domenica 25 dicembre 2016

Bucato

A volte ti senti Dio in terra, a volte sei così a terra che ti senti l'escremento del marciapiede che tutti sono riusciti ad evitare di pestare e che oramai sta seccando. Eppure sei sempre tu: la stessa persona. E' soltanto questione di percezione. 

L'uomo è un essere grandioso, può fare cose meravigliose se lo si guarda nella sua individualità, per le sue capacità. D'altro canto, l'uomo è insignificante se lo si guarda in mezzo alla massa, o peggio, in confronto all'intero universo. 

Ed è proprio scegliendo una prospettiva da cui guardare che determiniamo le azioni da pianificare. Possiamo guardarci in mezzo agli altri, fare cosa fanno gli altri, scegliere cosa scelgono gli altri. In questo modo, appena noi ci allontaneremo, o gli altri si distaccheranno, avremo la sensazione di essere nulla, di non valere nulla. Se guardiamo invece dentro di noi e cosa abbiamo fatto, tutto cambia (mettere al mondo un bambino è certo meraviglioso, ma anche ogni singola cosa che facciamo con il sentimento o per passione lo è). 

La prospettiva è come lo specchio. Quando mi guardo allo specchio di casa, vado bene così come sono, non mi viene neanche voglia di pettinarmi. Poi quando esco, entro in un negozio e mi guardo al loro specchio, mi vergogno di essere uscita e mi sento la persona più trasandata di tutta la borgata. 

Eppure è solo questione di luce. In casa la luce illumina, ma non riflette; in altri luoghi chiusi la luce riflette, ma non illumina.

Nel corso dell'anno ho provato entrambe le sensazioni. Da una parte, sentirmi forte, capace di ogni cosa, fortunata di essere emigrata. Dall'altra mi sono sentita impotente, talmente a terra da voler quasi sprofondare e sparire, per non seccare lì sul marciapiede.

Perciò definisco l'anno, che sta finendo, in una parola: BUCATO; come quel calzino, appena acquistato che non appena indossi ti accorgi essere bucato. Ed ecco il disagio che sconfigge la libertà di poter camminare senza rischiare che un dito del piede rimanga intrappolato in quel tessuto che tu stesso hai infilato. BUCATO, come le braccia dopo continui, prelievi, flebo che sfoggi insieme all'abbronzatura. BUCATO, come quello che tiri fuori dalla lavatrice: che sa di pulito, ma sempre meno di quello del vicino che riesce a lavare meglio. BUCATO, come tante cose di cui cominci a dubitare, per esempio se dietro il fatto di fare il bucato in comune non si nasconda un paranoico piano per tenere sotto controllo gli altri ed evitare che disturbino.
BUCATO perché c'è stata una rottura in una relazione che credevo di amicizia. BUCATO, come la mia testa che non trattiene ciò che pensa e che deve fare uscire, a parole o qua in questa sede. BUCATO, come il mio tedesco. BUCATO come il mio curriculum che ha una lunga pausa, l'età di mia figlia.
BUCATO, come il mio animo irrequieto che ha sempre un vuoto da colmare.



Cari lettori devo ringraziarvi per la vostra continuità, senza buchi, nel seguire tutte le mie vicissitudini, i miei pensieri, i miei sfoghi. Quando vedo Schwanden, il bosco davanti casa mia, penso a voi lontani, ma vicini. Ci rileggiamo nel 2017, sperando di raccontarvi di una calza nuova, senza buchi.

sabato 24 dicembre 2016

Il salto

“Tra la disperazione e la pianificazione, c'è stato di mezzo il RAV.”

“Il RAV? Ti sei iscritta all'ufficio di collocamento?”

“Già. In realtà l'ho fatto solo perché avevo bisogno del colloquio di consulenza su come cercare lavoro qua a Zurigo. In particolare, avevo delle domande circa una possibile ricollocazione, un cambio di carriera … Ma vedo che è già tanto sperare di trovare lavoro nel settore dove ho sempre lavorato, figuriamoci in un altro. Se in Italia ogni cambiamento è scoraggiato dal mercato, dalla mancanza di possibilità e prospettive, qui è scoraggiato principalmente da fattori tuoi personali: la lingua, la nazionalità, l'età e l'elevato costo di formazione. A me non dispiacerebbe lavorare in un nido o fare un lavoro assistenziale. Acquisirei nuove capacità e lavorare con le persone mi darebbe soddisfazione. Ma dovrei per prima cosa conoscere bene il tedesco, pagarmi un corso di formazione, avere 18 anni e competere con i cittadini svizzeri. Praticamente in un'altra vita, Schwanden. Qui, anche al nido, iniziano a lavorare molto giovani. A 15/16 anni hanno già esperienza come baby-sitter. Io alla loro età, quando vedevo un bambino, facevo solo gli scongiuri.

Comunque, ritornando al discorso, mi presentai al RAV per chiedere una consulenza e mi ritrovai iscritta, o meglio assicurata, alla cassa disoccupati. 

Riferii all'impiegato, in inglese, che non ero interessata a nessuna assicurazione. Mi disse che l'iscrizione era obbligatoria per poter accedere al servizio di consulenza. Mi assicurò che non dovevo pagare nulla. Poi mi diede una serie di moduli da compilare, concordammo l'appuntamento con la consulente e la data per il test di conoscenza della lingua tedesca.

Mi disse di recarmi all'incontro con la consulente accompagnata da un traduttore o da una persona di mia fiducia che parlasse italiano e tedesco.

Tornata a casa, cominciai a compilare i moduli da spedire per posta ordinaria. C'era anche la richiesta per il contributo di disoccupazione. Ho letto che ne hanno diritto coloro che hanno lavorato in Svizzera negli ultimi 12 mesi e, successivamente, hanno perso lavoro. L'importo corrisposto è il 70% del salario medio. Però, durante il periodo in cui si percepisce il contributo, bisogna dimostrare di star attivamente cercando lavoro, compilando un foglio con tutti i riferimenti delle candidature presentate. E poi bisogna accettare il primo impiego offerto, altrimenti si perde il diritto al contributo. Mi chiedo come mai l'impiegato mi abbia detto di compilare pure questo foglio, visto che non ho diritto a nessun contributo, non avendo mai lavorato in Svizzera. Tuttavia lo compilai, pensando che per formalità avrei dovuto compilarlo lo stesso, anche se sarebbe stato poi rigettato.

Al colloquio con la consulente, decisi di presentarmi da sola, senza nessun traduttore; non per presunzione, ma per ragionevole contestazione. Infatti mi sembrava assurdo che non fosse possibile parlare in inglese, e se proprio fosse stato così, allora avrebbe voluto dire che il servizio non era adatto a me. Con la consulente doveva crearsi un rapporto di comprensione attraverso incontri periodici. Quindi, aldilà del costo che avrei dovuto sostenere per pagare un traduttore, avrei percepito un intermediario come un terzo incomodo, un fattore di disturbo che, a mio parere, avrebbe reso difficile ogni tentativo di stabilire una “comune azione.”

Preparai il mio curriculum in tedesco e mi preparai anche ad essere insultata, eventualmente. E invece la consulente iniziò subito a parlare in inglese e mi fece i complimenti per essere stata in grado di tradurre il curriculum. Mi suggerì alcune offerte, che però provenivano da società farmaceutiche, soltanto perché io le avevo detto che avevo tentato quella strada. Mi fornì un elenco di siti internet dove trovare annunci e possibili contatti. Certamente non fu lei ad indicarmi la nuova strada e la direzione che adesso seguo, e quindi la mia idea di ricerca, ma almeno mi spronò a “fare i bagagli” e a iniziare il mio cammino.

Poi ci fu il test di tedesco. Tutto sommato, ne fui soddisfatta. A differenza dei compiti in classe, affrontai la prova come un tuffo dal trampolino, dove ti butti, non preoccupandoti di come gli altri ti vedono volteggiare e del punteggio che ti daranno una volta caduto in acqua, ma come un salto, dove il vuoto che senti prova che in quel preciso momento stai vivendo e quando cadrai in acqua ne sentirai la forza, l'impatto.”


sabato 17 dicembre 2016

Castello in aria

“Ho appena finito di dire che adesso sto bene, che sono attiva, energica, che non mi ferma nessuno, quando arriva questo malessere che mi fa vomitare ogni singola parola, ogni singola asserzione digerita.”

“Stai di nuovo male?”

“Per fortuna il vomito ha fatto passare tutto. E adesso ti ribadisco che sto bene, che sono una roccia, che.... la tosse non ---riesco a parlare. Ho quasi l'asma. Ma ecco, posso ripetere che sono forte, che sono in grado di fare qualsiasi cosa io voglia. No, davvero è tutto sotto controllo. Per un attimo mi sono ricordata del periodo in cui stavo male. Mi è sembrato lontano benché non sia passato molto tempo. Adesso invece, la nausea e poi la tosse a non finire sono soltanto effetti dell'inserimento.”

