martedì 5 marzo 2013

Autotomia

Apro gli occhi, sentendomi chiamare per nome. “Dovete ancora operarmi?” esordisco d'impulso e quasi con sarcasmo. Ma nello stesso istante in cui sento la risposta “No, tutto finito”, avverto un dolore diverso da quello che ricordavo e allora capisco che sono le ferite. Indago se l'intervento è stato possibile senza “apertura dell'addome”. Sì, tutto regolare. Sorrido. Mi sento liberata e capisco che in confronto al dolore delle coliche che avevo, della loro sopportazione e dell'ansia dei mesi di attesa, il dolore delle ferite post-operatorio non è nulla. In meno di 48 ore sarò a casa. Chiedo subito di vedere chi mi è stato accanto. Parlo, ma a fatica. Posso muovere gli arti, la testa, ma non alzarmi. E' come se fossi tagliata in due, ma sono tranquilla perché so che la sensazione durerà poco. Ascolto la musica e dormo vegliando tutta la notte, continuamente interrotta dal lavoro delle infermiere. Sento un paziente che brontola dall'altra sala. Mi viene da ridere, ma non posso. Ho male all'addome.

E' l'unica notte che passo su quel letto. L'indomani sono già in piedi. Mi muovo, anche se ben lungi dal camminare. Incrocio una ragazza nell'altra stanza, terrorizzata dall'intervento che deve subire. Cerco di darle conforto morale. “Non sentirai nulla. Ti sveglierai e sarà tutto finito. Non pensare ora a possibili complicazioni. Poiché non devi prendere nessuna decisione non analizzare tutti gli scenari possibili. Devi solo lasciarti andare, con fiducia. E considera che non c'è cicatrice che non possa essere coperta in futuro da un bel tatuaggio. Oh, scusa, non ti piacciono?” - sono sempre la solita fortunata ad estrarre la frase meno opportuna. “Coraggio”. E poi torno a riposarmi. Mi stanco facilmente. La sera torno a casa. Non avrei mai trovato la forza di lasciare quel reparto se non mi avessero incoraggiato a dimettermi e se la degenza in ospedale non mi annoiasse così tanto.

Trascorro una settimana facendo enormi progressi, alzando progressivamente “l'asticella dell'autosufficienza e autonomia”. I media, le elezioni imminenti, il lavoro non pagato, la schiavitù dell'immagine. Nulla mi concerne, completamente assorta nei miei traguardi quotidiani. Il mondo là fuori può pure distruggersi. Non mi importa. Forse sono un'altra persona, vivo in una sorta di limbo. Dolorante, come un ferito dopo una battaglia, ma serena, per la vittoria. Mi sento come una lucertola dopo un'autotomia: ho perso la coda, ma proseguo incurante, sapendo che pian piano la coda si riformerà.

Mi sento di nuovo piena di forza e speranza, come quando sono tornata da Londra e speravo di riuscire a fare qualcosa di costruttivo nella mia città di origine, quando ambivo ad esser rivoluzionaria e non ribelle. Spero in un cambiamento. Spero nel “movimento”. Movimento, accusato di non avere un programma, di non aver competenze. Accusato da chi ha paura, da chi non vuole guardare avanti, da chi non vuole superare il blocco mentale di mangiare la pasta senza prima vedere la marca della confezione, da chi si nasconde dietro l'immagine neutrale di “un'Italia giusta” o da chi, convinto di seguire Blake ha votato pensando "active evil is better than passive good".

Non so cosa succederà. Non sono fanatica. Non ho miti. Diffido di ogni persona troppo popolare. Ma spero che ci si renda conto che così non si può più andare avanti e si pongano le basi per una società più umana, solidale e un'economia più sostenibile.


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