Con la mia laurea in statistica applicata all'economia, finanza e assicurazione, mi presentavo alla realta' professionale. Ma dietro al titolo di studio e al bagaglio di conoscenze che avrei portato in dote, dimenticavo che c'era una personalita', un carattere che avrebbe interagito con altre persone.
In un lavoro qualificato o in uno competitivo non e' il lavorare o meno a far la differenza, ma il modo in cui si svolge la mansione: la velocita', l'ordine e la precisione, l'autocontrollo anche nelle situazioni stressanti, la simpatia, l'entusiasmo... Tutte qualita' insite nell'indole e non nella cultura della persona, anche se e' vero che talvolta l'istruzione influenza tali caratteristiche.
Se il lavoro richiede delle conoscenze, non e' tanto importante il possederle, ma avere la capacita' di utilizzarle al meglio nel preciso contesto e di saperle condividere con i colleghi. Cioe' occorre padroneggiarle e manifestare agli altri la propria competenza. Altrimenti le proprie conoscenze rimangono nella propria isola e allora qual e' il vantaggio della cultura se giace tra le mura domestiche?
Pertanto, poiché non concepivo l'importanza di me stessa come persona e non come insieme di conoscenze, non era sorprendente che diversi colloqui intercorsi non andassero a buon fine. Mi domandavo quale fosse la causa. Mi presento male? Eppure il vestito era adeguato, i capelli in ordine e la postura accettabile. Quasi sicuramente avro' ottenuto un risultato non soddisfacente nei test attitudinali, soprattutto nei test di valutazione del quoziente intellettivo. Ma non era un problema di intelligenza accademica, ma semmai di intelligenza sociale. Infatti penso che il fattore principale del mio fallimento in alcuni colloqui di lavoro siano state le risposte date all'intervista. E quello di cui non mi accorgevo era che non c'era una maniera corretta per rispondere, ma una maniera adeguata alle aspettative dell'interlocutore. E se non riuscivo spontaneamente a trovare una risposta appropriata ne conseguiva che non ero idonea al lavoro, ma era altrettanto vero che neanche il lavoro sarebbe stato adatto a me. Ma io percepivo soltanto la mia inettitudine.
Inoltre ero annebbiata dall'ambizione di diventare il matematico delle assicurazioni o, in linguaggio tecnico, “attuario”, cioe' il professionista che valuta economicamente il rischio dei prodotti assicurativi e tutte le risorse necessarie all'azienda per farvi fronte.
Ma in realta' aspiravo a questa professione soltanto perche' i professori, durante il corso di laurea, mi avevano condizionato descrivendo il mestiere come se fosse l'unico ambito di realizzazione dell'eccellenza accademica. Mi stavo focalizzando su un obiettivo senza chiedermi se fosse in linea con i miei ideali e il mio carattere.
Infatti se lo studio era stato la scelta migliore, non se ne poteva concludere altrettanto con l'applicazione. Si puo' studiare con interesse e profitto una materia, senza poi avere il desiderio o essere in grado di applicarla.
“Ci parli della sua tesi di laurea”. Mi chiedevano. “La mia tesi non ha toccato un argomento ben preciso, ma tutti i contenuti del programma di matematica e tecnica attuariale (assicurativa). Infatti ho elaborato in maniera creativa il materiale didattico per sviluppare un corso on-line che ancora adesso l'allora relatore della mia tesi usa durante le sue lezioni”.
Quindi, laureandomi, ho realizzato un obiettivo concreto e non soltanto un mucchio di fogli elegantemente rilegati che poi raccattano la polvere nel dipartimento e nella segreteria universitaria dove vengono archiviati.
“Il mio progetto mi e' piaciuto per la sua multidisciplinarieta': matematica, economia, storia delle assicurazioni, demografia ...Inoltre e' stato divertente trovare delle immagini ed esempi evocativi al fine di rendere piu' efficace l'apprendimento e la comprensione da parte dello studente”.
Ma erano le abilita' insite nella realizzazione di questo prodotto che le aziende cercavano? Probabilmente no. Forse cercavano una persona meno creativa, ma che tendesse di piu' a concentrarsi su un lavoro piu' specifico e che lo eseguisse con ordine e precisione, focalizzando l'attenzione su una sola direzione, piuttosto che espandersi e vagliare piu' orizzonti. Forse cercavano una persona meno passionale e piu' convenzionale.
Il mio progetto didattico mi mancava. Avrei voluto continuare a lavorarci a tempo perso, come avrebbe voluto anche il mio professore. Ma l'angoscia di non essere pagata per la mia dedizione mi impediva di continuare. Inoltre mi ostinavo a voler farmi assumere nel settore assicurativo. “Insegnare non e' la mia aspirazione”. Dissi chiaramente al mio professore per giustificare la mia volonta' di terminare la mia collaborazione. Ma lo dicevo con rabbia, pensando che una carriera didattica non avrebbe ricevuto lo stesso prestigio e riconoscimento di una carriera assicurativa.
Finalmente, dopo diversi colloqui, trovai impiego nell'ufficio risk management di una Compagnia di assicurazione. Un lavoro molto simile all'attuario per la valutazione economica dei rischi. Ma, a differenza dell'attuario, non riguardava i rischi dei prodotti assicurativi, ma i rischi dell'attivita' operativa. Mi chiesi sempre se, a favorire la mia assunzione, non fosse stata la mancanza dell'intervista da parte di uno psicologo del lavoro. Infatti, a differenza di altri colloqui, questo aveva previsto soltanto l'intervento di “tecnici” del mestiere e del responsabile dell'ufficio.
Lavorai per meta' anno, ma la nostalgia dell'ambiente universitario fu tale da farmi rassegnare le dimissioni ed avviarmi verso la strada che pensavo mi avesse permesso l'ingresso alla carriera accademica. L'esperienza mi aveva insegnato che il rischio di perdere qualsiasi prestigio percepito all'esterno comporta meno danni rispetto al rischio di perdere la motivazione interiore.
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