“Inserimento? Cosa ti sei inserita?”

“Un contratto è stato firmato con l'asilo nido. Hanno inserito mia figlia nel loro gruppo e io ho inserito i loro batteri nel mio organismo.”

“Ah! La Kinderkrippe!”

“Però non voglio parlarti di questo. Né della mia salute. Questa terribile tosse passerà. Tossisce pure mia figlia, è evidente che sono i batteri. Ho trascorso anche io del tempo lì con lei, la cosiddetta fase di inserimento al nido. Al momento, mia figlia è seguita da un'educatrice che parla italiano anche se poi imparerà il tedesco. Abbiamo trovato facilmente posto al nido perché il servizio è in parte finanziato dall'azienda dove lavora il mio compagno. Ma non voglio approfondire l'argomento. ”

“E i linfonodi come stanno?”

“Ad un certo punto mi sembravano sgonfi, ma alla fine son sempre lì. Poi ho di nuovo alcuni valori del sangue fuori norma, ma non al punto da giustificare alcun trattamento. Il suggerimento del dottore è ripetere le analisi tra un mese e vedere. Schwanden, sinceramente adesso l'argomento mi lascia nella più totale indifferenza. Non sanno darmi spiegazioni, ma vogliono continuare a monitorarmi. Va bene, è ragionevole però adesso la mia priorità è cercare lavoro. Non appena ho cominciato a cercare e pensare ad obiettivi professionali, mi sono sentita molto meglio e ho ritrovato la grinta persa. Il fatto di aver vomitato mi ha solo fatto riflettere, fatto ricordare che il mio limite sono le mie membra. E poi dovevo raccontarti questo episodio perché i migliori amici sono quelli con cui condividi risa, pianti e vomitate.”

“Che lavoro stai cercando? E dove?”

“All'inizio ero abbastanza scoraggiata. Non riuscivo a trovare nulla che richiedesse le mie capacità, a parte le offerte internazionali, delle aziende farmaceutiche, che non esigono la conoscenza della lingua tedesca. Molto svogliatamente, mandavo le solite lettere, il solito curriculum, sapendo comunque che non ero il tipo di persona che cercavano, anche perché non ho esperienza nel settore farmaceutico, pur avendo esperienza in analisi che loro richiedono. Non ho ricevuto risposte, tranne un'azienda che mi ha invitato ad un colloquio telefonico. Già il fatto che non hanno voluto perdere tempo a invitarmi di persona non mi ha ben disposto. Però almeno in due minuti si è capito che siamo come due bus che vanno in direzione contraria e quindi non si toccano né si “baciano” se non per incidente stradale. Secondo loro, per procedere nella selezione, avrei dovuto documentarmi sul loro profitto aziendale perché è stata la prima cosa che mi han chiesto. Non ero abituata a questo approccio e ho frainteso pensando si riferissero alle mie aspettative salariali. Il colloquio è finito lì senza ulteriori domande. Certamente, se ho fatto la figura da sprovveduta e da chi del mondo non capisce nulla, loro han fatto la figura di gente che ha come unico obiettivo il profitto e che tratta le persone come pedine per raggiungerlo.
In effetti, Schwanden, non ho forse più nobili valori rispetto a far profitti? Non ho forse altre idee, progetti? Perché devo perdere tempo a rispondere ad annunci che confermano quello che già so: che non voglio, né posso essere la persona che possa contribuire ai loro profitti? Come posso far arricchire qualcuno se non mi interessa guadagnare per comprare oggetti, a mio parere, inutili che però la società definisce indispensabili per vivere?
Devo fare ciò che sento, portare avanti un obiettivo che mi faccia credere di aver migliorato la vita delle persone, in termine di felicità, di sorriso o di pace interiore. Per poter continuare a vivere in questo posto devo poter cambiare qualcosa, qualcosa che vada contro quest'atteggiamento utilitaristico, orientato principalmente al profitto, anche in campo sanitario. Vorrei minacciare questa presunzione. In particolare, anche per esperienza personale, vorrei contribuire a introdurre un modello che migliori la comunicazione tra medico e paziente. Credo che qui i medici difettino, molto più che in Italia, di disponibilità e/o capacità di ascolto. Certamente non ti fanno attendere in sala d'aspetto e rispettano gli orari di visita, ma non sempre dedicano il tempo che necessiterebbe un paziente particolare. Se non ci sono liste d'attesa, c'è però un grande vuoto tra medico e paziente. Vuoto che a volte impedisce una diagnosi corretta o accurata. Vuoto, che è incomprensione, vuoto che potrebbe essere colmato lasciando al paziente la possibilità di esprimersi attraverso la scrittura, così proprio come sto facendo ora. In tal modo il paziente acquisterebbe, nel processo di cura, la propria centralità, spesso negata in una visita convenzionale.”

“Ancora quella storia del tuo progetto di medicina narrativa? Vorresti che anche dal medico di base ci fosse un diario. Beh! Se i dottori non trovano il tempo per ascoltarti, figurati se si mettono a leggere la tua storia.”

“Infatti, vorrei farlo io, come ho già fatto nell'altro studio.”

“In tedesco?”

“Sto facendo progressi.”

“Non credo questo sia un paese di narratori, bensì di trattori.”

“Beh possono anche parlare di trattori, anche il lavoro influenza la salute. Si chiama approccio olistico.”

“Olistico? Non c'è niente di più olistico del denaro, o meglio del sistema monetario, credimi. Tutto da lì parte e tutto finisce lì.”

“Infatti non c'è niente nel denaro.”

“Ti sbagli, c'è tutto.”

“Punti di vista. Schwanden, so che tu sei un osservatore del mondo e quindi dici ciò che vedi. Tornando al discorso della fattibilità del mio progetto, nutro delle speranze su una persona a cui ho fatto, così mi è sembrato, una buona impressione. Non mi ha promesso nulla, d'accordo, ma non ha ostato nulla. Poi ho contattato altre persone. Finché tutti non rifiuteranno esplicitamente il mio progetto o la mia candidatura per progetti simili, non crederò che in questo paese non sia possibile realizzare ciò che vorrei. Schwanden, si tira avanti finché non crolla il castello in aria che si è costruito.”

“E dopo che crolla?”

“Occorre scegliere se provare a costruire un altro castello nello stesso posto oppure cambiare posto e portarvi le macerie del castello crollato per ricostruirlo.”

“Già, ma per quanto tu possa cambiare posto, resta pur sempre un castello in aria.”


domenica 11 dicembre 2016

Quelle strane occlusioni

“Schwanden, prima di parlarti di lavoro, vorrei tornare sulla questione e sul tema della discriminazione. Sono tornata di recente in visita alla mia città natale. Sono stata pochissimo, ma non avrei voluto stare di più, se non per rivedere tutte le persone che avrei voluto. Io penso di non poter, né volere, più riviverci. Ho trovato una città sempre più scoraggiata e sempre più rassegnata. Sempre più derubata. Le persone non si sentono più a casa loro. Si sentono sopraffatte dagli stranieri, si sentono incapaci di qualsiasi azione per riprendere in mano la propria nazione, nessuno si sente tutelato dalla legge. Dall'altro lato invece ci sono quelli che non ascoltano questioni che definiscono “lamentele e odio del popolo” perché possono permettersi una posizione privilegiata e credono ciecamente nella legge e nelle istituzioni soltanto perché non hanno controversie.

Ciò che penso è che in Italia ci si frega da soli. Per prima cosa non si ha la capacità di distinguere tra le persone oneste e quelle disoneste. E allora, ci si scontra con questioni razziali. Se qualcuno crede che sia necessario non fare entrare più immigrati è proprio perché crede che in Italia non si abbia questa capacità di distinzione. Se non si è consapevoli di chi siano le persone oneste e quelle disoneste, di chi paga i suoi debiti e chi no, allora si deve distinguere tra chi è alto o basso, tra chi è immigrato o no, tra chi è ben vestito o malvestito, tra chi è bello o brutto, tra etero o gay. Questa è l'Italia: le discriminazioni sono basate soltanto su elementi esteriori e non su questioni di fatto. E quindi per non apparire razzisti, sessisti, omofobi, si accetta tutto: falsità, disonestà, assenteismo, evasione, perversione. Ed è anche per questo motivo che poi uno straniero vanta pretese che non ha, giocando sull'apparente discriminazione. Il classico esempio dello straniero multato sull'autobus perché viaggia senza biglietto e ha la pretesa di insinuare: “tu fai la multa a me perché sono nero.” E qualcuno è ancora capace di dargli ragione. A nessuno invece è chiaro che se ricevi una multa è perché hai fatto una violazione. Nolente o dolente è così. Non condanno chi commette infrazione, ma chi non vuole assumersene la responsabilità e pagarne le conseguenze. Se non accetti di vidimare per viaggiare in autobus, anche se non passa il controllore, dovresti andare a piedi, in bici o fare l'autostop.

