Da
quando abito vicino alla fattoria vedo quotidianamente i cavalli, le
mucche nei prati a pascolare, i maiali nella stia, le galline nel
pollaio e mia figlia emozionata. Penso di essere felice, fortunata di
vivere nel lusso della natura, nonostante aleggi l'odore dello sterco
e degli animali. Il prezzo di questo senso di pace, di tranquillità,
di quest'atmosfera bucolica lo pago con una sorta di tristezza e
compassione per quegli animali.
Tra
qualche mese mia figlia forse mi chiederà "mamma ma come? Mi
fai vedere gli animali li salutiamo, sorridiamo loro e poi li
mangiamo?" E allora la risposta spontanea sarà “ma noi non
mangiamo quegli animali, lo vedi, son sempre lì ne mangiamo degli
altri.” E lei insisterà “ma allora che animali mangiamo?” In
effetti cosa cambia se mangiamo quel maiale che vediamo o un altro
maiale? E perché non ci si dovrebbe sentire altrettanto colpevoli se
si vive lontano dalla natura e se si va a far la spesa al
supermercato? In fondo non si mangia quel maiale, si mangia carne che
vendono al supermercato e la si mangia di buon gusto. Non è cavallo,
manzo, maiale o pollo è soltanto articolo del reparto macelleria.
Ma se non si riesce ad accettare tutto questo, si
inizia allora con il ridurre il consumo di carne che poi si bandirà
definitivamente dalla dieta. Poi si va oltre eliminando i derivati:
latte, formaggi, uova e poi, si riflette che, per compensare la
privazione, non si potrebbe neanche vivere di sole frutta e verdura,
perché ciò comporterebbe un danno all'ecosistema, privando del
consumo gli erbivori e frugivori. Si giungerebbe allora a consumare
solo vitamine, prodotti artificiali, costruiti in laboratorio, e ci
si sentirebbe forse più simili a robot ricaricabili che ad essere
umani che si alimentano. E comunque anche il cambiamento alimentare
potrebbe voler dire maggior inquinamento. E poi nessuno si
occuperebbe più di allevare gli animali se nessuno più li
mangiasse. E allora diventerebbero selvatici e nella transizione
morirebbero, vittime di altri animali predatori. Non c'è scampo.
Qualsiasi comportamento umano danneggia l'ambiente. Nasciamo già
peccatori verso l'ambiente, peccatori di sostenibilità: comunque ci
muoviamo inquiniamo o alteriamo l'ecosistema.
L'essere
umano è al contempo la specie più intelligente, potente, ma più
pericolosa. Costruisce e al contempo distrugge l'ambiente. Vive e al
contempo uccide le altre specie (e la sua). Anche le altre specie in
fondo si comportano così, ma solo per sopravvivere (e quindi per
questo non uccidono sé stessi). L'uomo invece non lo fa per
sopravvivere, ma per dominare. E si giustifica dicendo che per
sopravvivere deve dominare, così come si convince di far del bene
all'umanità diventando padrone degli animali che poi uccide. Ma se
ci si riflette, si arriva alla conclusione che chi lotta per
sopravvivere non si pone questioni etiche, non si chiede se sia buono
o cattivo. Pensate ai leoni che mangiano le zebre: credete che si
sentano cattivi, che abbiano scrupoli o sensi di colpa dopo che hanno
azzannato la preda?
Se
ho scrupoli a consumare la carne vuol dire che posso scegliere cosa
mangiare, che sono agiata, che non devo lottare per sopravvivere. E
allora forse le persone che si trovano in questa situazione sono
quelle che si chiedono se il percorso che stanno seguendo è quello
della felicità, se il loro comportamento è dannoso, se bisogna
cambiare, se e sempre se. Se si lottasse per sopravvivere non
esisterebbe più il concetto di felicità perché prevarrebbe
l'istinto animale, il vero motore vitale. Un animale vive e basta.
Per lui non esiste null'altro. Col tempo gli uomini si sono
allontanati dai propri istinti animali sostituendoli con ciò che
prende il nome di “fede”: se credi sei felice per definizione. E
allora vivi e basta, come gli animali, e non ti poni più domande,
annientando quindi il significato individuale di felicità. Se credi
in un “dio” hai l'alibi: puoi fare ciò che vuoi senza essere
condannato. E così se pensi a dio, ma in realtà credi al denaro e
che non esistano alternative al lavoro salariato allora percepisci di
lottare per la sopravvivenza e non ti poni domande sulla tua
soddisfazione e sulla condotta etica di chi ti assume. Siamo l'unica
specie in grado di costruire da soli la propria gabbia e di sentirsi
liberi nel viverci.
“Con
calma, cos'è un monologo? Non so chi, tra i lettori, è arrivato a
seguirti fino in fondo. Non voglio incalzarti a soffermarti e
approfondire alcuni punti tematici, visto che il tuo obiettivo è più
quello di scrivere di getto le tue riflessioni piuttosto che
argomentarle per convincere qualcuno. Vorrei soltanto farti
riflettere su ciò che riguarda la tua vita.
