lunedì 17 maggio 2021

Il "terzo incomodo"

“A ui uè la fortuna viene a me, ui uè uà la fortuna viene qua.” “Ma no! Non è giusto di nuovo io devo star vicino a lei? Rifacciamo”. “A ue ui la fortuna non va lì. Vedi, mi spiace tocca a te.

Io e mia sorella A, ispirate dal “Secondo tragico Fantozzi”, facevamo la conta per chi dovesse mettersi vicino all’altra mia sorella S nei viaggi familiari in auto. Dietro c’erano tre posti. Mia sorella S doveva stare nel sedile a destra, per evitare che allungasse le mani nel posto di guida e che quindi provocasse un incidente. Perciò solo una delle due poteva avere la “fortuna” di stare in mezzo.

Non si viaggiava confortevolmente vicino a lei. Ti allungava le mani, spesso bagnate di saliva, dopo essersele spalmate ben bene in bocca; ti afferrava i polsi o ti abbracciava agganciandosi in maniera non troppo simpatica, assomigliante ad una medusa o a una piovra, a seconda dei casi. Erano le sue dimostrazioni di affetto o di disagio, se ci sentiva urlare o litigare o se qualcosa che non poteva capire la infastidiva. Non parlava, anche se spesso ripeteva singole parole che dagli altri sentiva, senza capirne il significato. Però nella sua piccola testa distingueva gli oggetti, ma non era in grado di comunicarne il nome. “S prendi il bicchiere”. E lei lo prendeva per bere. “S come mi chiamo?” E se quello era il momento fortunato, ripeteva stentatamente il mio nome. Ero molto felice quando lo faceva, ma non accadeva spesso.

Inoltre riconosceva il sentimento che una parola denotava dal tono in cui era espressa, ma non riusciva ad usare le parole per esprimere i suoi stati d’animo, i suoi bisogni e le sue necessità. Non era autonoma, anche se l’unica cosa che mio padre era riuscito a insegnarle era mangiare, appena vedeva il piatto davanti a lei.

Quando viaggiavamo, c’era anche il rischio di dover viaggiare con odori non troppo gradevoli, che solitamente per un bambino piccolo sono più tollerabili e facilmente gestibili, con un cambio di pannolino “on the go”. Lei però era già quasi adulta, quando io non avevo neanche dieci anni.

Nei viaggi di durata superiore a 90 minuti, spesso transitava dalla variante “piovra” alla “bavosa”. Infatti si addormentava spesso a bocca aperta e si accasciava sulla spalla o sul petto sbavando.

Io e A sdrammatizzavamo scherzando e prendendola un po’ in giro. Era più facile però scherzare se non stavi seduta in mezzo, a stretto contatto con lei. Ci avrebbe giovato poter mantenere una sorta di distanza di sicurezza da lei. Però ci avrebbe privato di quell’esperienza. E in fondo “il terzo incomodo” faceva parte di quella scena, senza il quale la storia non avrebbe potuto svolgersi.

Un giorno mia madre ci portò ad una festa per disabili, l’unico tipo di feste a cui S era caldamente invitata.  Eppure neanche in quel tipo di feste S mi sembrava normale. Deambulava bene, saltava; se c’era musica di suo gradimento ballava. La musica era una delle poche cose di cui eravamo certi che le piacesse e spesso era una terapia per lei e per noi che trovavamo momenti di pace, visto che la intratteneva e la rapiva. La faceva pure cantare. E anche se non riusciva a riprodurre correttamente la dizione, intonava correttamente il ritmo.

Però la confusione di una festa le creava disagio e non apprezzava la presenza di troppe persone. A volte si picchiava o si tirava i capelli, sentendosi respinta quando provava ad avvicinarsi a qualcuno che si allontanava. Pertanto, neanche in quell’ambiente mia sorella appariva normale, a differenza di altri ragazzi che in quel contesto formavano la normalità.

Mia sorella non pareva trarre benefici nello stare insieme ad altri ragazzi più simili a lei, ma tuttavia molto diversi da lei. Non si rendeva conto di dov’era, a differenza di altri ragazzi che ridevano, parlavano e manifestavano il loro gradimento. Qualsiasi ragazzo in quel contesto mi sembrava meglio di mia sorella, manifestando anche solo un minimo grado di intelligenza in più. C’erano persino ragazzi che si vestivano e andavano in bagno da soli. E che ti parlavano.

Avrei tanto voluto che mia sorella fosse stata come uno di loro, in grado di pormi una domanda e interagire. Si avvicinò una ragazza: “Dimmi ciao”. “Ciao”. “Come ti chiami?” Le dissi il mio nome. “Sei la sorella di S, vero”. “Si’”. “Dimmi ciao”. “Ciao”. “Dimmi ciao”. “Ciao”. Continuammo così, finché esausta, non le risposi più. “Dimmi ciao, cicciona!”.

Quell’ultima parola fu come una coltellata. Quando ero piccola ero sovrappeso e ci stavo male. Mi sentivo pesante. E quando qualcuno me lo faceva notare così, era come se tutto il mio peso cadesse a terra. Non ero arrabbiata con la ragazza. Se conosceva quel termine e quel modo di dirlo spudoratamente era soltanto perché lo aveva sentito dire a qualche adulto senza nessuna disabilità fisica o mentale, ma piuttosto con grave deficit di sensibilità. A volte mia sorella ripeteva parolacce, o peggio, bestemmie soltanto perché le aveva sentite, probabilmente nel centro disabili che talvolta frequentava. Pertanto perdonai quella ragazza, ma non il mondo che inconsapevolmente lei rifletteva.

“Mamma, ti prego, torniamo a casa?” Mia madre colse l’occasione per liberarsi dai discorsi della mamma di quella ragazza. “Oh! Si si andiamo.” Mi disse poi, non appena ci fummo allontanate: “Non sai che barba quella signora! Non faceva che lamentarsi della sua situazione e di sua figlia. Magari S fosse come lei, magari parlasse, si vestisse, andasse in bagno e apprezzasse la compagnia!” “Mamma, ti prego, non dirlo. S è buona perché non dice cattiverie. Non vorrei fosse diversa. E poi per fortuna che c’è A, con cui posso parlare e giocare. Per favore, non portarmi più in feste del genere. Tanto S non le apprezza. Non abbiamo bisogno di andare alle feste con S per sentirci normali, perché di fatto non lo siamo. Se S non è gradita o guasta le feste con i miei compagni di scuola, come è successo l’ultima volta al mio compleanno, io preferisco non fare feste e andare a quelle degli altri che mi invitano. E poi neanche tu ti sei divertita.” “Hai ragione. A me piace la gente felice, come me, che non ha nulla da lamentarsi. E non chiede nient’altro. Perché in fondo anche la miglior situazione può esser vissuta nel peggiore dei modi.”



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