Eppure, Schwanden, anche io da ragazzina ne ho fatte bravate, un po' per sfida, un po' per gioco. Vedevo che i miei genitori non mi rimproveravano se dicevo “oggi ho viaggiato senza biglietto: tanto erano poche fermate e poi l'autobus era pieno e difficilmente avrebbe potuto salire il controllore”, ma avrebbero fatto una scenata se avessi detto “oggi, dopo aver obliterato, ho conosciuto un ragazzo molto affascinante, tant'è che mi sono dimenticata di scendere alla fermata giusta e sono arrivata con lui fino al capolinea.” Sarebbe stato poi uno scandalo se avessi detto che il ragazzo era straniero. Mi ricordo da bambina quando sentivo alla radio una canzone (che mi dissero di Giuni Russo) che diceva : ”che scandalo da sola ad Alghero, con uno straniero, con uno straniero.” Eppure nessuna canzone ha mai condannato chi non paga le tasse o non rispetta gli altri.

In Italia non c'è nessuna consapevolezza di cosa sia di fatto l'onestà. Tutti pensano di essere buoni, onesti, ma quando possono sgarrano senza nemmeno rendersene conto. Non ci si accorge che così ci si frega l'uno con l'altro, facendo anche un danno a sé stessi.

E non è un caso se adesso la situazione, a detta di alcuni, sembra quasi insostenibile: furti all'ordine del giorno, morosità, criminalità. E poi invece ci sono quelli “ingessati”, che pensano che tutto si risolverà. Ma la gente ha sempre più paura di esporsi, preferisce subire o sperare che tutto si risolva per il meglio, senza di fatto far nulla.

A me spiace vedere questa situazione, anche se non ci vivo più. E poi, come ti ho detto, ho subito anche io un'ingiustizia. Ma ciò che mi spiace di più non è il fatto che adesso casa mia è in mano a gente che non paga. Ma ciò che mi spiace di più, da una parte, è che questa gente si comporta come se nulla fosse, come se avesse ragione, senza dichiararne il motivo, senza scusarsi, senza rispondere. Ed anche al tribunale sembra normale concedere tutti questi mesi di alloggio gratuito. Anzi, si impegnano pure a trovargli un altro alloggio.

La cosa che mi intristisce in assoluto è aver affidato l'incarico di mediazione, per trovare gli inquilini, ad una mia amica. Mi fidavo di lei. La conosco fin da quando ero bambina. Avevo scelto lei perché, lavorando all'agenzia delle entrate, è esperta in questioni fiscali, amministrative e, in quanto avvocato, pure legali. Ma purtroppo mi ha deluso. Evidentemente non condivideva i miei obiettivi. Senza dubbio ha svolto tutte le pratiche in maniera adeguata, ma il grosso errore che ha fatto, nonostante la sua formazione, è non aver saputo distinguere, di fatto, tra lavoro tassato e lavoro in nero e quindi non essere stata in grado di giudicare tra chi avrebbe potuto pagare e chi no, o tra chi vuol fare il furbo e chi no. Infatti ha effettuato controlli puramente formali, ma in effetti se una persona lavora in nero non si può sapere quanto guadagna e non ha senso verificare il contenzioso fiscale. Comunque, senza entrare nei dettagli, una vera amica si sarebbe comportata come se la casa fosse stata sua e quindi avrebbe avuto più scrupoli, avrebbe dovuto sentirsi più coinvolta. Forse lei crede troppo nelle istituzioni e allora ha pensato che se le cose sarebbero andate male l'avvocato avrebbe preso in mano la situazione e l'ufficiale giudiziario avrebbe risolto tutto. Ma non si è resa conto del guaio o del danno che questo avrebbe cagionato. Forse, come un agente immobiliare, ha voluto sbrigarsi a fare incontrare domanda e offerta, dimenticando che si trattava di un incontro al buio e, aldilà del compenso percepito, di una commissione da fare per un'amica.
Ne ho parlato apertamente con lei, ma questa è stata la sua risposta: “neanche ad un agente si addossa la responsabilità per la morosità e poi, cosa pretendi, non è mica raro in questi tempi trovare gente che non paga”. Poi ha voluto restituirmi il compenso che le avevo dato.
Schwanden, io non l'accuso certamente per avermi trovato queste persone. Anche se prima d'ora non mi era mai capitato di trovare persone inadempienti, questo non vuol dire che non sarebbe capitato se l'avessi affittata io. Ciò che mi ha deluso è il fatto che lei abbia sottovalutato una commissione piuttosto delicata per un'amica, eseguendola nel modo più distaccato possibile.
Anche quando doveva sollecitare il pagamento, non si esponeva più di tanto. Poi ho preso in mano la situazione, ma non potendo, per i problemi di salute che ho avuto, recarmi a parlare personalmente con queste persone, non sono riuscita ad evitare lo sfratto, anche se sono riuscita a recuperare una mensilità. Dopodiché ho dovuto affidarmi all'avvocato e da allora non ho ricevuto più nessun pagamento. Poi queste persone non rispondono, né ritirano i comunicati: sono un muro. Devo confessarti, Schwanden, che se avessi avuto la possibilità di recarmi a casa mia forse avrei rischiato una denuncia o peggio. Ma credimi, non avrei alimentato il lassismo, l'omertà e l'abulia che regnano nel paese. Sembra che nessuno sia più disposto ad impegnarsi per difendere nulla, neanche i propri diritti. Basta che sei connesso in rete e allora va tutto bene, mentre la realtà ti sfugge sotto gli occhi. Schwanden, sai che se mia sorella non fosse anche proprietaria della casa, sarei stata disposta a concederla in comodato gratuito a persone in difficoltà, ma non disoneste. E perciò io avrei rischiato la denuncia, non per questioni di denaro, ma per dignità personale. Perché non accettare la disonestà non significa avere pregiudizi, ma vuol dire non lasciarsi prendere in giro."


venerdì 25 novembre 2016

Je SUISSE GARANTIE

“Schwanden, a volte mi intristisce pensare che mia figlia forse crescerà in una nazione classista dove molto probabilmente non sarà disoccupata grazie al protezionismo, ma a costo di doversi integrare a questa cultura.”

“Cos'è che non ti piace della cultura locale?”

“Innanzitutto il fatto che si discrimini tutto col denaro. Qui, oltre a farti pagare qualsiasi cosa, persino la lista delle baby-sitter, ti fanno ancora sentire pezzente se cerchi di risparmiare facendo, per esempio, una copertura base assicurativa, ti trattano come l'ultimo paziente della lista e sembra ancora che ti facciano un favore a curarti (certamente, come servizi sono molto più celeri che in Italia, ma credimi, secondo me in Italia i dottori sono più competenti).
Poi c'è la filosofia che il denaro salvi tutto: se paghi puoi evitare di fare la raccolta differenziata; se hai uno stipendio alto le procedure per ottenere una casa in affitto si accorciano, il conto in banca te lo aprono subito, se paghi di più ottieni un servizio migliore. E' tutto così. La distinzione tra prima e seconda classe è presente ovunque, negli ospedali, nei servizi pubblici e privati.
Certo, a differenza dell'Italia qui non c'è ipocrisia ed è tutto così esplicito, regolamentato e trasparente. E poi in Italia è già tanto aspettarsi un servizio pubblico decente, altro che prima classe. In Italia invece sembra che tutti si vergognino ad ammettere che risolvono ogni cosa col denaro: sotto sotto pagano o rendono un favore al funzionario che velocizza la pratica, pagano il medico privato e allora tutto si aggiusta, si trova posto in ospedale. Qui invece non paghi estorsioni, corruzioni, regali, ma paghi tasse e servizi non al singolo che ci lavora, ma all'organizzazione. E' soltanto che da questo punto di vista questo paese sembra di fatto gretto e meschino. In Italia almeno è apprezzabile lo sforzo di chi professa diversi valori. Certo l'Italia è il paese delle belle illusioni... Scusa, mi stavo perdendo con il confronto. Torniamo ai punti negativi.
Devo inoltre aggiungere che se non hai un bancomat od una carta di credito difficilmente sali sull'autobus, perché è possibile acquistare i biglietti ad ogni fermata, tramite lo sportello automatico che non accetta banconote. Non credo nemmeno che si possano acquistare biglietti da vidimare, visto che a bordo solitamente non è presente obliteratrice. Quindi di fatto se non hai un conto, non conti come passeggero e quindi non sali.

Un'altra discriminazione viene fatta sulla nazionalità. Se un bambino non è svizzero, difficilmente frequenterà una classe dove ci sono cittadini svizzeri “puri”. Poiché in Svizzera è pieno di immigrati, li si incoraggia a frequentare gruppi di incontro, scuole, circoli dove ci sono anche i propri connazionali. Certo, idealmente lo scopo è quello di farli sentire più a loro agio, ma di fatto l'obiettivo è selezionare, discriminare, visto che la lingua ufficiale resta comunque il tedesco. Ed è tutto così trasparente, anche nel mondo del lavoro. Se vogliono assumere un cittadino svizzero lo specificano nell'annuncio di offerta di lavoro tra i prerequisiti, come se fosse il grado di istruzione. O se non lo scrivono esplicitamente, te lo fanno capire. E così a scuola, negli asili. Formano le classi in base alla nazionalità, all'andamento e/o alla condotta scolastica, al temperamento, al carattere, all'atteggiamento. Non mi stupirebbe se selezionassero pure in base al fatto che i genitori abbiano o meno stipulato un'assicurazione contro i danni causati dal figlio.

