Quando arrivai a Londra, diedi maggiore importanza alla capacita’ di adattamento e sopravvivenza, piuttosto che alla salvaguardia della mia “dignita’ professionale”. Pertanto, pur di non restare disoccupata, avrei accettato qualsiasi lavoro. Ma avrei mai potuto fare la barista o servire ai tavoli di un ristorante? Avevo quasi trent’anni ormai. Nessuna esperienza. Sarei stata imbranata, lenta ad eseguire le ordinazioni. Gli anni di studio mi avevano allontanato dalla manualita’ e, in un certo senso, rincretinito. Inoltre, in un paese straniero sarebbe stato doppiamente difficile per le difficolta’ linguistiche e culturali. Ma anche se avessi proposto la mia candidatura, non mi avrebbero certamente considerato.
Ero dibattuta tra due forze dentro di me: quella rivoluzionaria che rinnegava tutte le scelte che avevo fatto finora: l’eccellenza, lo studio, la ricerca e quella conservatrice che mi induceva a mantenere la mia posizione, o possibilmente a migliorarla, focalizzandomi su un lavoro qualificato e in linea con il mio curriculum vitae. La prima forza mi esortava a pensare soltanto al presente, dimenticandomi completamente del passato e ripartendo da zero. La seconda invece mi incoraggiava ad andare avanti mantenendo la stessa strada. In fondo non si possono vivere tutte le possibilita’ e nel corso degli anni avevo scelto la mia. Ma era cio’ che volevo?. Vivevo con il mio ragazzo. Ora eravamo finalmente tranquilli in una casa solo per noi. Cambiare in questo momento avrebbe voluto dire andare contro la ragione per cui mi trovavo a Londra e forse sperimentare nuovamente la nostalgia e la vacuita’ di vivere senza il mio convivente. Inoltre, non avendo piu’ il padre, cercavo di trovarvi un’impersonificazione nel mio ex relatore della tesi o nel mio ex capo, con i quali avevo mantenuto i contatti. Cosa penserebbero di me se gli dicessi che adesso lavoro in un bar? Probabilmente penserebbero di aver fallito nel loro mestiere, come un padre penserebbe di aver fallito nel suo ruolo educativo. Ma ovviamente non sono loro a dover vivere la mia vita e se la mia vita fosse felice a seguito di una strada non raccomandabile, probabilmente l’accetterebbero pensando che quella sia stata la scelta per me congeniale. Ma se avessi rinnegato tutto sarei stata felice? Non ero giunta alla conclusione che la mia felicita’ era vivere con il mio convivente?
Pertanto mi lasciai guidare dalla seconda forza, in difesa della mia “dignita’” accademica e professionale.
Trovai per caso un annuncio su internet: la terapia intensiva di un importante ospedale di Londra cercava un ricercatore in biostatistica. La posizione sembrava prestigiosa e avevo sulla carta tutti i requisiti richiesti nonche’ l’esperienza nel settore. Il bando stava per scadere. Mi affrettai ad inviare il curriculum e la domanda di candidatura, la cosiddetta “application form”. Mi sembrava la migliore possibilita’ che si fosse prospettata, anche dal punto di vista remunerativo. Mi selezionarono per il colloquio, che verteva sulla presentazione di un determinato articolo scientifico. Dovevo illustrarne la metodologia e descriverne l’analisi statistica ad un team di medici. Visto che la mia ultima esperienza lavorativa mi aveva dato la possibilita’ di affacciarmi alla realta’ medica, sapevo come approcciare il team e ovviare alle loro difficolta’ di comprensione delle materie statistiche. Sapevo pertanto come condurre il colloquio con successo, se fossi entrata in sintonia con gli astanti e se mi fossi trovata in un ambiente “ispirazionale”.
Lo scoraggiamento per i fallimenti ai colloqui finora sostenuti non vinse la mia grinta, passione e bramosia per la vittoria finale.
Il luogo non sembrava affatto un ospedale: negozi, luci, colori, fotografie e quadri appesi diversi da crocefissi e ritratti dei benefattori.
La segreteria della terapia intensiva mi incuriosi’ e diverti’: oggetti sistemati a caso, dossier e fogli accatastati ovunque. Mi invitarono ad accomodarmi su una sedia posizionata in un angolo, tra una stampante ed un fax. Si capiva che tale disordine derivava dall’ingegno per la mancanza di spazio. “Questo e’ il posto ideale per me”, pensai. “Non ha nulla in comune con gli ambienti asettici, ordinati che non lasciano neanche lo spazio per l’immaginazione e la fantasia. Sembra che in questo posto le persone e gli oggetti non abbiano una sistemazione fissa e organizzata e non mi stupirei se la mia postazione fosse itinerante.”
Arrivo’ il momento del colloquio, in una stanza piu’ appropriata. Quattro uomini dalla faccia simpatica e bonaria si presentarono. Uno di loro mi ricordava il mio ex capo e non solo gli assomigliava, ma lo conosceva anche personalmente, come emerse in seguito nel corso dell’intervista. La mia presentazione fu un gran trionfo, nonostante il mio inglese non britannico. Al termine del colloquio, il segretario mi disse, ridacchiando, che mi avrebbero contattato il prima possibile.
Dopo il colloquio, attraversai il ponte per prendere il bus di ritorno. Il sole si rifletteva sul Tamigi e sul mio volto. La sera stessa ricevetti la telefonata da parte di uno dei medici presenti al colloquio. Mi comunicava che volevano assumermi e che avrei ricevuto un’offerta condizionata al buon fine di tutti i controlli penali, dell’idoneita’ fisica e psicofisica e delle lettere di referenza. Per queste ultime saro’ sempre riconoscente al mio ex capo e al mio ex relatore della tesi. Infatti e’ anche grazie a loro se ancora adesso lavoro di fronte al Big Ben.
Non avrei mai immaginato che il mio orologio biologico avesse dovuto “sintonizzarsi” con quello della “Torre dell'Orologio”.
Non avrei mai immaginato che il mio orologio biologico avesse dovuto “sintonizzarsi” con quello della “Torre dell'Orologio”.
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