“Lei aspetta un bambino.” “Aah sì?” Restai
attonita. “Guardi.” E guardai il monitor con distacco e
discrezione, come quando guardo per la prima volta un database da
analizzare.
L'assistente in sala mi guardò indignata come se
rimproverasse un ragazzino che avesse combinato una bravata: “Ma
lei non si rende conto del danno che avremmo potuto fare al bambino
se avessimo proceduto con l'esame.” La guardai con innocenza e
stupore: “Ma lei forse non si rende conto che non sapevo nulla. Però
so chi è il padre, non si preoccupi”. Sembrò sollevata. “Però
non so come dirlo al lavoro, visto che devo iniziare tra due giorni,
e proprio ieri ho firmato il contratto.” A quel punto mi guardò
come se volesse dire: “Ragazza mia, sei un disastro!”
Accorse tutto il personale del reparto. “Un
bambino! Complimenti! Ma è maschio o femmina secondo voi?” “Io
vedo il pisello.” “Tu vedi il pisello dappertutto”. Risate. Sembrava stessero assistendo ad una fiction. “E' il
bambino del reparto. Ci sentiamo anche noi genitori. A proposito, ma
il padre è già stato avvisato?” “Ce lo fa battezzare?” “Ma
come è possibile che non sapeva nulla?” “Guardatela, in effetti
non si vede proprio che è incinta.”
Ad un certo punto la dottoressa cambiò canale: ora
trasmettevano il reality show. “Si faccia vedere al più presto da
uno specialistica che potrà stabilire l'età del bambino e tutto il
resto. Se dopo aspetta qua fuori le lascio il referto e scrivo che
l'esame non è stato fatto per questa ragione, così lei non paga
nulla.” “Grazie davvero, se non ci fosse stata lei! Non oso
immaginare”. Raccontai tutta la storia, poi cambiai di nuovo canale
sulla fiction. “Vi porterò a vedere il bambino.”
“Oh che bello! Saremo i suoi padrini.” “Faccia
le visite necessarie, ma cambi medico però.”
Una volta fuori dalla stanza, rimasi immobile,
confusa. Poi chiamai il padre. Non rispondeva, a nessun tentativo
fatto nell'arco di mezz'ora. Avrà dimenticato il telefono a casa,
pensai. Allora chiamai mia sorella per dirle che nel pomeriggio non
sarei potuta andare ad una riunione in programma. Neanche lei
rispondeva. Allora mi mossi dall'ospedale, prima di aver disdetto
altre visite dall'urologo. Peccato di non aver incrociato quel
medico, lo avrei “ringraziato” per l'attenzione con cui mi ha
visitato.
Sull'autobus di ritorno mi chiamò mia sorella. “Un
bambino? Ma dai!” Non potei evitare lo sguardo della gente che mi
guardava e forse pensava: “in effetti non si vede.”
Arrivata a casa, chiamai di nuovo il mio compagno, ma
in casa non si sentiva squillare il suo cellulare. Non rispondeva
però. Sarà in riunione? Avrà perso il cellulare? Scrissi una mail.
“Appena puoi chiamami”. Mi chiamò. In effetti aveva avuto
riunione fuori ufficio e il cellulare era rimasto sulla sua
scrivania. Gli diedi la notizia, ma rimase incredulo. Rientrò a casa
prima del solito.
Andai poi dal medico di base per farmi scrivere le
classiche analisi e i test. “Che figura ci facciamo noi medici! A
volte non sappiamo capirvi. In effetti non sapevo avesse un
compagno.” Cosa pensava allora di me? Che frequentassi più
persone? Che non frequentassi nessuno? Beh forse se pensava avessi
rapporti occasionali con più gente magari per sicurezza mi avrebbe
fatto fare il test dell'HIV. E se non le avessi detto che mia madre
aveva avuto il tumore al seno mi avrebbe mandato prima dal ginecologo
anziché farmi fare subito un'ecografia? E se invece avessi tirato
fuori la risonanza magnetica di anni fa avrebbe di nuovo sospettato
la sclerosi multipla facendomi fare altri accertamenti? In effetti i
disturbi della minzione, la stanchezza e la mancanza di
concentrazione non mi avrebbero certamente risparmiato qualche esame
invasivo. E cosa sarebbe successo del bambino?
Se non avessi fatto degli studi sul tema, non saprei
quanto la comunicazione tra medico e paziente sia fondamentale per
arrivare ad una corretta diagnosi. Molto spesso però viene
sottovalutata. Noi, da pazienti, pensiamo: loro sono i medici, loro
sanno a prescindere da ciò che noi diciamo e così trascuriamo di
raccontare alcune cose che potrebbero essere rilevanti. D'altro canto
i medici pensano: io devo curare la malattia, mica sapere tutto della
vita del paziente. Il fatto è che se si parte dal presupposto di
curare la malattia e non la persona si lotta contro un “sistema”,
un nemico che noi stessi, per mezzo della scienza, abbiamo definito.
La malattia di fatto non esiste se non la vedi nell'espressione di
una persona. Si comprendono le malattie dal momento che si studiano
le persone piuttosto che i testi accademici.
Dopo questo “spazio promozionale”, torno alla
fiction. Dovevo ora avvisare della scoperta le persone con cui avrei
lavorato. Infatti, visti gli acciacchi dell'ultimo periodo, avevo
deciso di rinviare la mia partenza per la Danimarca di qualche mese.
Nel frattempo era uscito un bando, per un centro di ricerca della mia
provincia. Avevo partecipato e mi avevano offerto l'incarico, pur
sapendo che forse l'avrei lasciato per trasferimento. Avrei dovuto
iniziare due giorni dopo l'esame rivelatore, ma il giorno prima avevo
firmato il contratto. Ricordo come ero imbarazzata. Finalmente dopo
mesi avevo trovato ciò che cercavo, ma ora avevo un altro pensiero,
un altro obiettivo. Mi inquietava dar l'impressione di una persona
subdola che vuole far la furba: prima firma il contratto e poi ne
approfitta. Ma invece non era così e mi compresero perfettamente.
Poco ci è mancato che stappassero una bottiglia per festeggiare.
“Siamo contenti per te. Poi guarda, sei nel posto giusto, sai
quante abbiamo visto andare in maternità pure con contratti
precari?” Era vero, ero nel posto giusto, ma purtroppo ero troppo
assente per riconoscerlo.
E ora “spengo la TV”, lasciandovi immaginare lo
stupore di tutti i parenti e affini.
Ritorno per un attimo al monitor. Devo ammettere che
prima di vedere quelle immagini, superata l'iniziale incredulità,
non avevo mai veramente desiderato un figlio. Non riuscivo infatti ad
immaginarmi come madre. Avevo però l'alibi: “mi han detto che forse non
ne posso avere.” Quindi ero salva. Salva da ogni possibile
paranoia: potrei mai gestire un bambino? e salva dalla paura che un
bambino avesse potuto cambiare i rapporti con il mio compagno e con
gli altri. Salva da ogni possibile impegno, preoccupazione e da ogni
ulteriore responsabilità. E invece ora salva non ero, ma non mi
importava. Capii che desideravo veramente essere madre e che quello
era il momento giusto per esserlo. Il momento giusto, nonostante il
lavoro che avrei dovuto iniziare ed il trasferimento in programma.
Ora quella creatura era passata davanti a tutta la mia vita.
Nessun commento:
Posta un commento