Infatti qui la cultura assicurativa è molto sentita e se non ti assicuri hai sempre la sensazione di sentirti incosciente perché qua se fai un danno non puoi mai sapere quanto possano farti pagare. Così come quando vai dal dottore. Facciamo quest'esame, seguiamo questo trattamento e poi ti senti ancora peggio quando ti recapitano la fattura da pagare.
In compenso quando cammini per la strada possono pure caderti i soldi e puoi vedere la gente che se si ferma è per aiutarti a raccoglierli e restituirteli.
Così come a nessuno passa per la testa di non pagare (anzi qua più paghi più é un valore) così a nessuno passa per la testa di rubare (è chiaro che ci sono eccezioni, ma nel complesso la situazione è così).

Tuttavia, il fatto che qua si abbiano molte più esigenze per vivere non vuol dire necessariamente che ci siano sprechi o consumismo, Infatti qua non c'è la cultura del “compro a poco prezzo e poi butto per sostituire”. E' però anche vero che questa cultura è imposta, nel senso che non trovi nulla a poco prezzo, e poi per buttare devi pagare. La maggior parte degli articoli casalinghi ed elettrodomestici in commercio è prodotta localmente o comunque rispetta certi standard. E se provi a comprare online dalla Germania, per esempio, se non torna indietro al mittente, ti arrivano i dazi doganali da pagare.

Un altro punto dolente, è che ho come l'impressione che si vogliano tutelare i servizi di spedizione postale. Persino l'Italia ha fatto notevoli passi avanti per ridurre il cartaceo, presentando la maggior parte dei documenti in formato digitale, comunicando via mail con le amministrazioni, servizi pubblici e privati. E devo dire che funziona molto bene (ho fatto il cambiamento di residenza online e il giorno seguente ho ricevuto già la ricevuta con certificato).
Qua invece ti richiedono di inviare tutto per posta ordinaria, non scrivono mail, ti scrivono lettere: uno spreco notevole di carta. Capisco che qua tutti la riciclano, ma non mi sembra giusto nei confronti dell'ambiente (e dire che questo paese è “verde”). Questo, a mio parere, ha la finalità di tutelare il servizio postale che, senza dubbio, è impeccabile, celere ed economico: spedire una lettera costa meno che in Italia e arriva il giorno dopo.

Apprezzo comunque il fatto che si proteggano i prodotti locali e quindi la qualità, che non si accetti che negli esercizi commerciali si possa lavorare sottopagati o a ritmi disumani. Questo, ovviamente, per evitare di attirare gente disposta a lavorare come “schiavo” perché disperata, così da non danneggiare i cittadini che certamente non accettano di competere a queste condizioni.
Questo vuole anche dire che in Svizzera non puoi vivere di espedienti, arrangiarti. In Italia, comunque, se non lavori non paghi le tasse, hai esenzioni sanitarie, quindi puoi curarti, puoi anche vivere senza pagare affitto per qualche mese o anni.
Qua se non lavori e sei straniero ti rispediscono a casa, a meno che non hai qualcuno che ti mantenga, e poi comunque hai dei costi fissi inevitabili per vivere: l'affitto, l'assicurazione sanitaria (altrimenti non ti curano), la spazzatura (si paga il singolo sacchetto e non è previsto usare altri sacchetti, a meno che non si tratti di poca spazzatura che produci uscendo, che puoi buttare nei cestini).

Un altro aspetto da notare è che qua ogni professione è riconosciuta. Qualsiasi lavoro manuale ha prestigio e vale molto di più di ogni titolo di studio. Tra i giovani (svizzeri) è molto diffuso fare il praticantato e poi lavorare subito, piuttosto che laurearsi e poi filosofeggiare (come me, in fondo). Qua infatti la discriminazione si fa su quanto guadagni e quindi puoi anche essere muratore, ma se guadagni come un impiegato hai la stessa stima e rispetto.
Trovo corretto non avere pregiudizi su nessun lavoro, non disprezzare chi si sporca le mani. Però a volte spiace un po' che nessuno, quando dici che hai un dottorato di ricerca, faccia un minimo segno di apprezzamento o mostri curiosità. Se non vedessero che ho la bambina, passerebbero subito alla domanda, “ma cosa fai come lavoro?” Qua infatti ciò che conta è cosa fai e non chi sei. E questo non mi piace molto.
A Londra, ricordo, ci avevano subito affittato la casa, chiudendo un occhio anche se io non avevo ancora lavoro e il mio compagno aveva una borsa di studio di dottorato, soltanto perché io avevo il dottorato di ricerca. “I can trust a PhD” fu la conclusione del proprietario.
Tuttavia a Londra, come ben sai, c'erano altre cose che non mi piacevano (la chiusura sociale ed emotiva, la burocrazia). Qua invece puoi conversare con tutti e puoi far valere le tue ragioni, senza scontrarti con la burocrazia. Solo che, devo riconoscere, a Londra, prima del brexit, nessuno era discriminato per nazionalità e religione ed era facile trovare lavoro per titolo, senza conoscere nessuno (qua non è così e te ne parlerò un'altra volta).

Schwanden, sembra che ormai sia impossibile vivere in una nazione di essere umani. O vivi in un mondo di disoccupati, di delinquenti, di ladri e di gente vittimista o vivi in un mondo selezionato, classista, di gente che accetta la diversità culturale per ghettizzarla.
Schwanden, in ogni caso, ovunque vai, governa sempre il denaro e se non c'è odio c'è chiusura mentale, se c'è ricchezza materiale c'è povertà intellettuale. Infatti qua in Svizzera non interessa a nessuno chi sei e quanto hai studiato: l'importante è avere un ruolo pagato all'interno della società dall'azienda che ti assume o dal marito che ti mantiene per badare ai figli.

Finché le persone non impareranno ad autogovernarsi, il buonsenso dovrà sempre trovare un compromesso col potere e attualmente, nel contesto globale, sembra che non ci siano alternative tra le due posizioni: di chiusura delle frontiere e protezionismo o di piena apertura e globalizzazione. Ma ora non voglio divagare.

Schwanden, tuttavia non mi posso lamentare. Non tornerei in Italia per nessuna ragione. Sono immersa nella natura, vivo lontano dal traffico stradale, dallo smog, la qualità del cibo è indiscutibile, mia figlia si diverte, posso anche farla camminare per la strada senza tenerle la mano, le strade sono pulite. E' ben difficile che mia figlia possa inciampare su qualcosa di tagliente. Mi sento davvero in pace. E' anche vero che mia figlia non va ancora a scuola, anche se inizierà presto l'asilo nido. E' anche vero che non lavoro, che non mi sono scontrata ancora con nessuno, ma sto attivamente cercando lavoro e la prossima volta te ne parlerò.

Però, credimi, sembra assurdo che io dubiti di far crescere mia figlia in un ambiente pulito, selezionato, protetto, senza ciò che la gente definisce “gentaglia”, con la possibilità di diventare cittadina svizzera, di poter essere inserita in una classe di gente come lei, di trovare un'occupazione, di parlare diverse lingue, di avere uno stile di vita salutare. Però Schwanden devo ammettere che io ho imparato molto dal convivere in una classe di studenti dove ognuno aveva i suoi tempi di apprendimento, la propria condotta. Alla fine uno studente non impara solo dagli insegnanti, ma anche dai suoi compagni di classe. Più la classe è promiscua, più è facile che un bambino acquisisca apertura mentale. E non vorrei incentivare mia figlia ad una cultura chiusa, seppur multiculturale. Perché il fatto di parlare più lingue, certamente vuol dire rispetto per altre culture, ma questo non vuol dire che non ci sia incomprensione e distacco verso le persone di altre culture.
Schwanden, io penso sia meglio far crescere una figlia non in un ambiente dove hai il lavoro garantito dalle barriere, ma dove hai la possibilità di creartelo a seconda del tuo orizzonte, di diventare ciò che vuoi, di frequentare chi vuoi e di vivere come puoi. E non sono pienamente sicura che questo sia il paese ideale”.



lunedì 21 novembre 2016

Le note del pensiero

I pensieri spesso sono inconsci come le canzoni che canticchi, non necessariamente perché ti piacciono, ma perché ti vengono in mente, perché le hai sentite tuo malgrado mentre facevi spese, mentre aspettavi in un ufficio pubblico, al telefono, oppure le canzoni per bambini che fai sentire a tua figlia (anche se spontaneamente non ascolteresti mai) ... Spesso mi accorgo di cantare canzoni che addirittura mi infastidiscono, rimastemi in mente, inconsciamente.

