mercoledì 11 marzo 2015

Carry-era (17.45)

Quando feci la prima visita specialistica, da un medico consigliatomi da un'amica anche lei incinta, ero già alla ventesima settimana. La mia gravidanza non era convenzionale: non avevo l'agenda ostetrica. E mi sentivo quasi come una bambina che inizia la scuola quando già metà del programma è stato svolto. Per “recuperare” e fare d'urgenza alcuni esami nell'ospedale dove volevo partorire, il medico scrisse una lettera al responsabile del reparto illustrando il mio caso. Senza quella lettera, sarei stata respinta per questioni burocratiche e amministrative. (Qui nascono spontanee domande con la stessa risposta: “that's Italia”, ma in questa sede sorvoliamo). 

Da un lato penso comunque di aver preferito saperlo così tardi: mi sono risparmiata un bel po' di prelievi, visite, ulteriori mesi di attese, paure, privazioni dovute al fatto che quasi ti mettono in testa di esser malata solo perché sei incinta.

Il mio istinto mi aveva portato naturalmente ad evitare farmaci, cibi potenzialmente pericolosi e a riposarmi. Tuttavia non avevo mangiato molto, seppur bene, per colpa della nausea e di dolori vari.

Mi stupiva che questa creatura avesse potuto formarsi nonostante il mio stato di salute debilitato e l'alimentazione scarsa.

E cresceva bene: gli ulteriori esami che feci esclusero problemi di malformazione o di sviluppo.

“I bambini nascono e crescono malgrado noi” mi disse la dottoressa che mi fece l'ecografia morfologica. Aspettavo una bambina.

Cominciai a leggere alcuni libri sul parto e di puericultura. Volevo arrivare preparata e farmi un'opinione personale, così non avrei accettato consigli sbagliati solo per ignoranza. Inoltre non volevo cadere nelle trappole del marketing sui prodotti per bambini. Davvero serve tutta quella roba che ti propongono? No di certo. E poi i bambini non sono una categoria a parte, ma sono soltanto cuccioli d'uomo. Ti fan quasi credere che servano dei guanti apposta solo per toccarli. 

E poi non parliamo dell'ossessione di dover comprare tutto nuovo, quando nei negozi di seconda mano si trovano di fatto articoli nuovi che sono stati portati lì solo perché si son ricevuti troppi regali o perché sono stati fatti acquisti superflui. 

Non volevo che nessuno avesse potuto condizionare le mie idee e impormi uno stile diverso dal mio. Soprattutto, volevo fare i primi acquisti quando mi sentivo pronta, mediando tra il non voler comprare tutto subito per evitare previsioni sbagliate e il non aspettare all'ultimo momento per evitare che la fretta scegliesse per me. Sarei andata in crisi se qualcuno fosse arrivato con degli articoli che in casa non ero pronta a ricevere.

Nonostante mi sentissi sicura di me e del mio carattere, temevo che qualcuno o qualcosa avesse potuto portarmi via il mio tesoro una volta nato. Quindi andavo in panico se sentivo qualcuno che aveva interesse alla bimba, ad eccezione del mio compagno, accennare discorsi tipo “e poi chi la tiene? Tu? Sola? Ti sei informata per il nido?” Erano questioni che potevano mettere in dubbio le mie capacità e la mia adeguatezza nel ruolo di madre. E poi era troppo presto per parlarne.

Per gestire meglio lo stress che alcuni mi mettevano, sommato all'ansia che non ci fossero complicazioni prima, durante e dopo il parto, facevo esercizi di rilassamento, indicati in uno dei libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca. 

Non mi spaventava invece il dolore del parto, visti tutti i dolori delle coliche biliari che avevo patito. E poi la gioia di stringere la bimba in braccio avrebbe compensato qualsiasi sofferenza. All'inizio temevo di non saper individuare il momento giusto per recarmi all'ospedale, ma poi mi convinsi a lasciarmi guidare dall'intuito.

Avevo poi iniziato il lavoro. Mi trovavo bene e mi piaceva, anche se forse l'avrei apprezzato di più in un altro momento. Tuttavia mi distraeva dalla gravidanza, anche se, devo ammettere, d'altra parte la gravidanza mi distraeva dal lavoro.

Tutto procedeva bene, anche se ero sempre un po' infastidita quando mi chiedevano come andava perché quando dicevo bene avevo un po' paura che poi qualcosa non andasse più bene. Il classico proverbio in questo caso diventava: “Non dire quattro se non ce l'hai fuori dal sacco.”

Dal settimo mese in poi la stanchezza si ridusse. E mi sentii molto meglio. Quasi correvo di nuovo al posto di camminare. Mi autorizzarono a lavorare fino all'ottavo mese. Ad un certo punto, cominciò a venirmi l'ansia di dover aver tutto pronto in casa. Alla trentunesima settimana avevo già la valigia pronta. Mi chiesi perché, perché quella fretta. Perché ora ero più distratta dal preparare che dall'essere preparata per il parto? Perché avevo paura di non aver tempo? Perché pensavo meno a mangiare come prima?

Intorno al settimo mese feci un sogno. Sognai mio padre che indicava un orologio. Erano le 17.45. Mi diceva che qualcosa sarebbe successo quando mi sarei trovata su un mezzo pubblico dopo quell'ora. Mi diceva che si sarebbe poi risolto, ma mi toccava subire qualcosa. “Anestesia” mi diceva.

La mattina dopo fui un po' sconvolta. 

Eppure la bimba scalciava come una matta. Non c'erano poi ragioni per temere il cesareo perché si era già ben posizionata. Cercai di rimuovere il sogno. Ricordo di non aver dato nessun peso ad un altro sogno che feci quando ancora non sapevo della gravidanza, in cui mia madre mi diceva che ero incinta. Ed io, come ero solita risponderle quando mi diceva, in vita, che dovevo credere ai sogni le dicevo: “Mamma, non dire boiate.” 

Preferisco non credere ai sogni per non condizionarmi negativamente. In effetti però neanche la scienza sa perché noi sogniamo e se i sogni condizionano ciò che ci accade oppure se ciò che ci accade condiziona i nostri sogni, come è più ragionevole pensare. 

Tuttavia non presi mai l'autobus dopo le 17.45, non per scaramanzia, ma perché dopo quell'ora ero stanca per uscire e volevo starmene a casa. L'ultimo giorno della trentunesima settimana andai dal ginecologo. “La bimba sembra un po' piccina, per sicurezza fatti vedere domani. Ti scrivo un'altra lettera per farti fare una visita in ospedale.” 

Mi recai alla stazione ferroviaria. Il treno stava per partire. Mi affrettai, ma lo persi. L'altro passava dopo mezz'ora. Guardai l'orologio della stazione. Erano le 17.45.


1 commento:

  1. In questo post volevo condividere il sogno (vero) sia per liberarmene che per aggiungere alla storia una sorta di mistero. Non vorrei invece incentivare a credere ai sogni e alle premonizioni.

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