domenica 24 febbraio 2013

La sala verde

Il camice. Le calze. Il letto. La preparazione. I preliminari. E poi … NULLA. “Siamo stanchi. Non possiamo soddisfarla. Il paziente precedente ci ha tolto tutte le energie, tutte le voglie. D'altronde i pazienti non sono macchine. Hanno i loro tempi. I loro bisogni. Non possiamo sempre garantire prestazioni ad ore. Ci dispiace averla tenuta a digiuno così tante ore e aver accresciuto in lei il desiderio senza poterlo soddisfare. Ci rincresce.” La parola che ha fatto sboccare al vaso. Vomito il vuoto, il bisogno la cui soddisfazione dipende dagli altri. Il dolore più atroce di chi attende e non subisce nulla. Il senso di abbandono, di rifiuto. Il bisogno umano che con la crisi della produzione diventa irragionevole. Ammalarsi in questo periodo richiede lottare affinché il tuo bisogno non divenga così urgente da dover subordinare la tua esistenza alla disponibilità delle risorse sul mercato. La stessa lotta di un disoccupato, per sopravvivere.
NULLA. Falso allarme. Non è ancora la data giusta. “Venga dopodomani.” “Dopodomani non è più Carnevale. Niente scherzi allora!”

Il camice. Le calze. Lo stesso letto. La preparazione. I preliminari, stavolta senza iniezione pre-anestetica, ma con continue iniezioni di fiducia somministrate a turno dai medici. “Stavolta vedrà. Non facciamo cilecca. Rimarrà soddisfatta. Ci siamo. Arriviamo. La prendiamo. Gliela togliamo … quella cistifellea calcolatrice che le impedisce di vivere serenamente. Vedrà. Con quattro buchi sull'addome dovremmo farcela. Ci siamo. Si prepari. Anche se è indisposta, la operiamo lo stesso. Non ci poniamo questi problemi. Siamo abituati al sangue. Lei deve solo aspettare la carrozza.”
Dio, la smettono di eccitarmi, di sollecitarmi tenendomi sospesa, impedendomi di rilassarmi con le mie droghe musicali e di tranquillizzarmi con i miei auto-incoraggiamenti. “Ci siamo, ci siamo....” Ma un momento. Il paziente che mi precede non esce. “Mi sa che la rimandano di nuovo a casa illibata.” L'uccello del malaugurio o il passero della verità? No, non potrei sopportare un altro giorno in bianco. Non ce la faccio più. Non lascio questo maledetto letto e questa stanza finché non placano il mio dolore e il mio desiderio di liberarmene. Chiamino pure la polizia o il reparto psichiatrico. Basta!! Eppure no. Non mi hanno ancora indotto a varcare il confine tra pazzia e sanità mentale. Ho ancora il pieno autocontrollo. Mi calmo. Devo aver fede. Devo essere rilassata per l'intervento. Adesso verranno a prendermi. Ad un certo punto vedo la carrozza arrivare.

E' ora. La sedia mi impressiona e poi vorrei entrare in sala marciando. Ma non esito. Mi accomodo tranquillamente. Non ho paura di entrare nella sala verde. Si apre la porta. In effetti non c'è motivo di essere spaventata vedendo tutte queste facce accoglienti, sorridenti ed amichevoli. E non solo, esperti nel loro mestiere. Mi stringono la mano. Eppure l'idea è terribile. L'idea di affidarsi completamente a qualcuno, a tal punto da perdere i sensi, la propria coscienza. Offrire a qualcuno la possibilità di porre fine alla tua esistenza, in un secondo, con il tuo consenso, nel tuo letargo. O risvegliarsi e non ricordarsi nulla. Cosa è successo? Cosa mi han fatto? Cosa sono questi buchi? E' solo l'idea. L'idea è più pericolosa dell'intervento in sé. Nemmeno i preparativi giustificano il pensiero. E' il pensiero che fa soffrire, che ci addolora. E se trattasi di pensiero allora basta evadervi. Chiudere gli occhi. Non guardare. Sento le gambe tremare. “Tranquilla, te lo faccio passare.” Respiro ossigeno. Ecco ora inizia la partita. “Ora ti addormenti”. Calma e gesso. Vi cedo la palla e ve la metto sul tavolo. Giocateci, tiratela, centrate la buca e poi svegliatemi. Svegliatemi solo quando sarà di nuovo il mio turno di giocare.

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