Poi mi rendo conto che, se attivamente canto solo le canzoni che mi piacciono, tutto cambia. La giornata trascorre al ritmo che sento, con il quale sono in sintonia, al ritmo che mi fa star bene.
E così, analogamente, se mi vengono in mente pensieri, preoccupazioni che mi infastidiscono, che mi incupiscono, la giornata prende un ritmo che non vorrei seguire, che vorrei spegnere. E allora, poiché spesso è impossibile concentrarsi o distrarsi per la presenza di quel rumore, occorre trovare un ritmo, una melodia talmente forte da sovrastare quella che vorrei eliminare. Pertanto un pensiero positivo che orienti verso una direzione o soluzione è sufficiente a spegnere un pensiero negativo che genera solo preoccupazioni. 

La forza del pensiero assomiglia pertanto al tono della musica. Più i tuoi pensieri assorbono la tua mente e più senti la musica. E se il ritmo ti piace, balli senza stancarti fino a quando hai forza, sentendoti coinvolto ad ogni passo, percependo ogni movimento, vivendo intensamente. 

Infatti per me vivere intensamente non significa sfruttare ogni momento, impegnandolo sempre con qualche attività, ma significa sentirsi coinvolti ogni momento nell'attività che si sta svolgendo. Per esempio, quando mia figlia si addormenta tra le mie braccia non faccio nulla, non guardo nessun monitor, non leggo nessun libro, non ascolto nessuna musica, non penso ai fatti miei, ma la osservo. E in quel momento mi sembra di vivere intensamente perché mi sento pienamente coinvolta in ciò che faccio: la abbraccio e mi lascio trasportare dai miei sentimenti. 

Se pur facendo mille attività o avendo mille impegni non ci si sente coinvolti in ciò che si fa e si vive mantenendo un distacco da tutto, allora credo che non si viva intensamente.
Quando vivi intensamente sorridi non perché pensi sia giusto o sia educato, ma perché lo senti dentro e vorresti travolgere col sorriso ogni persona che incontri; ti arrabbi non perché reciti la parte di chi si lamenta, ma perché vuoi far valere le tue ragioni; piangi, urli per sciogliere ed eliminare tutto il male che hai dentro.


domenica 6 novembre 2016

L'arcano

Dottore, devo confessarle che ero preoccupata perché lei ha dubitato che tutti i miei malesseri inspiegabili potessero essere causati dall'insorgenza di depressione. Forse le sembrerà anomalo, ma avrei preferito il cancro alla depressione.

Avrei accettato di morire a causa di un tumore maligno o di un'altra malattia piuttosto che vivere con la depressione. Questo è il mio punto di vista. Vivere senza entusiasmo, senza passione, senza accorgermene per me non è vita ed è peggio della morte.

Mi creda, sono felice che dagli esami non risulta nulla, ma se questo significa che potrebbe trattarsi di depressione, allora sono più infelice di come sarei se fossi malata. Devo confessarle che mi stressa attendere la visita dello psichiatra. Preferirei fare altri esami più invasivi per trovare la causa del male piuttosto che vivere con la prospettiva di essere giudicata “depressa.” Comunque non faccio opposizione e sono sicura che l'incontro servirà più a lei, per concludere di aver cercato la diagnosi ovunque, che a me, perché nella mia mente la depressione non esiste, è lungi da me, non la faccio entrare. Appena ne vedo la minaccia cambio vita, cambio direzione.

E adesso sono solo stanca. Ho bisogno di tempo per riprendere le mie forze. Ho bisogno di tempo per dimenticare questa storia. Ho bisogno di tempo per cercare un lavoro e non voglio più incontrare medici come paziente, ma piuttosto come collaboratrice scientifica.
E poi preferisco vivere con i miei sintomi, con il dolore al petto, con le vertigini … piuttosto che tentare una cura di antidepressivi per distruggere ogni malessere.

Perciò le chiederei di fermarci qua. Il tempo è la migliore medicina nei casi come questi.”

Non ci fu bisogno di riferire al medico tutto questo discorso. Se ne accorse da solo. Mi vide, ero serena. In fondo lo ero sempre stata, ma il mio pallore aveva nascosto il colore della mia energia. I valori del sangue ora erano tutti nella norma.

“Ci vediamo tra un mese per il controllo. Nel frattempo si ritenga libera da ogni appuntamento: non vedrà nessuno psichiatra”.

E così guarii. Ho ancora qualche dolore, ma la mia mente ha ritrovato il suo “potere guaritore” e prima o poi cesserà tutto. Per mesi ho avuto il dubbio di fare la fine di mia madre, poi quella di mio padre e invece continuo a vivere la mia vita, alla mia maniera, con il mio stile. Ho rivissuto tutto il dolore che avevo superato. Ho provato di nuovo l'irrequietezza di non sapere, di non conoscere la causa della morte di mio padre. E ho capito cosa significa trovarsi all'improvviso “delle palline” e dover aspettare l'esito di una biopsia. Io sono stata fortunata, ma mia madre no. Di fronte al male non diagnosticabile ho saputo trovar la via di uscita, mio padre no. Eppure i linfonodi ci sono sempre, sempre più grossi, sempre di più. Ma ho imparato a lasciarli stare, a non toccarli, a non alimentarli, a non pensare alla loro ragione.

I religiosi lo chiamerebbero “Mistero della fede”. L'unica fede che ho è nella mia vita e se svelarne il mistero significa abbandonarla o allontanarsi da essa, allora preferisco l'arcano.


venerdì 21 ottobre 2016

Peccatori di sostenibilità

Da quando abito vicino alla fattoria vedo quotidianamente i cavalli, le mucche nei prati a pascolare, i maiali nella stia, le galline nel pollaio e mia figlia emozionata. Penso di essere felice, fortunata di vivere nel lusso della natura, nonostante aleggi l'odore dello sterco e degli animali. Il prezzo di questo senso di pace, di tranquillità, di quest'atmosfera bucolica lo pago con una sorta di tristezza e compassione per quegli animali.

Tra qualche mese mia figlia forse mi chiederà "mamma ma come? Mi fai vedere gli animali li salutiamo, sorridiamo loro e poi li mangiamo?" E allora la risposta spontanea sarà “ma noi non mangiamo quegli animali, lo vedi, son sempre lì ne mangiamo degli altri.” E lei insisterà “ma allora che animali mangiamo?” In effetti cosa cambia se mangiamo quel maiale che vediamo o un altro maiale? E perché non ci si dovrebbe sentire altrettanto colpevoli se si vive lontano dalla natura e se si va a far la spesa al supermercato? In fondo non si mangia quel maiale, si mangia carne che vendono al supermercato e la si mangia di buon gusto. Non è cavallo, manzo, maiale o pollo è soltanto articolo del reparto macelleria.

Ma se non si riesce ad accettare tutto questo, si inizia allora con il ridurre il consumo di carne che poi si bandirà definitivamente dalla dieta. Poi si va oltre eliminando i derivati: latte, formaggi, uova e poi, si riflette che, per compensare la privazione, non si potrebbe neanche vivere di sole frutta e verdura, perché ciò comporterebbe un danno all'ecosistema, privando del consumo gli erbivori e frugivori. Si giungerebbe allora a consumare solo vitamine, prodotti artificiali, costruiti in laboratorio, e ci si sentirebbe forse più simili a robot ricaricabili che ad essere umani che si alimentano. E comunque anche il cambiamento alimentare potrebbe voler dire maggior inquinamento. E poi nessuno si occuperebbe più di allevare gli animali se nessuno più li mangiasse. E allora diventerebbero selvatici e nella transizione morirebbero, vittime di altri animali predatori. Non c'è scampo. Qualsiasi comportamento umano danneggia l'ambiente. Nasciamo già peccatori verso l'ambiente, peccatori di sostenibilità: comunque ci muoviamo inquiniamo o alteriamo l'ecosistema.

L'essere umano è al contempo la specie più intelligente, potente, ma più pericolosa. Costruisce e al contempo distrugge l'ambiente. Vive e al contempo uccide le altre specie (e la sua). Anche le altre specie in fondo si comportano così, ma solo per sopravvivere (e quindi per questo non uccidono sé stessi). L'uomo invece non lo fa per sopravvivere, ma per dominare. E si giustifica dicendo che per sopravvivere deve dominare, così come si convince di far del bene all'umanità diventando padrone degli animali che poi uccide. Ma se ci si riflette, si arriva alla conclusione che chi lotta per sopravvivere non si pone questioni etiche, non si chiede se sia buono o cattivo. Pensate ai leoni che mangiano le zebre: credete che si sentano cattivi, che abbiano scrupoli o sensi di colpa dopo che hanno azzannato la preda?

