a finire un lavoro e percepii che anche l’altro mio collega sembrava infastidito dalla loro presenza. Mi venne spontaneo chiedere loro se potevano evitare di parlare ad alta voce perché avevo bisogno di concentrazione. Mi lanciarono di sfuggita occhiate malevoli, ma rimasero impassibili. Uscirono. Non dissero nulla, ignorandomi, ma in fondo considerandomi sgarbata. Nessuno protesta se non si rispettano le regole dell’etichetta inglese. Ma se si vuole vivere e non essere di fatto discriminati bisogna adeguarsi. Ciò non tollera l’abbandono della propria individualità.
Infatti, benché le regole sociali inglesi siano piuttosto repressive (ci si ubriaca anche seguendo l‘etichetta), gli inglesi valorizzano la propria individualità. Molte mode stravaganti nascono infatti in Inghilterra. Inoltre per gli inglesi il tempo libero e l’impegno in attività extralavorative è quasi sacro. A qualsiasi livello professionale, a meno che non ci siano situazioni di vera necessità, ben pochi rinunciano alle ferie per motivi di lavoro. Ben pochi stanno in ufficio dopo le cinque e mezza del pomeriggio. Non esiste la classica “pausa pranzo italiana”. Ognuno mangia quando vuole e spesso davanti alla scrivania. In tal modo si riesce a sfruttare meglio il proprio tempo libero. Se il lavoro è fattibile stando a casa, gli inglesi preferiscono non recarsi in ufficio e comunicare via mail. Ciò che conta è il risultato, non le ore di presenza in ufficio, che non ha lo stesso significato sociale dell'ufficio italiano.
Se in Inghilterra le regole sociali sono “repressive”, in Italia invece sono quasi “esplosive”. Per le strade, e negli sportelli degli uffici pubblici, risuonano lamentele e insulti. E’ sempre colpa del Governo, anche se la propria vita privata va a rotoli. La colpa del Ministro infatti si riflette sul dipendente dell’ufficio, sul vicino di casa o sul collega di lavoro. Certamente il Governo fa la sua parte. Ma per quanto riguarda la propria vita privata, ognuno dovrebbe governare la sua. Il Governo, con le tasse, i tagli alla spesa pubblica e le leggi influenza ovviamente la nostra vita privata e le nostre scelte, ma non e’ responsabile per esse. Siamo noi i conducenti della nostra vettura, mentre lo Stato rappresenta il traffico, la polizia e l’inquinamento. Nonostante ciò siamo noi che viaggiamo e che decidiamo la nostra destinazione.
Ma in Italia si tende a reprimere la propria individualità. L’Italiano predilige le attività sociali, si muove in gruppo, si affida e dà fiducia all’Altro. In Italia e’ molto più facile trovare dei veri amici, o persone che sacrificano la propria individualità per gli altri.
Il concetto di società implica però anche quello di conformismo. Ma se l’inglese e’ conformista per preservare la propria individualità nella società, l’Italiano invece lo e’ per sacrificare la propria individualità alla società. Se fosse un animale, l’inglese sarebbe un gatto, mentre l’Italiano un cane. Entrambi comunque sono animali domestici. Ma può una bestia nata nella terra dei cani sentirsi a casa nella terra dei gatti?
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