venerdì 21 ottobre 2016

Peccatori di sostenibilità

Da quando abito vicino alla fattoria vedo quotidianamente i cavalli, le mucche nei prati a pascolare, i maiali nella stia, le galline nel pollaio e mia figlia emozionata. Penso di essere felice, fortunata di vivere nel lusso della natura, nonostante aleggi l'odore dello sterco e degli animali. Il prezzo di questo senso di pace, di tranquillità, di quest'atmosfera bucolica lo pago con una sorta di tristezza e compassione per quegli animali.

Tra qualche mese mia figlia forse mi chiederà "mamma ma come? Mi fai vedere gli animali li salutiamo, sorridiamo loro e poi li mangiamo?" E allora la risposta spontanea sarà “ma noi non mangiamo quegli animali, lo vedi, son sempre lì ne mangiamo degli altri.” E lei insisterà “ma allora che animali mangiamo?” In effetti cosa cambia se mangiamo quel maiale che vediamo o un altro maiale? E perché non ci si dovrebbe sentire altrettanto colpevoli se si vive lontano dalla natura e se si va a far la spesa al supermercato? In fondo non si mangia quel maiale, si mangia carne che vendono al supermercato e la si mangia di buon gusto. Non è cavallo, manzo, maiale o pollo è soltanto articolo del reparto macelleria.

Ma se non si riesce ad accettare tutto questo, si inizia allora con il ridurre il consumo di carne che poi si bandirà definitivamente dalla dieta. Poi si va oltre eliminando i derivati: latte, formaggi, uova e poi, si riflette che, per compensare la privazione, non si potrebbe neanche vivere di sole frutta e verdura, perché ciò comporterebbe un danno all'ecosistema, privando del consumo gli erbivori e frugivori. Si giungerebbe allora a consumare solo vitamine, prodotti artificiali, costruiti in laboratorio, e ci si sentirebbe forse più simili a robot ricaricabili che ad essere umani che si alimentano. E comunque anche il cambiamento alimentare potrebbe voler dire maggior inquinamento. E poi nessuno si occuperebbe più di allevare gli animali se nessuno più li mangiasse. E allora diventerebbero selvatici e nella transizione morirebbero, vittime di altri animali predatori. Non c'è scampo. Qualsiasi comportamento umano danneggia l'ambiente. Nasciamo già peccatori verso l'ambiente, peccatori di sostenibilità: comunque ci muoviamo inquiniamo o alteriamo l'ecosistema.

L'essere umano è al contempo la specie più intelligente, potente, ma più pericolosa. Costruisce e al contempo distrugge l'ambiente. Vive e al contempo uccide le altre specie (e la sua). Anche le altre specie in fondo si comportano così, ma solo per sopravvivere (e quindi per questo non uccidono sé stessi). L'uomo invece non lo fa per sopravvivere, ma per dominare. E si giustifica dicendo che per sopravvivere deve dominare, così come si convince di far del bene all'umanità diventando padrone degli animali che poi uccide. Ma se ci si riflette, si arriva alla conclusione che chi lotta per sopravvivere non si pone questioni etiche, non si chiede se sia buono o cattivo. Pensate ai leoni che mangiano le zebre: credete che si sentano cattivi, che abbiano scrupoli o sensi di colpa dopo che hanno azzannato la preda?

Se ho scrupoli a consumare la carne vuol dire che posso scegliere cosa mangiare, che sono agiata, che non devo lottare per sopravvivere. E allora forse le persone che si trovano in questa situazione sono quelle che si chiedono se il percorso che stanno seguendo è quello della felicità, se il loro comportamento è dannoso, se bisogna cambiare, se e sempre se. Se si lottasse per sopravvivere non esisterebbe più il concetto di felicità perché prevarrebbe l'istinto animale, il vero motore vitale. Un animale vive e basta. Per lui non esiste null'altro. Col tempo gli uomini si sono allontanati dai propri istinti animali sostituendoli con ciò che prende il nome di “fede”: se credi sei felice per definizione. E allora vivi e basta, come gli animali, e non ti poni più domande, annientando quindi il significato individuale di felicità. Se credi in un “dio” hai l'alibi: puoi fare ciò che vuoi senza essere condannato. E così se pensi a dio, ma in realtà credi al denaro e che non esistano alternative al lavoro salariato allora percepisci di lottare per la sopravvivenza e non ti poni domande sulla tua soddisfazione e sulla condotta etica di chi ti assume. Siamo l'unica specie in grado di costruire da soli la propria gabbia e di sentirsi liberi nel viverci.

“Con calma, cos'è un monologo? Non so chi, tra i lettori, è arrivato a seguirti fino in fondo. Non voglio incalzarti a soffermarti e approfondire alcuni punti tematici, visto che il tuo obiettivo è più quello di scrivere di getto le tue riflessioni piuttosto che argomentarle per convincere qualcuno. Vorrei soltanto farti riflettere su ciò che riguarda la tua vita.
Vorresti forse diventare anemica per salvare le mucche e poi morire non mangiando più nulla in nome della sostenibilità?”