Se ho scrupoli a consumare la carne vuol dire che posso scegliere cosa mangiare, che sono agiata, che non devo lottare per sopravvivere. E allora forse le persone che si trovano in questa situazione sono quelle che si chiedono se il percorso che stanno seguendo è quello della felicità, se il loro comportamento è dannoso, se bisogna cambiare, se e sempre se. Se si lottasse per sopravvivere non esisterebbe più il concetto di felicità perché prevarrebbe l'istinto animale, il vero motore vitale. Un animale vive e basta. Per lui non esiste null'altro. Col tempo gli uomini si sono allontanati dai propri istinti animali sostituendoli con ciò che prende il nome di “fede”: se credi sei felice per definizione. E allora vivi e basta, come gli animali, e non ti poni più domande, annientando quindi il significato individuale di felicità. Se credi in un “dio” hai l'alibi: puoi fare ciò che vuoi senza essere condannato. E così se pensi a dio, ma in realtà credi al denaro e che non esistano alternative al lavoro salariato allora percepisci di lottare per la sopravvivenza e non ti poni domande sulla tua soddisfazione e sulla condotta etica di chi ti assume. Siamo l'unica specie in grado di costruire da soli la propria gabbia e di sentirsi liberi nel viverci.

“Con calma, cos'è un monologo? Non so chi, tra i lettori, è arrivato a seguirti fino in fondo. Non voglio incalzarti a soffermarti e approfondire alcuni punti tematici, visto che il tuo obiettivo è più quello di scrivere di getto le tue riflessioni piuttosto che argomentarle per convincere qualcuno. Vorrei soltanto farti riflettere su ciò che riguarda la tua vita.
Vorresti forse diventare anemica per salvare le mucche e poi morire non mangiando più nulla in nome della sostenibilità?”

“No di certo, Schwanden. Questo andrebbe contro il mio istinto di sopravvivenza. E poi, Schwanden, è vero che non abbiamo scampo, ma possiamo seguire una direzione. Possiamo ridurre le nostre esigenze e quindi inquinare in maniera inevitabile. So che il concetto di esigenze per la società è ben diverso dal mio, ma alla fine non è un mio problema. Diventa un mio problema se accetto il livello imposto senza esserne convinta o senza crederci. Finché conduco una vita che si limita a soddisfare le mie esigenze allora sono felice per definizione perché sto seguendo il mio “dio”. Se mi uniformassi alle esigenze richieste, a meno di non percepire che se non lo facessi sarebbe in gioco la mia sopravvivenza, questo andrebbe oltre i miei bisogni e mi sentirei infelice perché comincerei a chiedermi se sono felice, se posso cambiare e se sia quella la giusta direzione.”

“Quindi, per essere felici per definizione o meglio, per non porsi più questioni sulla felicità, occorre credere in un proprio “dio” ispirato di fatto all'istinto di sopravvivenza?”

“Esattamente Schwanden. Devo però ammettere che il mio “dio” è mobile, cambia nel corso del tempo perché cambiano le mie esigenze, cambia il concetto di sopravvivenza. Per questo mi definisco una persona felice a tratti, come una funzione discontinua. Felice finché segue il suo dio e vive in funzione delle sue esigenze. Poi accade che ogni tanto “perde il segnale” col proprio dio, col proprio istinto e le proprie forze vitali e allora brancola nel buio. Poi “ritrova il segnale” e si sente di nuovo felice finché non lo perde di nuovo e così via. Al crescere del tempo, una persona saggia impara a muoversi nel buio e quindi a ridurre l'ampiezza dei salti di infelicità. Impara cioè ad adattarsi, ma non per questo ad abituarsi, alle situazioni temporanee di infelicità, alle contingenze e alle cause di forza maggiore che intaccano, che erodono le nostre esigenze.”

“Quindi ciò che chiami “dio” non è qualcosa di ben definito, di continuo o stabile, giusto?”

“Schwanden, non c'è nulla di ben definito, di continuo e stabile in un mondo in continua evoluzione”.

“OK. Adesso arrivo ad una domanda indiscreta. Ma non è che tu in fondo in fondo ti sei ammalata, o meglio, sei stata male, da una parte, per giustificare il tuo “gesto di generosità verso l'ambiente” (un po' come dire: mi faccio fuori perché nulla è sostenibile) e dall'altro lato per riavvicinarti di nuovo al tuo istinto di sopravvivenza che, minacciato dalla malattia, non avrebbe lasciato spazio ad ulteriori questioni sulla felicità?”

“Schwanden, sapevo che non avevo bisogno dello psicologo, visto che ci sei già tu. La questione di fatto è un po' complicata. Sicuramente è vero che la nascita e la presenza di mia figlia hanno intaccato il mio “dio”, le mie esigenze personali. Mi sono adeguata bene “al salto” ritrovando subito la felicità. Ma ovviamente ci sono sempre delle questioni “familiari” sospese. Emigrare è stata certamente una fuga e finché l'ho percepita come una scelta di sopravvivenza sono stata benissimo. Cominciando ad ambientarmi e a sentirmi in paradiso, forse ho cominciato a percepire un senso di colpa per aver abbandonato casa mia (che è anche di proprietà di mia sorella) e quindi di averla resa vulnerabile a furti o mal-affari, facendo un danno anche a mia sorella e sentendomi impotente, incapace di gestire la situazione. Non voglio approfondire il discorso. Poi ci sono anche altre incomprensioni, dialoghi mai sostenuti o parole non dette a chi non vuole sentire. Schwanden, sì, devo ammettere, certe volte penso che non basti emigrare, bisognerebbe sparire per risolvere ogni questione.
Se tutto ciò ha causato i miei problemi allora dovrei guarirne sintonizzandomi di nuovo con il mio “dio”. Dovrei sentire di nuovo il morso della fame di sopravvivenza, vivere e basta. Credimi, gli obiettivi, il lavoro (a meno che non siano dettati da sopravvivenza) non sono il tuo “dio” perché una volta terminati ti lasciano più infelice di come eri prima. Il tuo “dio” sono i tuoi valori: la libertà, l'indipendenza, l'amore ... e se ci penso non mi hanno mai abbandonato. E' soltanto che le cose più importanti spesso le si danno per scontate, mentre se percepisci di lottare per sopravvivere non dai più nulla per scontato.”




venerdì 14 ottobre 2016

Il dottor AF

Gentile Dott AF,

vorrei ringraziarla per avermi aiutato a capire la mia situazione e a poter concludere che non soffro di nessuna patologia. Ho deciso di rivolgermi a lei non perché dubitassi delle competenze dei dottori consultati in precedenza, ma soltanto perché cercavo comprensione, appoggio e maggiore chiarezza. 

Non ha potuto risalire alla causa della comparsa dei linfonodi (lei dubita che possa trattarsi del virus Epstein Barr che ho contratto in passato) ma almeno mi ha prescritto tutti gli esami e le analisi necessarie per escludere ciò che sospettavo. Ho dei valori del sangue fuori norma che, come dice lei, possono essere dovuti a carenze alimentari, di liquidi ingeriti e quindi a calo di peso corporeo. Nello scorso mese, infatti, non ho avuto appetito, sono stata confusa e non mi sono resa conto di non aver bevuto acqua a sufficienza.

Però le assicuro che non si tratta di anoressia nervosa. Certo, le ho detto che in passato ho avuto tali problemi. Ma questa volta non sono la causa del mio male, semmai una conseguenza. Pertanto non credo sia necessario parlarne con uno specialista. Nelle ultime due settimane, come lei ha potuto constatare, ho ripreso peso, senza l'aiuto di nessuno, se non del mio compagno che è stato in ferie e mi ha aiutato ad assistere alla bambina lasciandomi più tempo da dedicare alla mia salute.
Ora infatti sto molto meglio e per riprendermi completamente credo di aver soltanto bisogno di tempo e semmai di aiuto pratico nelle faccende domestiche, nell'apprendimento della lingua tedesca e nella ricerca di un'occupazione. 
 
Penso sia arrivato il momento di cercare lavoro. E poi mi è tornata la motivazione a voler dare piccoli contributi alla ricerca scientifica. Pertanto, a maggior ragione, mi permetto di contestare l'ipotesi che tutti i miei malesseri siano causati da depressione. Credo sia piuttosto ragionevole, considerando anche il mio passato e la mia situazione familiare, essere turbati dal fatto che un dottore ti avverta della possibilità di essere affetta da un cancro e della necessità di una biopsia. Ma deve credere che non ero affatto spaventata di dover fronteggiare la situazione, anche se tutti gli esami e le attese mi snervavano. Nonostante tutto, non perdevo occasione per distrarmi, godermi la vita (seppur da mamma), partecipare ad attività ricreative, andare in bicicletta, in piscina, muovermi pur sentendomi stremata fisicamente. Non ho voluto isolarmi e nemmeno rifiutare di parlarne, seppur preferendo “confessarmi” nel mio blog personale. Tutto ciò dovrebbe indurla a concludere che non ho problemi di depressione. 
 
