Mia sorella si riprese e dimostro’ di essere in grado di andare avanti da sola, anche se con il mio supporto e con quello del suo fidanzato. Tutta la sua attenzione si sposto’ verso l’altra mia sorella, della quale ancora adesso ne cura l’assistenza. “Non devi sentirti obbligata solo perche’ la mamma le badava in via continuativa”, le dico sempre. Ma per il momento e’ ferma nella sua decisione. Se la mia famiglia e’ ancora in vita, nonostante la mancanza di entrambe i genitori, e’ merito di quest’altra sorella, che ci lega ancora insieme e che ci impedisce di vivere le nostre vite senza legami, indipendentemente l’una dall’altra.
Tuttavia, dopo aver sbrigato alcune pratiche, avrei potuto permettermi di seguire la strada che mi avrebbe condotto alla felicita’. Mi riconciliai con il mio ex-convivente. Dopo aver lottato contro il mio orgoglio e la mia indipendenza, realizzai che il sentimento che provavo per lui era piu’ forte di qualsiasi altra mia convinzione, ideale o filosofia che ci aveva allontanati. Se era vero che stavo bene da sola, era anche vero che stavo meglio con lui. E se da sola potevo fare molto, con lui avrei potuto fare di piu’.
“Non voglio sposarmi. Non voglio avere figli”. Era stata questa la mia ferma convinzione, quando frequentavo il dottorato di ricerca. Ma esprimeva una Volonta’ o una Legge? Nasceva come volonta’, motivata dalla ricerca del piacere e della soddisfazione personale attraverso la realizzazione dell’Ideale. Ma poi divenne una vera e propria Legge che, se seguita religiosamente, conduceva all’estraniazione, alla rinuncia ad ogni “istituzione sociale” e rischiava di allontanarmi da qualsiasi relazione umana e dalle mie stesse funzioni vitali.
Inoltre, era accompagnata dall’esperienza familiare personale che spesso era stata la causa della mia sofferenza. “Fare figli? Che assurdita’!” Pensavo.”Generare per trasmettere la mia rabbia, la mia ribellione, il mio malessere. Assolutamente no. In fondo, se non ho mai chiesto di venire al mondo, come posso decidere per un altro? Inoltre, non voglio che la realizzazione della mia vita avvenga attraverso un’altra vita: il bambino non deve servire per completare il mio essere.” Ma allora, perche’ quando vedevo un bambino per la strada distoglievo l’attenzione verso i miei pensieri e lo guardavo intenerita e sorridente? Non avrei forse anche io voluto stringere una creatura fra le braccia? Perche’ pensavo di non aver nulla di positivo da insegnare e da trasmettere? “Gia’ e’ difficile occuparmi e prendermi cura di me stessa, come potrei prendermi cura anche di un’altra persona?”.
Il mio convivente invece pensava fosse scontato e naturale che prima o poi avessimo avuto dei figli. In effetti, quando siamo andati a vivere insieme pensavo che, benche’ la famiglia non fosse mai stata il mio sogno, lui era l’unica persona con la quale la progenie avrebbe avuto senso e valore. Certamente i miei problemi personali hanno contribuito alla nostra separazione, ma il vero motivo sono state le incomprensioni per mancanza di dialogo. Infatti spesso, immersi nelle nostre discussioni intellettuali e distratti dal nostro rispettivo lavoro, trascuravamo alcuni aspetti pratici della convivenza e della gestione casalinga, ma soprattutto evitavamo di discutere del futuro e di eventuali obiettivi da realizzare insieme. Pertanto pensai che fossimo entrambi due edonisti e che non saremmo stati in grado di gestire il menage familiare.
Inoltre la parola matrimonio era per me sinonimo di gabbia, di appiattimento dei desideri, di ruolo sociale anziche’ personale, tutte conseguenze della verbalizzazione di un comportamento spontaneo. Invece la convivenza non mi spaventava perche’ mi consentiva, o semmai mi dava l’illusione, di mantenere la mia indipendenza e liberta’, pur di fatto comportandomi come se fossi sposata. La parola famiglia invece mi evocava depressione, vecchiaia, problemi e grane. Ma in realta’ cio’ era causato dal pensiero di mio padre e della sua ricerca di evasione dall’ambiente familiare che lo soffocava. Ed empatizzavo questo malessere.
D’altro canto pero’ la mia famiglia mi ha trasmesso dei valori inestimabili che valgono di piu’ di qualsiasi contributo lasciato su una rivista accademica o su una pubblicazione scientifica. Infatti questi valori sono unici, poiche’ nessun’altra famiglia puo’ trasmetterli allo stesso modo. In fondo, trasmettere dei valori non e’ analogo ad “illuminare” gli studenti in classe? E allora, perche’ mi sarebbe piaciuto diventare professoressa e non madre? Insegnare la vita non e’ piu’ importante, interessante e complesso di insegnare la matematica? Ma in fondo sapevo che dovevo ancora imparare a vivere e che attribuivo alla vita un significato troppo dannoso da poter divulgare. E il predicare bene e razzolare male non si addiceva alla mia natura, ne’ si addice tuttora.
La malattia di mia madre pero’ mi aveva cambiato e dopo la sua morte la mia sola ambizione era quella di poter vivere. Vivere giorno per giorno, non mirando al raggiungimento di alcun obiettivo, ma vivendo in sintonia con la propria natura e con i propri sentimenti, libera da ogni pregiudizio su me stessa e da ogni condizionamento esterno. Soltanto cosi’ avrei potuto imboccare la via per raggiungere la felicita’. In fondo, pensare di non essere una buona madre o di non trarre soddisfazione dalla condotta di una vita ordinaria era un preconcetto che mi avrebbe allontanato da un percorso che forse avrebbe potuto piacermi.
“Non devo impormi nessun limite”. Si puo’ arrivare dappertutto, basta solo non vincolarsi a determinate strade da seguire.
E volevo ritornare a vivere con il mio ex-convivente. Cio’ voleva dire abbandonare ogni principio anti-familiare e, soprattutto, abbattere ogni confine geografico. Infatti il mio ex-convivente, dopo la nostra rottura, si era trasferito per studio e lavoro a Londra.
Ma nulla piu’ poteva impedirmi di raggiungerlo, visto che lui mi voleva e che mi avrebbe accolto di nuovo fra le sue braccia.
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