domenica 5 giugno 2011

Il ponte levatoio

Lo studio ha avuto un effetto sedante su di me. La bambina vivace, turbolenta e pestifera diventava introversa, riflessiva e taciturna. L'energia dell'azione diventava energia del pensiero. La mia iniziale ribellione alle convenzioni delle scuole elementari: il grembiule, la penna stilografica, i quaderni senza "orecchie" e foderati, il diario non istoriato ... si tramutava in consapevole accettazione di una fase transitoria del processo educativo e formativo. "Quando saro' grande saro' libera di fare quello che voglio". Pensavo. E vedevo lo studio come l'unica via per l'emancipazione, l'unico modo per ottenere il riconoscimento dell'adulto e l'unico modo per diventare adulta.
Alle scuole medie, ero diventata completamente autonoma. Non richiedevo piu' il supporto di mio padre e neanche il suo consiglio che, per quanto razionale e obiettivo, mi sembrava distaccato e non conforme alla mia indole. Cominciavo a non sopportare la gabbia familiare. Volevo uscirne, volevo esplorare la realta'. Volevo raggiungere l'Altro "estraneo". Non percepivo soltanto il bisogno di conoscenza, ma anche di esperienza.
Mi resi conto che lo studio era un ponte levatoio, un ponte mobile di collegamento con l'Altro: si abbassava quando dall'altra parte c'era un adulto, si sollevava quanto dall'altra parte c'era una persona della mia generazione. Pertanto, se volevo comunicare ed ottenere un riconoscimento dai miei coetanei. dovevo usare un altro ponte piu' stabile. Ma quale fosse non lo sapevo.
"Percorri la tua strada. I tuoi compagni di classe sono la tapezzeria della classe. Non preoccuparti se non riesci a stabilire un collegamento". Ma io ero proprio interessata ad essere parte integrante della "tapezzeria" in quanto e' l'elemento che rende vivibile un ambiente.
A scuola viene esasperata l'importanza del rendimento scolastico piuttosto che la vivibilita' dello stesso. Il genitore chiede all'insegnante: "Come va mio figlio?". E intende dire "Come rende? Quanto produce?" e non "Come vive in classe? Qual e' la qualita' della sua produzione?".
La mia priorita', alla fine della scuola dell'obbligo, non era limitarsi ad osservare la "tappezzeria", ma farne parte: contribuendo alla vivibilita' dell'ambiente e goderne.
Non sapendo se avrei voluto instaurare con lo studio un rapporto "verticale", dissi a mio padre che non ero sicura di voler proseguire gli studi fino all'Universita' e pertanto pensavo che fosse piu' razionale iscrivermi all'istituto tecnico commerciale. Mio padre capi' le mie ragioni. Non poteva opporsi: non gli stavo prospettando nulla di "artistico". Non sarei diventata "ingegnere" o "matematico", ma almeno avrei potuto fare un lavoro "aritmetico". Avrei potuto avere un buon impiego anche senza laurea. Era innegabile che mio padre avrebbe preferito se avessi scelto una scuola, come il liceo scientifico, dove la tappezzeria e l'ambiente sono "di classe". Ma io non miravo ad essere una persona "di classe", ma d'azione.

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