Apprezzo comunque la sua visione olistica del problema. Credo che finora lei sia il primo dottore in medicina generale che abbia sottolineato l'importanza di essere positivi per non ammalarsi o per guarire.

Pertanto mi affido al suo giudizio. Se lei pensa sia opportuno chiedere una consulenza psichiatrica, per escludere che il mio malessere sia dovuto a cause psicologiche o, peggio, a malattie mentali, lo accetto e capisco la sua posizione. In fondo lei non mi conosce bene. Ma credo che nemmeno il miglior psichiatra possa arrivare a conoscermi bene e a capire i miei bisogni così come posso farlo io. Mi scusi, la mia non è presunzione. Per questo non rifiuto un eventuale colloquio. Perché nessuno può conoscermi meglio di me, ma chiunque può aiutarmi a capire come appaio all'esterno, a darmi dei suggerimenti su cosa mi sfugge e a capire meglio il contesto dove vivo. Credo che l'individuo non abbia bisogno di nessun altro individuo per poter vivere, ma ne abbia bisogno per vivere bene o vivere meglio. E se non sto molto bene, vuol dire che ho bisogno di aiuto.

Nell'attesa di rivederla al prossimo controllo, la ringrazio ancora per il tempo dedicato ad esaminare il mio caso. Credo davvero che i valori del sangue rientreranno nella norma, grazie anche all'infusione di ferro che mi ha somministrato, e che i dolori cervicali spariranno grazie alla fisioterapia che mi ha prescritto. Per il resto, credo davvero di poter trionfare da sola, così come ho fatto finora, cadendo, rialzandomi, a passo deciso o barcollante, poco importa purché derivi dalla forza delle mie gambe.

Cordiali Saluti

S.T.E.

mercoledì 21 settembre 2016

La sfida

“Schwanden, credo di aver trovato la causa. Ho il nome.”

“Sentiamo.”

“Ho ripetuto le analisi del sangue e ho fatto degli ulteriori test, tra cui quello dell'HIV.”

“In effetti han fatto bene a fartelo. Sai l'Heidi-S è nato in Svizzera, ha avuto origine dal saluto delle capre e si è diffuso con la televisione.”

“Schwanden, ti pare il momento? So che può sembrare assurdo, ma i sintomi c'erano. Comunque per fortuna non è quello. Dalle analisi che già avevo fatto quest'estate risultava un virus.”

“Un virus?”

“Epstein Barr, responsabile di alcuni tumori o della mononucleosi. Hanno aspettato gli esiti della biopsia e delle ultime analisi per renderlo evidente. I medici hanno concluso che, poiché non è tumore, allora la causa dei linfonodi e di tutto quel malessere è dovuta a questo virus, che potrebbe avermi infettato anche anni fa e adesso ha scelto la Svizzera per palesarsi. Mi han detto che al momento non devo fare più nulla, indagini o quant'altro. L'infezione non è più attiva, anche se potrebbero passar mesi prima che io mi senta meglio. Sto ancora molto male e ho forti mal di testa.“

“Beh, adesso hai ottenuto quello che volevi: hai scoperto la causa.”

“Schwanden c'è ancora una cosa che non mi è chiara. Non ho raccontato bene al medico gli episodi di mal di testa passati e quella lesione al cervello, ti ricordi? Anni fa, per un periodo, c'era stato il sospetto della sclerosi multipla. Studi recenti han dimostrato che ci sono delle relazioni tra mononucleosi e sclerosi multipla e tra sistema linfatico e cervello.”

“Ci risiamo con quel nome e quella storia, lascia stare....”

“Schwanden, lascerei perdere se fossi sicura che quella lesione di anni fa sia una cosa congenita o innocua. Sembrava di sì finora, ma alla luce di quel che è successo potrei non esserne più sicura.”

“Perchè non ne hai parlato col medico? “

“Non avevo gli esiti degli esami passati da mostrare, non ci siam capiti bene, non è un esperto di neurologia e i dottori in Svizzera non vogliono perder tempo ad ascoltare cose che vanno oltre il loro pezzo di giardino che coltivano. Quindi mi ha liquidato dandomi il magnesio per curare il mal di testa e mi ha detto – auf wiedersehen – anche se di fatto non vuole vedermi più. Neanche io vorrei più veder nessun medico, ma credo valga la pena parlare con un neurologo, forse per metterci definitivamente un punto o capire fino in fondo cosa mi sta succedendo.”

"Evidentemente accetti la sfida per non accettare la sfiga o per trasformare la sfiga in sfida o ... Ultimamente è difficile capirsi."




 

venerdì 9 settembre 2016

Malata di c.... conoscenza

“Schwanden, posso dirti solo questo: Tropico del Capricorno.”

“Ah bene, dovresti fare un fioretto e andarci davvero, altro che Lourdes.”

“Hai perfettamente ragione.”

“Perché quelle lacrime di sconforto, allora?”

“Schwanden, il dottore mi ha detto che non è cancro al seno, ma non sa cosa può essere, perché lui è specializzato in ginecologia e non in medicina interna. Devo fare un'altra visita dallo specialista che già mi aveva visto e che non mi era sembrato di grande aiuto. Schwanden, se non sanno cosa hai e come aiutarti, sei incurabile. Mi immagino già la scena dopo la mia morte, i tuoi cari e non, che chiedono – Dottore, cosa aveva? - E il dottore, molto scientificamente risponde – Boh, e chi lo sa. Probabilmente aveva i cazzi suoi. - Schwanden, riguardo a mio padre è andata vagamente così.”

“Capisco che sei delusa dalla medicina e dall'approccio poco olistico dei medici.”

“Schwanden, credo che anche questa volta mi curerò da sola, con i miei metodi. Schwanden, in questi mesi se avessi preso i farmaci per alleviare il dolore, avrei solo peggiorato il fegato. Se non avessi dovuto aspettare, telefonare, fissare appuntamenti, non sarei così stressata. Se avessi speso i soldi, che ho dato ai dottori, per un viaggio, un corso, un'attività ricreativa adesso sarei più ricca di esperienze e insegnamenti. E invece resto malata, malata di conoscenza e credo che tale rimarrò, a meno che non mi metta l'anima in pace e smetta di frequentare i medici.
Se fossi stata malata, forse non mi sarei fatta curare per queste ragioni. Avrei piuttosto vissuto i giorni fino alla fine, libera da farmaci, flebo, aghi, ospedali. Avrei forse mollato tutto e sarei andata in giro per il mondo, fin dove potevo arrivare, vivendo di espedienti. Avrei sentito la vita. Se mi fossi curata avrei solo anticipato la morte.”

“E allora perché ti sei sottoposta a tutte queste torture e non hai vissuto pienamente le tue giornate?”

“Te l'ho detto. Mi sono ammalata di conoscenza. La curiosità, il sapere cosa c'è dentro che io non conosco, mi ha in un certo senso ipnotizzato. Ma se i medici pensano di aiutarmi spegnendo i sintomi senza illuminare le ragioni del mio male, ho chiuso con loro. Che scienza è se non spiega? Che esperto è se non sa aiutare a vivere meglio? In questo sono più bravi i miei amici e le persone a me care, soprattutto quelli che non hanno la testa lavata da conoscenze universitarie o che non hanno studiato, quelli che ragionano, rimediando all'ignoranza con il buon senso. Il fatto è che ti insegnano che l'unica strada per guarire è quella che porta al medico. E invece la vera terapia è fare ciò che ti fa star bene: che sia musica, cinema, libri, amici … Persino qualcosa di potenzialmente dannoso, come la cannabis, non può certamente farti peggio dei farmaci che ti propongono, senza sapere bene che effetti potrebbero avere sul tuo organismo. “

“E come fai a trovare la terapia adatta?”

“Beh, bisogna sperimentare. Anche il medico fa spesso così proponendoti una cura. Però, quando fai un esperimento, sei consapevole e ne trai insegnamento ed esperienza. Se ti affidi al dottore diventi invece tu la cavia per i suoi esperimenti.”

“E quale sarebbe la terapia di cui hai bisogno? E' la stessa che ti saresti prescritta se fossi stata malata di cancro? Cosa ti frena dal curarti come credi e quindi dal guarire? Pensi che la tua cura non sia compatibile con la vita familiare? Pensi che la tua cura sia troppo costosa rispetto alla gravità delle tue condizioni di salute?”


giovedì 8 settembre 2016

Biopsy

Finalmente mi scrissero dall'ospedale, mandandomi un plico (scritto solo in tedesco) contenente tutte le informazioni necessarie per l'intervento e l'ammissione in ospedale. Dovevo compilare un questionario, e spedirlo per posta, prima del colloquio con l'anestesista fissato il giorno precedente la biopsia.
Prima che arrivasse la lettera, conoscevo già la data perché avevo chiesto al dottore. Ma non sapevo in quale ospedale sarei dovuta andare (per telefono non lo avevo capito).
L'ospedale dista una quindicina di chilometri da dove abito. Ma è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, anche se dalla stazione ferroviaria all'ospedale conviene andare a piedi, pur camminando in salita.