Vorresti
forse diventare anemica per salvare le mucche e poi morire non
mangiando più nulla in nome della sostenibilità?”
“No
di certo, Schwanden. Questo andrebbe contro il mio istinto di
sopravvivenza. E poi, Schwanden, è vero che non abbiamo scampo, ma
possiamo seguire una direzione. Possiamo ridurre le nostre esigenze e
quindi inquinare in maniera inevitabile. So che il concetto di
esigenze per la società è ben diverso dal mio, ma alla fine non è
un mio problema. Diventa un mio problema se accetto il livello
imposto senza esserne convinta o senza crederci. Finché conduco una
vita che si limita a soddisfare le mie esigenze allora sono felice
per definizione perché sto seguendo il mio “dio”. Se mi
uniformassi alle esigenze richieste, a meno di non percepire che se
non lo facessi sarebbe in gioco la mia sopravvivenza, questo andrebbe
oltre i miei bisogni e mi sentirei infelice perché comincerei a
chiedermi se sono felice, se posso cambiare e se sia quella la giusta
direzione.”
“Quindi,
per essere felici per definizione o meglio, per non porsi più
questioni sulla felicità, occorre credere in un proprio “dio”
ispirato di fatto all'istinto di sopravvivenza?”
“Esattamente
Schwanden. Devo
però ammettere che il mio “dio” è mobile, cambia nel corso del
tempo perché cambiano le mie esigenze, cambia il concetto di
sopravvivenza. Per questo mi definisco una persona felice a
tratti, come una funzione discontinua. Felice finché segue il
suo dio e vive in funzione delle sue esigenze. Poi accade che ogni
tanto “perde il segnale” col proprio dio, col proprio istinto e
le proprie forze vitali e allora brancola nel buio. Poi “ritrova il
segnale” e si sente di nuovo felice finché non lo perde di nuovo e
così via. Al crescere del tempo, una persona saggia impara a
muoversi nel buio e quindi a ridurre l'ampiezza dei salti di
infelicità. Impara cioè ad adattarsi, ma non per questo ad
abituarsi, alle situazioni temporanee di infelicità, alle
contingenze e alle cause di forza maggiore che intaccano, che erodono
le nostre esigenze.”
“Quindi
ciò che chiami “dio” non è qualcosa di ben definito, di
continuo o stabile, giusto?”
“Schwanden,
non c'è nulla di ben definito, di continuo e stabile in un mondo in
continua evoluzione”.
“OK.
Adesso arrivo ad una domanda indiscreta. Ma non è che tu in fondo in
fondo ti sei ammalata, o meglio, sei stata male, da una parte, per
giustificare il tuo “gesto di generosità verso l'ambiente” (un
po' come dire: mi faccio fuori perché nulla è sostenibile) e
dall'altro lato per riavvicinarti di nuovo al tuo istinto di
sopravvivenza che, minacciato dalla malattia, non avrebbe lasciato
spazio ad ulteriori questioni sulla felicità?”
“Schwanden, sapevo che non avevo bisogno dello psicologo, visto che
ci sei già tu. La questione di fatto è un po' complicata.
Sicuramente è vero che la nascita e la presenza di mia figlia hanno
intaccato il mio “dio”, le mie esigenze personali. Mi sono
adeguata bene “al salto” ritrovando subito la felicità. Ma
ovviamente ci sono sempre delle questioni “familiari” sospese.
Emigrare è stata certamente una fuga e finché l'ho percepita come
una scelta di sopravvivenza sono stata benissimo. Cominciando ad
ambientarmi e a sentirmi in paradiso, forse ho cominciato a percepire
un senso di colpa per aver abbandonato casa mia (che è anche di
proprietà di mia sorella) e quindi di averla resa vulnerabile a
furti o mal-affari, facendo un danno anche a mia sorella e sentendomi
impotente, incapace di gestire la situazione. Non voglio approfondire
il discorso. Poi ci sono anche altre incomprensioni, dialoghi mai
sostenuti o parole non dette a chi non vuole sentire. Schwanden, sì,
devo ammettere, certe volte penso che non basti emigrare,
bisognerebbe sparire per risolvere ogni questione.
Se tutto ciò ha causato i miei problemi allora dovrei guarirne
sintonizzandomi di nuovo con il mio “dio”. Dovrei sentire di
nuovo il morso della fame di sopravvivenza, vivere e basta. Credimi,
gli obiettivi, il lavoro (a meno che non siano dettati da
sopravvivenza) non sono il tuo “dio” perché una volta terminati
ti lasciano più infelice di come eri prima. Il tuo “dio” sono i
tuoi valori: la libertà, l'indipendenza, l'amore ... e se ci penso
non mi hanno mai abbandonato. E' soltanto che le cose più importanti
spesso le si danno per scontate, mentre se percepisci di lottare per
sopravvivere non dai più nulla per scontato.”
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