venerdì 5 maggio 2017

In-segnanti conducenti

Gli insegnanti sono come gli autisti di un bus, che ti portano al capolinea, fermandosi dove previsto, in corrispondenza delle tappe istituzionalizzate. A differenza di un normale bus, in cui i passeggeri salgono e scendono quando vogliono, nella scuola generalmente è il conducente che decide se qualcuno deve scendere dalla vettura e prendere quella successiva, ma non per discriminazione o antipatia, ma soltanto perché reputa che il passeggero non sia pronto per proseguire e che necessiti di ripercorrere la tappa raggiunta con più lentezza o attenzione. 
 
Pur essendo opportuno ringraziare in ogni caso l'autista per averti portato a destinazione, bisogna ammettere che non tutti hanno un modo di condurre piacevole. Alcuni ti fanno venire la nausea o il mal di bus irreversibile per tutta la vita. E nonostante gli si faccia presente che non stanno trasportando patate, quello è il loro modo di condurre. D'altronde la sensibilità e l'empatia sono doti notevoli, anche se sottovalutate, che non tutti hanno e non sono richieste per la patente di autista. Basta che si rispettino le regole stradali, i limiti di velocità e, soprattutto che non si sgarri dal percorso istituzionale. 
 
Benché non sia richiesto che il conducente renda il tragitto piacevole, o sopportabile, se accidentato o in presenza di tornanti, si dovrebbe riconoscere e apprezzare con un riguardo particolare chi ha questo talento. Chi, nonostante le intemperie, riesca a far vedere nitida l'immagine della strada attraverso il finestrino, chi trasmette fiducia e sicurezza in presenza di ostacoli da superare o addirittura passione per le sfide.

Se visiti una città affidandoti ad una guida turistica infatti avrai un bel ricordo del luogo visitato se la guida ti trasmette entusiasmo, curiosità, ti fa apprezzare l'arte, la cultura, mostrandoti la bellezza di un monumento, in relazione con i valori culturali, le tradizioni e la storia locali.

Di fatto però il compito di una guida si limita a far vedere solo ciò che è previsto nel programma, in sequenza, fino al termine, con scadenze da rispettare, con un certo ordine e una disciplina. L'entusiasmo, la personalità particolare della guida non vengono retribuite. In fondo non c'è prezzo per una bella esperienza che ti accompagna per il resto della vita, per una parola in più che ha determinato una svolta, un cambiamento, per un sorriso, un racconto accattivante o toccante. Un ringraziamento a chi ti regala qualcosa in più che non è tenuto a dare, sorge spontaneo anche se spesso ci sembra nulla in confronto a ciò che si ha ricevuto, che non si è in grado di ripagare.

Inoltre un conducente, terminato il suo percorso, non è tenuto a dare indicazioni sulle strade possibili, sui percorsi a piedi o a bordo di altre linee o mezzi di trasporto, sulle coincidenze, sui percorsi più veloci, più economici, più comodi o più adatti alle esigenze e interessi dei passeggeri. Non è richiesto che un conducente osservi un passeggero per aiutarlo a trovare la sua strada. Chi guida deve osservare chi sale e chi scende per motivi di sicurezza e di ordine pubblico e se qualcuno disturba o infrange delle regole deve intervenire, direttamente o chiamando le autorità a seconda delle situazioni. Ma se un passeggero entra sul bus piangendo, l'autista non è tenuto a chiedere il motivo delle lacrime o a cercare di farlo sorridere. Ci si aspetta solo che chiami l'ambulanza qualora la persona stia molto male o perda conoscenza.
Non è nemmeno compito della guida pulire il finestrino o i posti a sedere o rendere la vettura profumata e confortevole, ma solo assicurarsi che ci siano le condizioni perché un passeggero giunga sano e salvo a destinazione.


Dovrei ringraziare tutti i miei insegnanti per avermi istruito e formato. Ma non tutti, devo ammettere, sono stati in-segnanti, nel senso che hanno lasciato un segno, un qualcosa, anche se non troppo piacevole, che ricordo al di là dei concetti e nozioni scritte alla lavagna. Chi ti lascia un segno spesso ti fa delle osservazioni che inizialmente possono sembrare fastidiose perché percepite come una critica nei propri confronti. Ma successivamente le critiche possono rivelarsi costruttive e avere notevoli benefici. Allo stesso modo chi ti incoraggia a far qualcosa, ti fa i complimenti o ti dice ciò che hai bisogno di sentire, ti lascia un segno positivo perché aumenta la tua autostima e la fiducia negli altri.
Tutti coloro che non lasciano un segno, ma si limitano a svolgere solo il proprio lavoro, fanno già tanto, comunque: è un lavoro difficile, faticoso che non viene riconosciuto come si dovrebbe.



