Avrei dovuto trovare un modo per attirare la loro attenzione e stimolare il loro interesse. Un modo che mi permettesse di distinguermi, ma al contempo di non estraniarmi, di essere allo stesso tempo come loro, ma differente.
Ho sempre attirato l'attenzione dei coetanei. All'asilo ero un po' temuta per la mia aggressività e prepotenza. Alle scuole elementari si notava in primo luogo la mia stazza. Il mio anticonformismo sembrava soltanto l'altra faccia della mia anormalità.
Alle scuole medie era l'essere la prima della classe che mi contraddistingueva, mi spaventava, mi faceva sentire a disagio e impacciata. Il pensiero di essere "anormale" mi rendeva irraggiungibile, paralizzando non soltanto l'azione, ma anche il dialogo.
All'inizio delle scuole superiori, sentivo che volevo ritrovare la mia spontaneità, il sorriso e l'estroversione infantili, che forse si erano sciolte insieme ai chili che avevo perso o insieme al sudore dello studio.
Volevo essere una margherita, un fiore alla portata di tutti, da poter facilmente cogliere e ammirarne la bellezza. Non volevo essere una stella alpina, inarrivabile e difficile da staccare.
Preferivo rischiare che qualcuno avesse potuto strapparmi i petali o calpestarmi piuttosto che evitare di cogliermi.
Pensavo che offrendo interamente la mia disponibilità agli altri, non sarei stata abbandonata. Gli altri sarebbero venuti e tornati da me. Nella migliore delle ipotesi, mi avrebbero fatto sentire amata. Nella peggiore, usata. Ma per lo meno sarei stata utile.
E questo era cio' che mi interessava, ma mi trovavo ad un bivio. Dovevo scegliere tra la direzione che volevo seguire e la direzione che i miei genitori avrebbero voluto che seguissi, cioe' quella della preservazione, in cui sarei rimasta una stella alpina, al riparo dalle grinfie altrui.
Ma il nido familiare mi opprimeva. Volevo espormi, esprimermi al mondo, uscire dall'isolamento in cui mi sentivo segregata.
Essere la prima della classe non esprimeva l'immagine che volevo dare agli altri. Volevo invece intrattenere, diventare la prima attrice del cabaret scolastico. Volevo animare la classe. Volevo che ogni giorno fosse particolare.
Far ridere i miei compagni, era una delle soddisfazioni più grandi.
Per farlo, dovevo usare le loro espressioni gergali, quegli intercalari vietati nel mio nido, ma al contempo introdurre aspetti di originalità e comicità.
Sono riuscita nel mio intento, anche se esagerando. Gli insegnanti perdevano la pazienza e, per ristabilire il loro protagonismo scenico, mi invitavano ad abbandonare la platea.
Ma era l'unico modo per essere portavoce della ribellione al sistema, alle regole, all'ordine e alla disciplina. Volevo essere la forma di espressione del sentimento di noia e costrizione che accomuna gli studenti. Pensavo che in fondo tutti i miei compagni avrebbero voluto essere fuori dalla classe, ma non ne avevano il coraggio. Volevo trasmettere quell'ebbrezza, anche se in forma catartica. Mi proponevo come il loro capro espiatorio.
Ho rischiato la bocciatura soltanto per la mia condotta. Se fosse successo, l'avrei accettato con responsabilità, essendo conseguenza della mia provocazione, del mio ripudio ad un comportamento ortodosso.
In realtà la mia famiglia e lo studio erano Il capro espiatorio del mio essere diversa, di non aver una vita normale.
Osservavo mia madre, una chioccia con tre pulcini, tra cui due incapaci di esprimere la propria volontà. Uno per handicap, l'altro per carattere. Io non volevo essere il terzo, ed in fondo neanche mio padre lo voleva, ma non lo impediva.
Studiare mi piaceva, mi distraeva dal malessere familiare, ma mi estraniava. "Odio la mia famiglia e odio studiare". Era un modo per convincermi che il problema non era interiore, ma esteriore.
All'epoca in classe mi sentivo "viva", ma in realtà non stavo vivendo la mia vita, ma soltanto l'attimo. Era un bellissimo sogno, ma non potevo negare che nella mia vita c'erano la mia famiglia e i miei insegnanti.
Pensavo di aver costruito un ponte stabile con i miei coetanei. Ma in realtà ero diventata un ponte instabile, aprendo il dialogo con i coetanei e chiudendolo con la mia famiglia e gli insegnanti.
Se prima ero troppo solerte per essere credibile ai miei coetanei, in questa fase ero troppo negligente per essere credibile agli adulti.
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