“No di certo, Schwanden. Questo andrebbe contro il mio istinto di sopravvivenza. E poi, Schwanden, è vero che non abbiamo scampo, ma possiamo seguire una direzione. Possiamo ridurre le nostre esigenze e quindi inquinare in maniera inevitabile. So che il concetto di esigenze per la società è ben diverso dal mio, ma alla fine non è un mio problema. Diventa un mio problema se accetto il livello imposto senza esserne convinta o senza crederci. Finché conduco una vita che si limita a soddisfare le mie esigenze allora sono felice per definizione perché sto seguendo il mio “dio”. Se mi uniformassi alle esigenze richieste, a meno di non percepire che se non lo facessi sarebbe in gioco la mia sopravvivenza, questo andrebbe oltre i miei bisogni e mi sentirei infelice perché comincerei a chiedermi se sono felice, se posso cambiare e se sia quella la giusta direzione.”

“Quindi, per essere felici per definizione o meglio, per non porsi più questioni sulla felicità, occorre credere in un proprio “dio” ispirato di fatto all'istinto di sopravvivenza?”

“Esattamente Schwanden. Devo però ammettere che il mio “dio” è mobile, cambia nel corso del tempo perché cambiano le mie esigenze, cambia il concetto di sopravvivenza. Per questo mi definisco una persona felice a tratti, come una funzione discontinua. Felice finché segue il suo dio e vive in funzione delle sue esigenze. Poi accade che ogni tanto “perde il segnale” col proprio dio, col proprio istinto e le proprie forze vitali e allora brancola nel buio. Poi “ritrova il segnale” e si sente di nuovo felice finché non lo perde di nuovo e così via. Al crescere del tempo, una persona saggia impara a muoversi nel buio e quindi a ridurre l'ampiezza dei salti di infelicità. Impara cioè ad adattarsi, ma non per questo ad abituarsi, alle situazioni temporanee di infelicità, alle contingenze e alle cause di forza maggiore che intaccano, che erodono le nostre esigenze.”

“Quindi ciò che chiami “dio” non è qualcosa di ben definito, di continuo o stabile, giusto?”

“Schwanden, non c'è nulla di ben definito, di continuo e stabile in un mondo in continua evoluzione”.

“OK. Adesso arrivo ad una domanda indiscreta. Ma non è che tu in fondo in fondo ti sei ammalata, o meglio, sei stata male, da una parte, per giustificare il tuo “gesto di generosità verso l'ambiente” (un po' come dire: mi faccio fuori perché nulla è sostenibile) e dall'altro lato per riavvicinarti di nuovo al tuo istinto di sopravvivenza che, minacciato dalla malattia, non avrebbe lasciato spazio ad ulteriori questioni sulla felicità?”

“Schwanden, sapevo che non avevo bisogno dello psicologo, visto che ci sei già tu. La questione di fatto è un po' complicata. Sicuramente è vero che la nascita e la presenza di mia figlia hanno intaccato il mio “dio”, le mie esigenze personali. Mi sono adeguata bene “al salto” ritrovando subito la felicità. Ma ovviamente ci sono sempre delle questioni “familiari” sospese. Emigrare è stata certamente una fuga e finché l'ho percepita come una scelta di sopravvivenza sono stata benissimo. Cominciando ad ambientarmi e a sentirmi in paradiso, forse ho cominciato a percepire un senso di colpa per aver abbandonato casa mia (che è anche di proprietà di mia sorella) e quindi di averla resa vulnerabile a furti o mal-affari, facendo un danno anche a mia sorella e sentendomi impotente, incapace di gestire la situazione. Non voglio approfondire il discorso. Poi ci sono anche altre incomprensioni, dialoghi mai sostenuti o parole non dette a chi non vuole sentire. Schwanden, sì, devo ammettere, certe volte penso che non basti emigrare, bisognerebbe sparire per risolvere ogni questione.
Se tutto ciò ha causato i miei problemi allora dovrei guarirne sintonizzandomi di nuovo con il mio “dio”. Dovrei sentire di nuovo il morso della fame di sopravvivenza, vivere e basta. Credimi, gli obiettivi, il lavoro (a meno che non siano dettati da sopravvivenza) non sono il tuo “dio” perché una volta terminati ti lasciano più infelice di come eri prima. Il tuo “dio” sono i tuoi valori: la libertà, l'indipendenza, l'amore ... e se ci penso non mi hanno mai abbandonato. E' soltanto che le cose più importanti spesso le si danno per scontate, mentre se percepisci di lottare per sopravvivere non dai più nulla per scontato.”




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