Il bidone si era svuotato dell'oro. L'oro era stato
messo al sicuro in cassaforte. Il bidone aveva accettato perché al
momento l'oro era troppo delicato per essere esposto all'aria aperta
vicino al bidone. Ma sarebbe ritornato accanto al bidone, una volta
irrobustitosi, perché quella era la sua casa. Tuttavia il bidone era
desolato, si sentiva privato dell'oro, anche se sapeva che era in
buone mani.
La bimba era nel reparto Terapia Intensiva Neonatale
Ospedaliera (TINO). Era in incubatrice e per fortuna non faceva
nessun tipo di trattamento, tranne qualche flebo. Non aveva nessun
problema e, in mancanza di peggioramenti, l'avrebbero dimessa quando
avrebbe raggiunto almeno 1800 kg.
Il mio compagno mi descrisse la situazione e il
reparto. Il personale era molto disponibile e competente. Avrei
potuto star lì praticamente tutto il giorno. Avrei potuto
allattarla, cambiarle il pannolino e tenerla in braccio, anche se gli
intervalli fuori dall'incubatrice non dovevano essere troppo lunghi.
Chiesi se il giorno dopo avrei già potuto andare a
trovare la bimba. “Sì, ma non prima del pomeriggio e a condizione
che si faccia accompagnare da qualcuno in sedia.” Questa volta non
avrei protestato per la sedia.
Infatti tutte le volte che dovevo fare
un esame, quando ero in reparto, chiedevo se fosse possibile
camminare con le mie gambe e non essere trasportata in sedia a
rotelle, visto che non era necessario. “Vi prego, per una volta che
non sono legata alla flebo, vorrei camminare con i miei piedi, libera
da cavi e non credete che con la sedia arriviamo prima. Inoltre, se
siete d'accordo, una volta finito l'esame posso ritornare da sola in
reparto senza che voi veniate a prendermi. Avete già tanto lavoro da
fare e poi conosco la strada. Non avrei nessun interesse a scappare
se è ciò che temete.” Le operatrici capivano che la sedia mi
faceva sentire malata e sarebbe stata un ulteriore “schiaffo”
alla mia indipendenza, che ormai era stata linciata. Pertanto mi
lasciarono camminare.
Quella sera dormii serena. La ferita del cesareo
minacciava, ma io non la sentivo. La mia vita si era risvegliata
dall'anestesia. Il giorno seguente sarei stata impegnata con la
bambina. Purtroppo formalmente non potevo essere dimessa prima di
trentasei ore dal parto. Ma potevo comunque essere accanto alla
piccola.
Il giorno dopo, gradualmente mi alzai. Che dolore,
muoversi, ma ero felice. Presto sarei potuta tornare a casa, anche se
purtroppo non con la piccolina. Nel pomeriggio andai a trovarla. Era molto
piccola, ma bellissima. Aveva i sensori per il battito
e la saturazione e la flebo. Mangiava ad orari e bisognava un po'
forzarla, altrimenti le avrebbero messo il sondino.
Venni presa dai sensi di colpa. Se la flebo le dava
fastidio, se i prelievi le facevano male, se doveva mangiare per
forza e non per fame come fanno i bambini di solito, se era costretta
a star chiusa lì dentro era tutta colpa mia. Mi disprezzavo. Avevo
sempre criticato mia madre perché da bambina mi aveva fatto mangiare
troppo e la credevo complice dei miei disturbi alimentari. Però di
fatto avevo commesso lo stesso errore, sbagliando nell'altra
direzione. Se mia figlia avrà disturbi sarà solo colpa mia. Ma
forse è inevitabile portarsi dietro ciò che ci lasciano i genitori:
se il loro esempio ci piace lo imitiamo, se non ci piace esibiamo
l'esatto contrario soltanto per distruggerne il condizionamento. Ma
allora un genitore è già fallito in partenza: qualsiasi scelta che
fa è sbagliata. E' questo il “peccato originale”?
