domenica 28 agosto 2011

L'ultimo dono

Dopo circa due mesi in casa, immobilizzata a letto, fu trasferita in ospedale, per le cure palliative. Mia sorella passava le giornate al suo fianco, soprattutto per aiutarla durante i pasti. “Mamma come stai?”. “Bene”, rispondeva sempre, nonostante tutto. E sorrideva, serena. Non si lamentava mai. Non aveva una ruga nel volto. Aveva sempre sorriso. Non aveva studiato, ma pur con la licenza elementare, era piu' saggia di me che avevo una laurea avanzata. Era una persona semplice. Non si aspettava nulla dalla vita e non aveva ambizioni. Si difendeva dalle avversita' con il sorriso, la sua arma vincente. Il suo spirito e la sua curiosita' erano sempre stati quelli di una bambina. E sembrava che la sua malattia, anziche' farla invecchiare, la stesse riportando allo stato di una bambina in fasce. Per intrattenerla, le proposi un giorno di giocare a carte. “Tocca a te. Scarta.” Mi guardo' con un sorriso innocente, ingenuo e tenero, come per dire. “Cosa devo fare? Quale carta devo buttare?”.
Le leggevo libri, ma non mi ascoltava, anche se sorrideva e faceva credere di gradire la lettura. In realta' era solo felice di sentire la mia voce. “Di cosa parla?” E mi ripeteva l'ultima parola che l'aveva colpita. “Guerra”. Essendo nata proprio nel D-Day, non poteva rimanere indifferente a quella parola.
La interrogavo sui proverbi, il suo argomento preferito, la sua filosofia. Iniziavo con: “Meglio l'uovo oggi ...”, e rispondeva “che la gallina domani”. “Chi pecora si fa … “ e via dicendo. Non ne sbagliava uno. Ma quando le chiedevo cosa avesse mangiato a pranzo non rispondeva. Non si ricordava. Per esperienza, avevo imparato a non piangere davanti alle persone malate che, loro malgrado, sono la causa della tua sofferenza. Ma era veramente difficile non scoraggiarsi. Spesso piangevo in bagno, oppure sul treno, rannicchiata sul sedile, dando l'impressione di dormire.
Dopo due mesi di degenza, arrivo' il primo allarme: e' entrata in coma. Mia sorella mi chiamo' disperata. Non sapeva cosa fare. Non se la sentiva di andare in ospedale. Era domenica, mi ero appena rilassata a casa dopo il viaggio di ritorno, e purtroppo era troppo tardi per ripartire. Nessun treno viaggiava a quell'ora. Chiamai un'amica di famiglia, un' infermiera, una persona riservata e affidabile che si reco' in ospedale e mi rassicuro' che si trattava di un falso allarme. La mattina seguente arrivai. Chiesi alcuni giorni di permesso lavorativo, per capire cosa poteva succedere. Di giorno passavo a trovare mia madre, dando il turno a mia sorella e poi mi fermavo durante la notte ad assisterla e sorvegliarla. Mia sorella era tranquilla perche' ero io ad avere il controllo della situazione. Ed io non volevo lasciar sola mia madre.
Dopo qualche giorno la trasferirono in una struttura ospedaliera per malati terminali. Mi avvertirono che non sarebbe vissuta piu' di tre mesi.
Mia sorella non voleva guardare in faccia la realta'. Percio' evitava il dialogo con i medici. “Come sta? Come sta? Come ti sembra? Potrebbe riprendersi?”. Mi telefonava per chiedere notizie quando non era li' presente. Cosa le potevo rispondere? Era difficile mantenere la calma, ma le rispondevo che la situazione era normale e stabile, che riuscivo a darle da mangiare e che sorrideva. Cio' bastava a rassicurare mia sorella.
Nessuno poteva sapere il giorno esatto in cui mia madre ci avrebbe lasciate, ma la situazione poteva perdurare anche qualche mese. Pertanto, ripresi a lavorare, anche se con la paura dello squillo del cellulare. I colleghi e il capo riuscirono a rendermi la vita serena, anche in quelle circostanze.
