Nel mio ruolo di capofamiglia non trovai difficile gestire le pratiche, gli affari e prendere decisioni, anche perche’ mia madre mi lasciava pieno potere, come se fossi mio padre. Trovai invece arduo gestire il rapporto con mia sorella: non mi considerava ne' un genitore, ne' tantomeno una sorella. Infatti si sentiva subordinata a me: non si intrometteva, ne' esercitava ostruzionismo sulla gestione familiare, visto che nemmeno mia madre lo faceva. Ma per le questioni che riguardavano la sua vita, non esercitavo alcuna influenza. Infatti non seguiva i miei consigli che la invitavano a esporsi, a cercare la sua strada, ad immaginare il suo futuro al di fuori del nido materno. L'avrebbe fatto soltanto se la madre l'avesse spronata.
Mia madre non la incoraggiava neanche a cercare lavoro. L'avrebbe mantenuta a tempo indeterminato . "Mi aiuta in casa". Era la sua giustificazione. Ed io mi sentivo impotente di fronte al suo lassismo ed ero preoccupata per mia sorella. Ma e’ inutile lottare per dare la vista ad un cieco che vuole vivere nell’oscurita’.
Sperimentai allora la stessa frustrazione che provo’ mio padre. Un disagio derivato anche dall’influenza dei parenti stretti di mia madre. Spesso le mie zie e la loro carovana si presentavano a casa mia, senza avvisare della loro visita. E mia madre accoglieva tutti calorosamente, dimenticandosi dei suoi lavori casalinghi o della passeggiata che avevamo in programma. Mio padre non lo sopportava. Lo vedeva come una mancanza di rispetto nei confronti della nostra famiglia. Ma per mia madre invece era una mancanza di rispetto chiudere le porte alla sua famiglia. Ma eravamo noi la sua famiglia o erano le sue sorelle e suo fratello? Io ho sempre difeso la posizione di mio padre, incitando mia madre a parlare chiaro con i parenti. “Ma non puoi dir loro esplicitamente che dobbiamo uscire?” “Inoltre, non puoi pregarli di avvisarci prima che si presentino?”
Ma mia madre non seguiva il mio consiglio. E mio padre, per il quieto vivere, usciva di casa, per non manifestare la sua collera che io comunque percepivo e capivo che lo distruggeva internamente.
Soltanto una volta, uno o due anni prima di morire, non riusci’ a contenere l'irritazione. Nell’appartamento di mia zia erano in corso lavori di ristrutturazione. Per tutta la loro durata, quasi un mese, mia zia sarebbe venuta tutti i giorni a pranzare da noi. A mia madre non arrecava alcuna fatica cucinare o rigovernare. Ma non si accorgeva di quanto mia zia fosse invadente e maleducata e, quando di malumore o angosciata, anche esasperante. Mio padre la sopporto’ per una settimana, finche’ non ebbe l’occasione di rispondere sgarbatamente ad un suo intervento inopportuno.
Mia zia si offese e trovo’ un’altra “pensione”. Mia madre, che si rendeva conto dell’esistenza di un tormento solo se esso veniva manifestato, non cerco’ di convincere la zia a ritornare.
Dal momento che ero io il capofamiglia, avvertii l’esigenza di difendere il mio territorio. Non soltanto per cercare di rivendicare mio padre. Ma perche’ avevo bisogno di tranquillita’. Non sopportavo di assistere a sceneggiati di lamenti e flagelli da parte delle zie che, alludendo alla morte di mio padre, ripetevano: “Che febbre strana! Che sara’ stato? ”. Ed era assurda la stupidita’ che si palesava nella risposta che cercavano di darsi. “Magari e’ stata colpa degli uccelli! Ho sentito che portano malattie”. Infatti si riferivano ai canarini che avevamo in casa.
Dissi a mia madre che non sopportavo piu’ le loro visite. Quindi mia madre, per venirmi incontro, fu costretta a chiedere ai parenti di avvisare prima di venire, in modo che io potessi pacificamente evitarli. La mia ostilita’ nei loro confronti derivava dall’intolleranza per il turbamento della quiete familiare, dal timore della loro influenza su mia madre e della loro ingerenza nella gestione familiare. Inoltre, la loro presenza richiamava continuamente il malessere di mio padre, che ora vivevo in prima persona.
In particolare, intuivo che prima o poi avrei avuto occasione di rimproverare un mio parente per il danno economico che le sue vane promesse avevano causato a mio padre. E l’opportunita’ si presento’. Mio zio premeva per formalizzare per iscritto un accordo verbale intrapreso con mia madre anni fa. Io mi intromisi facendo attrito perche’ volevo tutelare mia madre e venire a conoscenza degli obblighi fiscali e legali. Non sopportando la sua insistenza, gli dissi per telefono cio’ che pensavo, cio’ che mio padre non ebbe il coraggio di dirgli. Provocai la sua adirazione. Suono’ il campanello di casa. Mia madre non lo fece entrare, temendo una reazione violenta, ma volle scendere nell’androne per parlargli. Rimasi sconvolta dalla prepotenza del parente e dalla minaccia del danno che avrebbe potuto arrecare. Decisi allora di andarmene di casa affinche’ mia madre si ricordasse dell’episodio e si allontanasse dal fratello.
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