Per quanto dietro il mio malessere ci fosse un disturbo fisico, la sua gravita’ fu amplificata dal fattore psicologico.
Infatti il mal di testa incontrollabile nasceva da una condizione di rassegnazione e quasi di incoraggiamento del Male.
Negli ultimi 18 mesi del dottorato di ricerca infatti avevo vissuto una situazione di stress, uno stress di cui ignoravo l’esistenza: il cosiddetto “stress negativo”. “Come faccio ad essere stressata se non sto facendo nulla e non mi sto muovendo in nessuna direzione?”. Mi chiedevo, illudendomi di non percepire alcuno stress. Infatti ero carica di energie che, male impiegate, si trasformarono in forze autodistruttive. Non dovevo piu' sostenere esami, ma pensare soltanto a quale progetto di ricerca seguire. Nessuna ispirazione. Nessun incoraggiamento. Per colmare il vuoto allora studiavo, studiavo anche senza un obiettivo preciso. Mi ritornera’ utile, pensavo. Trovero’ di sicuro l’argomento. Ma dopo un po’ mi sentivo confusa, non riuscivo a concentrarmi, perdevo la motivazione. Ma non volevo mollare. Osservavo gli altri studenti di dottorato e i ricercatori. Anziche’ isolarsi a casa a studiare, passavano il tempo in ufficio. E intanto socializzavano. Sembravano sempre indaffarati. Al contrario di me, pareva che avessero le idee chiare su quale direzione seguire e su come impostare il lavoro. Scambiavo con loro due chiacchiere, ma nulla di piu’. Odiavo la mia isola, ma mi dava sicurezza. Era la mia corazza, contro le convenzioni sociali ed il luogo comune. Mi proteggeva da qualsiasi istituzione sociale che volevo evitare: il matrimonio, la famiglia, i convivi. Il mio approccio antisociale mi aveva fatto perdere il contatto con la realta’ e la curiosita’ verso il mondo esterno. Di conseguenza avevo perso interesse per la mia esteriorita’, per la mia immagine. Allo specchio vedevo un fantasma. Non una persona. Sentivo solo la mia mente che viveva. Un cervello, staccato dal corpo, che non aveva limiti, ne’ principi.
Pertanto la mia concentrazione e pressione sulla “materia grigia” aveva rotto l’equilibrio con il corpo, causando la cefalea. In fondo sapevo che il mio stile di vita e il mio atteggiamento erano sbagliati, ma la situazione di stallo e di impotenza nel mio lavoro, mi induceva a lasciarmi andare, a farmi trasportare dal Male. Se non fossi riuscita a terminare il mio progetto, la colpa non sarebbe stata mia, ma del mio Male che stavo lasciando entrare nella mia vita.
Mi sentivo barcollare quando camminavo per la strada. Ogni oggetto in movimento mi disturbava. A volte la vista si annebbiava. Il mio stordimento era la giustificazione per la mia assenza, per la mia distrazione. Attraversavo la strada con noncuranza. Se avessi avuto un incidente, la colpa sarebbe stata del mio Male.
“Sto male. Come potrebbe essere il tuo futuro con me?”. Il Male aveva allontanato il mio convivente. “Sto male, non posso venire”. “La testa non mi regge”. E dormivo piu’ di quello che avrei voluto.
Anche i medici spesso contribuiscono indirettamente alla perdita di responsabilita’ del paziente nei confronti della propria salute.
Infatti spesso danno l’impressione di considerare il paziente come un insieme di parti fisiche, tutte staccate tra loro e non come una persona. Usano cioe’ un approccio modulare anziche’ olistico. Inoltre tendono a soffocare i primi sintomi prescrivendo farmaci. In tal modo il paziente pensa di essere guarito e che la sua vita e la sua salute dipendano dal medico e dai farmaci. E quando il sintomo ritorna, un’altra dose di farmaci. Capisco che quella sia la via piu’ immediata e piu’ comoda perche’ evita lo sforzo di individuare la causa del problema. Inoltre capisco che la routine lavorativa e la stanchezza che ne deriva possano contribuire alla perdita di motivazione: cosi’ come io posso essere svogliata davanti ad una tabella di dati, il medico puo’ essere distratto di fronte al paziente. Ma guarire attraverso la sola repressione dei sintomi e’ come voler combattere la violenza con altra violenza.
Ma come potevo migliorare la situazione? Era poi vero che il mio mal di testa non avesse un attimo di tregua? In effetti c’erano delle situazioni in cui non mi sentivo male, uscivo dall'isolamento ed il mio cervello “rientrava” nel corpo. Cio’ avveniva quando tenevo le esercitazioni agli studenti universitari. Ricordo che a volte entravo in aula stando male, ma poi guardavo il pubblico che mi divertiva e incuriosiva. Gli studenti erano li’ per me, per sentirmi parlare. Potevo contribuire all’esito dei loro esami. Potevo migliorare la loro vita, se fossi stata in grado di chiarificare i loro dubbi. Allora il Male spariva o forse non lo sentivo. Le mie conoscenze acquisivano forma e significato grazie al gesso e alla lavagna. Le manifestavo non per farmi valutare, ma per farmi capire. Volevo aiutarli e percio' dovevo comprendere le loro difficolta' e le loro esigenze. Dovevo creare un contatto, ma al contempo mantenere l'ordine in classe. Gli studenti avevano bisogno di me ed io di loro. Se sognavo la rivoluzione, il luogo ideale per insorgere era in piazza, o meglio in aula.
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