Mi recai da sola, col bus, col treno e poi a piedi, portando una borsa contenente lo stretto necessario per trascorrere la notte (mi avrebbero dimesso dopo 24-36 ore se tutto fosse andato bene). Era una bella giornata e la passeggiata fu piacevole. Avevo lo stesso atteggiamento che ho quando esploro un posto nuovo, incuriosito e concentrato sul percorso. Mancava però lo spirito di poter girovagare, di cambiare rotta o di viaggiare senza meta perché la destinazione e l'orario erano fissati.

Non tutti in ospedale parlavano inglese, ma per fortuna chi non parlava inglese parlava italiano. Quindi comunicare con il personale fu ad ogni modo possibile, tranne in isolati casi in cui mi feci ripetere più e più volte perché la persona si esprimeva solo in svizzero-tedesco. Alla reception mi diedero una carta per usare il telefono e la tv presenti in ogni letto. La carta avrebbe segnato l'effettivo utilizzo del servizio da pagare alla dimissione. Avevo letto che nel solo caso in cui si ha un'assicurazione privata l'uso della televisione è gratuito, ma quel giorno me ne dimenticai. Tuttavia un'infermiera, che parlava italiano ma era di origine portoghese, non appena mi accompagnò in stanza per i preparativi, mi accese subito la televisione, facendomi credere fosse “kostenlos” (gratuita) o dando per scontato che io ne fossi interessata o che non potessi farne a meno. Mi fece vedere come si usava e mi disse che potevo pure vedere le emittenti italiane. Immaginate in quel momento quale posizione potesse occupare nella scala delle mie priorità vedere RAI1, RAI2 …. (proprio io che nemmeno in Italia possedevo la TV per scelta personale). Comunque l'infermiera era simpatica e devo riconoscere il suo tentativo di avvicinarsi a ciò che credeva “la mia cultura” per farmi sentire “a casa”. Perciò sorrisi e ringraziai dicendo che comunque avrei guardato emittenti svizzere per esercizio linguistico e per questioni di integrazione. Capì e mi lasciò sola nella camera provvisoria, raccomandando di chiamare se avessi avuto bisogno. Nell'ospedale, c'era il WI-FI gratuito. E così ingannai l'attesa.

Arrivò il momento di entrare in sala. Ad un certo punto l'anestesista mi prese il braccio e disse: “Count”. Io lo guardai un po' sbalordita. E mi rispose che solitamente invitava a contare per distrarre il paziente che si spaventava. Ma io non avevo mosso ciglio. E allora si sentì un po' come chi fa una battuta che non viene capita e disse ridendo: “Don't worry”. In effetti mi sarebbe sembrato strano se l'anestesia avesse richiesto al paziente di contare le pecore per addormentarsi.
Poi mi mise un aggeggio sulla fronte e mi disse che una volta non conosceva il termine “Forehead” e mi raccontò come l'aveva imparato. Io sorrisi, ma cominciai ad essere poco recettiva. Mi disse che ancora era la fase di pre-anestesia usando parole molte semplici “With this one, you are going to relax, not to sleep, but if you fall asleep it's ok.” No, non dormivo. Poi venne a salutarmi il medico che mi aveva seguito fin dall'inizio con l'ecografia e che mi avrebbe anche operato. Ad un certo punto sentii pronunciare, da un altro medico che parlava italiano “Ora dormirai”.

E così per un paio d'ore persi le mie facoltà, la mia volontà e la mia anima per consegnare il mio corpo a chi lo avrebbe tagliato per prelevarne un pezzo. Il concetto è terribile, ma di fatto non sentii, nulla e non provai nulla. Mi ritrovai in dormiveglia nella stanza da letto dove avrei pernottato. Dopo un po' vennero a trovarmi mia figlia e il mio compagno. Neanche lei sembrava aver patito durante la mia assenza (il mio compagno invece aveva un'aria sconvolta a stare tutto il giorno da solo con la bambina!). Non avevo neanche tanto male. Mi ristabilii in fretta e il giorno dopo tornai a casa.

mercoledì 7 settembre 2016

Growing

“I'm scared: they are growing.” Disse il dottore. Avrei voluto rispondere che ormai ero sufficientemente preparata da non aver paura di nulla, o da non essere “scared”. Ma stetti in silenzio.

Prima di fare la biopsia, mi propose di fare altri accertamenti. “We need more information”. Mandò un fax con la richiesta ad un istituto radiologico per farmi fare la mammografia. L'istituto mi chiamò e mi diede appuntamento nell'arco di una settimana. Dalla mammografia non si riuscì a veder nulla e a concludere nulla. Il dottore propose la risonanza magnetica. L'istituto mi richiamò e feci l'esame. Non si vedeva traccia di alcuna patologia al seno. 

Nel frattempo le mie condizioni di salute generali peggiorarono. Mi sentivo molto stanca e debole, ma mi “buttavo fuori” di casa per non rinunciare alle attività di gioco con mia figlia. Poi avevo sempre mal di testa e dolori addominali. Decisi allora di consultare anche un dottore specializzato in medicina interna, sempre all'interno del centro medico. Mi fece fare le analisi del sangue, per escludere la possibilità che i linfonodi fossero generati da qualche infezione o da leucemia. Tutto negativo. Poi, visti i precedenti problemi alla cistifellea e, ricordandomi anche della presenza di un angioma al fegato, mi rimandò dallo stesso istituto radiologico per farmi fare una tac all'addome. Non risultò nulla. Solo quei linfonodi sospetti di cui non si sapeva dir nulla e che dovevo togliere con un intervento chirurgico.”We need a biopsy. ” 

Nell'attesa di essere chiamata dall'ospedale per l'intervento (ci furono anche le vacanze estive di mezzo) altri linfonodi comparvero. Stavolta nel collo e poi nell'inguine. Ma poiché non si sarebbe potuto estrarli tutti, e si era già concordato di prelevarne i due originari, più grossi e più facilmente accessibili, decisi di non chiedere ulteriori indagini, di aspettare l'intervento e quindi l'esito della biopsia. Probabilmente l'origine di tutti quei linfonodi era la stessa.



martedì 6 settembre 2016

Absent

Ci sono diversi modelli di assicurazione sanitaria in Svizzera, dalla cui scelta dipende anche il premio che si paga: il modello che consente la libera scelta del medico di base e degli specialisti; il modello che prevede la consultazione di soli medici convenzionati e il modello che vincola prima al contatto telefonico con la consulenza medica convenzionata. Qualsiasi opzione consente comunque, in caso di emergenza, l'accesso in qualsiasi centro od ospedale. Inoltre il premio può essere ridotto aumentando la franchigia, cioè la quota non rimborsabile che resta a carico dell'assicurato.

Essendo ottimista e non avversa al rischio, scelsi il modello più economico (se l'assicurazione non fosse stata obbligatoria, forse avrei deciso a priori che quest'anno non avrei avuto bisogno dal medico).

Comunque non posso proprio lamentarmi del servizio (anche se la franchigia si è fatta sentire per intero). Telefonai al centro di consulenza medica (attivo 24 ore al giorno). Illustrai il problema (per fortuna si può parlare in inglese o in italiano) e mi fissarono un appuntamento dopo tre giorni, nel centro medico convenzionato. Prima venni visitata da un medico generico. Insospettito da quella “pallina”, da un'altra massa più piccola che sembrava voler spuntare fuori e dal racconto della malattia di mia madre, chiamò subito lo specialista che mi fece un'ecografia. 
Si vedevano due linfonodi, tra cui uno molto piccolo. “I can't tell you exactly what it is. We need a biopsy. But I suggest to wait for three weeks and to see what happens, I mean, if the lymph nodes grow, we should take them out to see if it's cancer or not.” Molto freddamente dissi “Ok.” In fondo aveva detto “cancer”, mica cancro (cercavo di convincermi che l'inglese fosse pura astrazione). E poi aveva detto “wait” quindi c'era tempo, e in effetti non poteva dirmi nulla e se non poteva dirmi nulla lui, l'esperto, perchè avrei dovuto trarre conclusioni io che di oncologia so solo analizzare i dati dal punto di vista statistico?

“Ok.” Molto distrattamente, mi alzai e mi apprestai velocemente a vestirmi. Il medico mi bloccò e mi ricordò di pulirmi dal gel usato per l'ecografia. “Oops. I am absent minded” (sono distratta) dissi piano. Il dottore, al posto di “absent”, capì “upset” e mi disse: “Oh, no, don't be upset. It does not look like cancer. If it does not grow, we will not even do the biopsy.” “Thank you very much”, risposi.

L'assistente fissò l'appuntamento successivo e mi raccomandò di chiamare prima se avessi notato crescere i linfonodi.
E in effetti i linfonodi crebbero molto rapidamente e in una decina di giorni se ne formarono altri, sotto l'ascella, e anche sul lato sinistro. Anticipai l'appuntamento.