L'iniziativa della “Settimana Italiana dell’Insegnante 2017” http://www.youreduaction.it/terza-edizione-settimana-italiana-dell-insegnante-2017/ mi ha dato la motivazione di scrivere questo post, un intermezzo dopo la conclusione della terza parte di questo blog, che forse riprenderò regolarmente a data da definirsi.
In particolare vorrei ringraziare la mia insegnante di italiano delle medie. Credo sia stata l'unica a capire veramente le mie capacità e i punti di forza. L'unica che ha cercato in tutti i modi di spronarmi a valorizzarli. L'unica che anche nei miei difetti trovava una virtù e un'opportunità da sfruttare, a differenza di altri che, seppure riconoscevano il mio merito con degli ottimi voti, spesso aggiungevano: “però la tua calligrafia è pessima, sei una persona disordinata, devi tenere il foglio più pulito e non fare le orecchie, devi fare sempre la scaletta prima di iniziare il tema...” La mia insegnante apprezzava sempre ciò che scrivevo perché apprezzava il mio stile aldilà delle mie opinioni. Mi diceva che ero una persona che rifletteva, rimuginava, rimetteva in discussione ciò che scriveva perché spesso cancellavo, tirando delle righe sopra interi paragrafi. E lo vedeva come un pregio. Non dava importanza all'estetica, a come appariva il foglio tutto scarabocchiato. Lei leggeva ciò che c'era scritto e lo apprezzava veramente. Mi diceva sempre che avevo una bella testa, che dovevo sfruttare le mie capacità di scrittura e di espressione, che avrei dovuto iscrivermi al liceo classico e diventare “un'umanista”.
Purtroppo ero nella fase più difficile della mia vita: l'adolescenza e sottovalutai l'importanza dei suoi consigli. Una volta la sfidai. Scrissi nel tema dell'esame finale ciò che all'epoca pensavo, quali erano le mie aspettative e prospettive dopo le scuole dell'obbligo. Scrissi che a me non interessava avere una “bella testa”, ma piuttosto una bella faccia, un bell'aspetto fisico perché la società (e chi ti sceglie) valuta solo questo. A me non interessava diventare “umanista”, o essere una persona riconosciuta per i suoi studi. Volevo diventare una persona normale. Non volevo andare al liceo perché non pensavo di volere proseguire gli studi dopo le scuole superiori. Volevo seguire un percorso poco esposto alla disoccupazione. E poi volevo che la si smettesse di considerarmi la “prima della classe”, la “brava ragazza” e la figlia che tutti i genitori avrebbero voluto decantare e “sfruttare”.
Anche in quel caso la mia insegnante apprezzò il mio tema dicendo che avevo descritto ed espresso molto bene i miei pensieri e la mia realtà. Lodò il mio lavoro, ma la sua espressione rivelava una certa tristezza per la mia “abnegazione”.
Ricordo una volta, sul bus nel corso del viaggio di ritorno da una gita, si sedette dietro di me con un'altra insegnante. Non so se lo fece volutamente affinché sentissi, ma affrontò il discorso dell'insoddisfazione personale e professionale parlando di un ragazzo molto bravo con talento “umanistico” e predisposizione per la scrittura che stava studiando ingegneria su “consiglio” dei genitori, ma che si sentiva insoddisfatto e per questo non otteneva buoni risultati.
All'epoca non capivo cosa volesse dire sentirsi insoddisfatti nello studio o nel lavoro. Infatti non mi ponevo la questione, avendo delle buone valutazioni in tutte le materie, anche se sottovalutavo che scrivere mi veniva spontaneo, naturale, mentre risolvere un problema di matematica era una cosa che sentivo imposta, “distante” e spesso mi innervosiva perché non arrivavo subito alla conclusione o mi buttavo a risolvere senza leggere con attenzione il testo.
Perciò studiai ciò che sentivo distante, che mi innervosiva e che puntava il dito contro i miei difetti. Ottenni dei risultati perché spinta dalla motivazione di soddisfare le aspettative del mercato e di non essere disoccupata. Ma non pensavo affatto a me, a soddisfare le mie aspettative e a valorizzare il mio talento, mentre la mia insegnante lo aveva fatto, si era preoccupata per me, per la mia soddisfazione e realizzazione. Anche mio padre aveva trascurato questo aspetto, ma forse perché non aveva avuto occasione di osservarmi come aveva fatto lei da esperta.
E la ringrazio davvero. Ho sempre pensato al suo consiglio, puramente interessato al mio bene. Ho sempre pensato alla stima che aveva nei miei confronti. Ho sempre pensato che avrei voluto rincontrarla dopo anni. Ma non l'ho mai cercata. Non ho avuto più notizie di lei. Spesso un grande pensiero rende piccola qualsiasi azione. Forse è per questo che non ho fatto nessuno sforzo per cercarla o forse perché è passato troppo tempo e solo di recente ho realizzato quanto prezioso sia stato il suo consiglio, e quali effetti benefici avrebbe avuto se lo avessi seguito. Non voglio rivelare il suo nome per privacy, ma il suo anagramma “BONTA” perché è autologico (anche senza accento).
Non era tenuta a farlo, ma di fatto è come se mi avesse detto: “Guarda, dopo il capolinea ti consiglio di fare quella passeggiata. Il percorso sarà in salita, ma ne vale la pena. Dalla cima avrai una panoramica stupenda. Tu hai le capacità per affrontare quel percorso e nei momenti in cui troverai difficoltà, sappi che io credo in te e credo che riuscirai a superarle. Perciò non arrenderti e alla fine avrai ciò che meriti, ma ricorda che deve anche essere ciò che desideri perché da lassù vedrai solo quello e se non ti piace ti sentirai desolata e ti sembrerà di soffocare. Ma io ti conosco e penso che amerai ciò che vedrai.”


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