Ripartivo il venerdi' sera per passare le notti in ospedale e ripartire lunedi' mattina alle cinque per tornare a lavorare. Era tutto quello che potevo fare per non trascurare il lavoro e la mia vita e per mantenere il controllo della situazione familiare. Per fortuna, la struttura ospedaliera dove era collocata mia madre era confortevole abbastanza da rendere vivibile il soggiorno e la permanenza dei parenti che sostenevano i pazienti. La stanza di mia madre sembrava un piccolo appartamento ammobiliato, con televisione, angolo cucina, guardaroba, divano - letto per gli ospiti e bagno con doccia.
Per distrarmi, mentre sorvegliavo mia madre, leggevo romanzi o saggi, il mio passatempo preferito da quando pendolavo nel fine settimana. Inoltre ascoltavo musica e facevo acoltare a mia madre autori di suo gradimento che riconosceva e tentava di canticchiare.
Pian piano peggiorava. Ogni lunedi' che passava, il rischio di ripartire senza piu' vederla aumentava. “Per questa settimana puo' tornare al lavoro. Ma chieda il permesso per la prossima”. Mi suggeri' il medico. Io guardai mia madre. Mi accenno' un sorriso e allora ripartii.
Il giovedi' di quella settimana, arrivo' un altro allarme, che per fortuna si rivelo' soltanto un ultimo avvertimento. La settimana successiva non tornai al lavoro. Dissi a mia sorella che avrei badato soltanto io alla mamma, giorno e notte e che quindi lei poteva starsene a casa, possibilmente tranquilla. Non insistette e mi lascio' il pieno potere. Non avrebbe potuto sopportare quello spettacolo, ma non voleva ancora credere che sarebbe accaduto.
L'assistenza durante quei giorni fu terribile e agonizzante. Mia madre non rispondeva piu'. Non mangiava, ne' beveva. Il respiro diventava sempre piu' faticoso. Era questione di momenti. Non volevo allontanarmi e i pochi istanti che lo facevo, per esigenze personali, ero sempre in allerta perche' rischiavo che fosse troppo tardi per salutarla. Ed io volevo essere li' con lei in quel momento, per stringerle la mano, per accompagnarla non so dove o soltanto per confortarla nell'ultimo attimo.
Mi chiedo sempre che sensazione si provi a morire. Dolore? Sollievo? Nessuno puo' testimoniarlo. In ogni caso, la mia presenza le avrebbe certamente reso piu' piacevole la transizione, anche se non poteva esprimerlo.
Era una mamma eccezionale. Non aveva mai negato nulla alle sue figlie, anche se la sua eccessiva presenza si era rivelata diseducativa. Ma non e' per nulla facile educare e pochi lo sanno fare bene. Ma il suo coraggio, il suo sorriso e la sua sincerita' mi hanno insegnato molto di piu' di quanto belle parole, ma non spontanee, avrebbero potuto insegnarmi. La presenza delle persone a lei care la rendeva felice e lo dimostrava con il suo sorriso illuminante. Depressione, frustrazione, stress erano termini che non erano mai esistiti nel suo vocabolario, anche nelle giornate piu' cupe e nei momenti difficili. Forse l'essere nata durante la seconda guerra mondiale le aveva insegnato a vivere in balia degli eventi e a sapersi accontentare, a saper apprezzare il cibo, desinando con generose porzioni, come se fosse sempre festa. Forse non ha saputo adeguarsi ai cambiamenti sociali, o forse non era in grado di vedere aldila' della sua realta'. Ma il suo mondo, tutto quello che aveva, l'ha trasmesso alle sue figlie interamente, senza riserve. Cosi' come il suo sorriso, il suo dono piu' prezioso.
Ero in dormiveglia. All'improvviso il suono del suo respiro cambio'. Capii che era arrivato il momento. Mi avvicinai. “Non potro' mai ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me, anche se spesso siamo state in conflitto, odio e amore per la stessa ragione: la vita che mi hai dato. E ora mi stai dando anche la tua. Non la merito e non vorrei accettarla, ma non posso fare altro che accoglierla, come ultimo tuo dono, e stringerla fra le mie mani”.

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