La sera, durante l'orario di visita parenti, piansi
pensando al mio cucciolo che non era lì vicino a me. Poiché dovevo
riprendermi dal cesareo, mi sconsigliarono di recarmi di nuovo alla
TINO. Allora mi nascosi la testa sotto il cuscino dalla vergogna. Mi
credevo tanto virtuosa, ma alla fine non ero stata nemmeno in
grado di nutrire mia figlia. Che razza di madre ero? Qualsiasi
persona che aveva condiviso la mia stanza aveva tra le braccia il
proprio figlio dopo aver partorito. Io invece no.
Non mi fecero stare meglio neanche le visite che
ricevetti, tranne quelle del mio compagno. In fondo erano venuti a
trovarmi per educazione, perché in realtà non è me che volevano
vedere, ma la bimba. E mi pesava sul collo il non poter farla vedere.
Nessuno, a parte i genitori dei bambini ricoverati, era ammesso alla
TINO. E su questo punto concordavo. Ma sentivo che era come se si
ritorcesse contro di me “Per colpa tua non possiamo vederla. Come
minimo devi darci sue notizie.” E mi pesava raccontare
dell'incubatrice, dei sensori, degli altri bambini accanto a lei che
erano molto più gravi, che soffrivano molto di più, ma per fortuna
non per colpa delle madri. Io invece mi sentivo responsabile. “Non
deve sentirsi in colpa” mi dicevano i medici. “Gli iposviluppi
dei bambini spesso non si vedono subito e non sono sempre dovuti a
cattive abitudini della madre”.
Dopo le visite dei parenti, mi ripresi. Sollecitai
affinché mi togliessero il catetere urinario e, dopo, mi sentii
meglio. Avevo ancora il catetere venoso centrale. Per la rimozione,
che avvenne due giorni dopo il cesareo, dovetti firmare un foglio.
Non mi fu ben chiaro il motivo, anche se mi fu detto che rimuovendolo
era come rifiutare di continuare la terapia in caso ne avessi avuto
bisogno nel puerperio. Pur di farmi rimuovere quel catetere avrei
pure firmato “il dottore xxx è un coglione.” Ma per fortuna
dottori di quel tipo non ce n'erano. Infatti nessuno pareva credere
che ne avessi ancora bisogno, anche se la nutrizionista forse, per
tutelarsi, mi consigliava quasi di tenerlo. Figuriamoci! E' mica un
buco all'orecchio che, al limite, se non si mette l'orecchino si
chiude da solo. Anche se non lo utilizzavo, avrei dovuto correre
sempre in ospedale per la medicazione. E poi, dal momento che la bimba era
nata, avrei preferito morire di fame piuttosto che continuare a nutrirmi
artificialmente.
Ma per fortuna la questione non si poneva. Dovevo
riprendermi in fretta dal cesareo, farmi dimettere e tornare ogni
giorno alla TINO per assistere alla piccola. Dovevo abbandonare i
sensi di colpa, che non facevano che danneggiare ulteriormente la bimba.
Nonostante tutto, non conosco nessun'altra madre che abbia dato così
tanto amore ai suoi figli come mia madre. Non conosco madre migliore
della mia. Quindi avrei fatto altrettanto.
I giorni successivi, il personale del reparto mi
considerò molto di più come persona che come paziente. Mi
chiedevano sempre notizie della bimba e non reclamavano se mi
assentavo per ore. In fondo mi stimavano “lei è una persona in
gamba” mi disse un'ostetrica “ha sempre fatto di tutto, durante
la degenza, per migliorare la sua condizione, e quella di sua
figlia”.
Chiusi quell'esperienza ascoltando “Shine on
you crazy diamond” dei Pink Floyd, liberandomi di tutte le “scorie”
accumulate (anche in senso fisico perché dopo il cesareo è
condizione necessaria per la dimissione).
“Come on you raver, you seer of visions,
Come on you painter, you piper, you prisoner, and shine!”
Come on you painter, you piper, you prisoner, and shine!”
In totale, stetti ventitre giorni in quel reparto.
Quando tornai a casa, per circa una settimana, mi svegliai di notte,
tastandomi il braccio per vedere se avevo ancora la flebo.
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