venerdì 6 marzo 2015

La fiction

“Lei aspetta un bambino.” “Aah sì?” Restai attonita. “Guardi.” E guardai il monitor con distacco e discrezione, come quando guardo per la prima volta un database da analizzare.

L'assistente in sala mi guardò indignata come se rimproverasse un ragazzino che avesse combinato una bravata: “Ma lei non si rende conto del danno che avremmo potuto fare al bambino se avessimo proceduto con l'esame.” La guardai con innocenza e stupore: “Ma lei forse non si rende conto che non sapevo nulla. Però so chi è il padre, non si preoccupi”. Sembrò sollevata. “Però non so come dirlo al lavoro, visto che devo iniziare tra due giorni, e proprio ieri ho firmato il contratto.” A quel punto mi guardò come se volesse dire: “Ragazza mia, sei un disastro!”

Accorse tutto il personale del reparto. “Un bambino! Complimenti! Ma è maschio o femmina secondo voi?” “Io vedo il pisello.” “Tu vedi il pisello dappertutto”. Risate. Sembrava stessero assistendo ad una fiction. “E' il bambino del reparto. Ci sentiamo anche noi genitori. A proposito, ma il padre è già stato avvisato?” “Ce lo fa battezzare?” “Ma come è possibile che non sapeva nulla?” “Guardatela, in effetti non si vede proprio che è incinta.”

Ad un certo punto la dottoressa cambiò canale: ora trasmettevano il reality show. “Si faccia vedere al più presto da uno specialistica che potrà stabilire l'età del bambino e tutto il resto. Se dopo aspetta qua fuori le lascio il referto e scrivo che l'esame non è stato fatto per questa ragione, così lei non paga nulla.” “Grazie davvero, se non ci fosse stata lei! Non oso immaginare”. Raccontai tutta la storia, poi cambiai di nuovo canale sulla fiction. “Vi porterò a vedere il bambino.”
“Oh che bello! Saremo i suoi padrini.” “Faccia le visite necessarie, ma cambi medico però.”

Una volta fuori dalla stanza, rimasi immobile, confusa. Poi chiamai il padre. Non rispondeva, a nessun tentativo fatto nell'arco di mezz'ora. Avrà dimenticato il telefono a casa, pensai. Allora chiamai mia sorella per dirle che nel pomeriggio non sarei potuta andare ad una riunione in programma. Neanche lei rispondeva. Allora mi mossi dall'ospedale, prima di aver disdetto altre visite dall'urologo. Peccato di non aver incrociato quel medico, lo avrei “ringraziato” per l'attenzione con cui mi ha visitato.

Sull'autobus di ritorno mi chiamò mia sorella. “Un bambino? Ma dai!” Non potei evitare lo sguardo della gente che mi guardava e forse pensava: “in effetti non si vede.”

Arrivata a casa, chiamai di nuovo il mio compagno, ma in casa non si sentiva squillare il suo cellulare. Non rispondeva però. Sarà in riunione? Avrà perso il cellulare? Scrissi una mail. “Appena puoi chiamami”. Mi chiamò. In effetti aveva avuto riunione fuori ufficio e il cellulare era rimasto sulla sua scrivania. Gli diedi la notizia, ma rimase incredulo. Rientrò a casa prima del solito.

Andai poi dal medico di base per farmi scrivere le classiche analisi e i test. “Che figura ci facciamo noi medici! A volte non sappiamo capirvi. In effetti non sapevo avesse un compagno.” Cosa pensava allora di me? Che frequentassi più persone? Che non frequentassi nessuno? Beh forse se pensava avessi rapporti occasionali con più gente magari per sicurezza mi avrebbe fatto fare il test dell'HIV. E se non le avessi detto che mia madre aveva avuto il tumore al seno mi avrebbe mandato prima dal ginecologo anziché farmi fare subito un'ecografia? E se invece avessi tirato fuori la risonanza magnetica di anni fa avrebbe di nuovo sospettato la sclerosi multipla facendomi fare altri accertamenti? In effetti i disturbi della minzione, la stanchezza e la mancanza di concentrazione non mi avrebbero certamente risparmiato qualche esame invasivo. E cosa sarebbe successo del bambino? 

Se non avessi fatto degli studi sul tema, non saprei quanto la comunicazione tra medico e paziente sia fondamentale per arrivare ad una corretta diagnosi. Molto spesso però viene sottovalutata. Noi, da pazienti, pensiamo: loro sono i medici, loro sanno a prescindere da ciò che noi diciamo e così trascuriamo di raccontare alcune cose che potrebbero essere rilevanti. D'altro canto i medici pensano: io devo curare la malattia, mica sapere tutto della vita del paziente. Il fatto è che se si parte dal presupposto di curare la malattia e non la persona si lotta contro un “sistema”, un nemico che noi stessi, per mezzo della scienza, abbiamo definito. La malattia di fatto non esiste se non la vedi nell'espressione di una persona. Si comprendono le malattie dal momento che si studiano le persone piuttosto che i testi accademici.

Dopo questo “spazio promozionale”, torno alla fiction. Dovevo ora avvisare della scoperta le persone con cui avrei lavorato. Infatti, visti gli acciacchi dell'ultimo periodo, avevo deciso di rinviare la mia partenza per la Danimarca di qualche mese. Nel frattempo era uscito un bando, per un centro di ricerca della mia provincia. Avevo partecipato e mi avevano offerto l'incarico, pur sapendo che forse l'avrei lasciato per trasferimento. Avrei dovuto iniziare due giorni dopo l'esame rivelatore, ma il giorno prima avevo firmato il contratto. Ricordo come ero imbarazzata. Finalmente dopo mesi avevo trovato ciò che cercavo, ma ora avevo un altro pensiero, un altro obiettivo. Mi inquietava dar l'impressione di una persona subdola che vuole far la furba: prima firma il contratto e poi ne approfitta. Ma invece non era così e mi compresero perfettamente. Poco ci è mancato che stappassero una bottiglia per festeggiare. “Siamo contenti per te. Poi guarda, sei nel posto giusto, sai quante abbiamo visto andare in maternità pure con contratti precari?” Era vero, ero nel posto giusto, ma purtroppo ero troppo assente per riconoscerlo.

E ora “spengo la TV”, lasciandovi immaginare lo stupore di tutti i parenti e affini.

Ritorno per un attimo al monitor. Devo ammettere che prima di vedere quelle immagini, superata l'iniziale incredulità, non avevo mai veramente desiderato un figlio. Non riuscivo infatti ad immaginarmi come madre. Avevo però l'alibi: “mi han detto che forse non ne posso avere.” Quindi ero salva. Salva da ogni possibile paranoia: potrei mai gestire un bambino? e salva dalla paura che un bambino avesse potuto cambiare i rapporti con il mio compagno e con gli altri. Salva da ogni possibile impegno, preoccupazione e da ogni ulteriore responsabilità. E invece ora salva non ero, ma non mi importava. Capii che desideravo veramente essere madre e che quello era il momento giusto per esserlo. Il momento giusto, nonostante il lavoro che avrei dovuto iniziare ed il trasferimento in programma. Ora quella creatura era passata davanti a tutta la mia vita.


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