Una frattura al piede pose fine alle mie “scorribande”. Una semplice frattura, che segno’ un cambiamento di rotta, ma rovino’ le mie vacanze estive, immobilizzandomi a casa.
Grazie alla mia performance scolastica, nonostante la condotta lasciasse ancora a desiderare, mio padre mi concesse di trascorrere fuori citta’ alcuni giorni di vacanza con le mie amiche. Sarebbe stata la prima volta che avrei potuto dormire e mangiare fuori casa “incustodita”, senza orari, ne’ regole.
E invece, passai un mese in casa. La mia “ora di liberta’” consisteva nel giro dell’isolato con le stampelle. Sentivo la mia situazione familiare soverchiante. Se prima avevo aggirato il mio disagio, ignorandolo, ora non potevo piu’. Per andare avanti dovevo soltanto superarlo.
Quella situazione richiamava alla memoria il mio passato, quando mi sentivo soffocata dalla onnipresenza di mia madre e dal troppo cibo che cucinava.
Da piccola ero grassa e ne soffrivo. Mi sentivo “pesante”, “anormale”, ma soprattutto mi preoccupava l’indifferenza di mia madre di fronte agli allarmi dei medici che mi vedevano. “Se continua cosi’ a 15 anni diventa obesa.” Per quanto non sapessi cosa significasse essere obesi, percepivo che non era una cosa positiva, dal tono con cui i medici lo esprimevano. Ma non sapevo cosa fare. In fondo era mia madre che decideva per il mio corpo: cosa cucinare, quanto farmi muovere, visto che non potevo uscire sola. Io non avevo nessun controllo su di me e pertanto non avevo nessun interesse a controllare le emozioni. Anzi, l’unico modo per attirare l’attenzione e la considerazione di mia madre era urlare, piangere istericamente. Solo allora si rendeva conto che soffrivo e doveva intervenire per sedarmi. Cosi’ vedevo il mio corpo come un’armatura che, sebbene mi difendesse dagli attacchi esterni, intrappolava i miei organi vitali ed il mio spirito. Avrei voluto crescere in fretta per potermi scegliere l’armatura, piu’ flessuosa e dinamica. Invece ero paralizzata nel mio rivestimento adiposo. Dovetti lottare e urlare affinche’ mia madre si decidesse a portarmi da un dietologo. Grazie alla mia costanza e ferrea volonta’ persi un bel po’ di chili e a dodici anni potevo ostentare la mia snella armatura. Mia madre comunque non collaboro’ per nulla all’imposizione della mia dieta. Dovevo sorvegliarla in continuazione affinche’ non mi aggiungesse decagrammi di pasta in piu’ e cucchiai di olio. Eravamo sempre a battibeccare. Lei pensava che tanto il grasso si sarebbe sciolto con gli anni. “Con le preghiere?” Replicavo. Non posso vivere sperando in balia dei frangenti, ma devo fomentarli e controllarli.
La paura di perdere il controllo della situazione, dovendo pure combattere il lassismo di mia madre, mi spinse a dover essere inflessibile, a controllare le mie pulsioni e quindi a controllare la fame.
Infatti, non potendo muovermi per un mese, non potendo uscire e percependo il mio corpo vulnerabile all’ingrassamento, innescai a 16 anni un meccanismo interno di autocontrollo e repressione che si trasformo’ in primo luogo in un disturbo del comportamento alimentare e, successivamente, in una nuova “filosofia” di vita.alienante che oserei battezzare “Anoressenza”.
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