Quando feci la prima visita specialistica, da un
medico consigliatomi da un'amica anche lei incinta, ero già alla
ventesima settimana. La mia gravidanza non era convenzionale: non
avevo l'agenda ostetrica. E mi sentivo quasi come una bambina che
inizia la scuola quando già metà del programma è stato svolto.
Per “recuperare” e fare d'urgenza alcuni esami nell'ospedale dove
volevo partorire, il medico scrisse una lettera al responsabile del
reparto illustrando il mio caso. Senza quella lettera, sarei stata
respinta per questioni burocratiche e amministrative. (Qui nascono
spontanee domande con la stessa risposta: “that's Italia”, ma in
questa sede sorvoliamo).
Da un lato penso comunque di aver preferito saperlo
così tardi: mi sono risparmiata un bel po' di prelievi, visite,
ulteriori mesi di attese, paure, privazioni dovute al fatto che quasi
ti mettono in testa di esser malata solo perché sei incinta.
Il mio istinto mi aveva portato naturalmente ad
evitare farmaci, cibi potenzialmente pericolosi e a riposarmi.
Tuttavia non avevo mangiato molto, seppur bene, per colpa della
nausea e di dolori vari.
Mi stupiva che questa creatura avesse potuto formarsi
nonostante il mio stato di salute debilitato e l'alimentazione
scarsa.
E cresceva bene: gli ulteriori esami che feci
esclusero problemi di malformazione o di sviluppo.
“I bambini nascono e crescono malgrado noi” mi
disse la dottoressa che mi fece l'ecografia morfologica. Aspettavo
una bambina.
Cominciai a leggere alcuni libri sul parto e di
puericultura. Volevo arrivare preparata e farmi un'opinione
personale, così non avrei accettato consigli sbagliati solo per
ignoranza. Inoltre non volevo cadere nelle trappole del marketing
sui prodotti per bambini. Davvero serve tutta quella roba che ti
propongono? No di certo. E poi i bambini non sono una categoria a
parte, ma sono soltanto cuccioli d'uomo. Ti fan quasi credere che
servano dei guanti apposta solo per toccarli.
E poi non parliamo
dell'ossessione di dover comprare tutto nuovo, quando nei negozi di
seconda mano si trovano di fatto articoli nuovi che sono stati
portati lì solo perché si son ricevuti troppi regali o perché sono
stati fatti acquisti superflui.
Non volevo che nessuno avesse potuto
condizionare le mie idee e impormi uno stile diverso dal mio.
Soprattutto, volevo fare i primi acquisti quando mi sentivo pronta,
mediando tra il non voler comprare tutto subito per evitare
previsioni sbagliate e il non aspettare all'ultimo momento per
evitare che la fretta scegliesse per me. Sarei andata in crisi se
qualcuno fosse arrivato con degli articoli che in casa non ero pronta
a ricevere.
Nonostante mi sentissi sicura di me e del mio
carattere, temevo che qualcuno o qualcosa avesse potuto portarmi via
il mio tesoro una volta nato. Quindi andavo in panico se sentivo
qualcuno che aveva interesse alla bimba, ad eccezione del mio
compagno, accennare discorsi tipo “e poi chi la tiene? Tu? Sola? Ti
sei informata per il nido?” Erano questioni che potevano mettere in
dubbio le mie capacità e la mia adeguatezza nel ruolo di madre. E
poi era troppo presto per parlarne.
Per gestire meglio lo stress che alcuni mi mettevano,
sommato all'ansia che non ci fossero complicazioni prima, durante e
dopo il parto, facevo esercizi di rilassamento, indicati in uno dei
libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca.
Non mi spaventava
invece il dolore del parto, visti tutti i dolori delle coliche
biliari che avevo patito. E poi la gioia di stringere la bimba in
braccio avrebbe compensato qualsiasi sofferenza. All'inizio temevo di
non saper individuare il momento giusto per recarmi all'ospedale, ma
poi mi convinsi a lasciarmi guidare dall'intuito.
Avevo poi iniziato il lavoro. Mi trovavo bene e mi
piaceva, anche se forse l'avrei apprezzato di più in un altro
momento. Tuttavia mi distraeva dalla gravidanza, anche se, devo
ammettere, d'altra parte la gravidanza mi distraeva dal lavoro.
Tutto procedeva bene, anche se ero sempre un po'
infastidita quando mi chiedevano come andava perché quando dicevo
bene avevo un po' paura che poi qualcosa non andasse più bene. Il
classico proverbio in questo caso diventava: “Non dire quattro se
non ce l'hai fuori dal sacco.”
Dal settimo mese in poi la stanchezza si ridusse. E
mi sentii molto meglio. Quasi correvo di nuovo al posto di camminare.
Mi autorizzarono a lavorare fino all'ottavo mese. Ad un certo punto,
cominciò a venirmi l'ansia di dover aver tutto pronto in casa. Alla
trentunesima settimana avevo già la valigia pronta. Mi chiesi
perché, perché quella fretta. Perché ora ero più distratta dal
preparare che dall'essere preparata per il parto? Perché avevo paura
di non aver tempo? Perché pensavo meno a mangiare come prima?
Intorno al settimo mese feci un sogno. Sognai mio
padre che indicava un orologio. Erano le 17.45. Mi diceva che
qualcosa sarebbe successo quando mi sarei trovata su un mezzo
pubblico dopo quell'ora. Mi diceva che si sarebbe poi risolto, ma mi toccava subire
qualcosa. “Anestesia” mi diceva.
La mattina dopo fui un po' sconvolta.
Eppure la bimba scalciava come una matta. Non c'erano
poi ragioni per temere il cesareo perché si era già ben
posizionata. Cercai di rimuovere il sogno. Ricordo di non aver dato
nessun peso ad un altro sogno che feci quando ancora non sapevo della
gravidanza, in cui mia madre mi diceva che ero incinta. Ed io, come
ero solita risponderle quando mi diceva, in vita, che dovevo credere
ai sogni le dicevo: “Mamma, non dire boiate.”
Preferisco non
credere ai sogni per non condizionarmi negativamente. In effetti però
neanche la scienza sa perché noi sogniamo e se i sogni condizionano
ciò che ci accade oppure se ciò che ci accade condiziona i nostri
sogni, come è più ragionevole pensare.
Tuttavia non presi mai l'autobus dopo le 17.45, non
per scaramanzia, ma perché dopo quell'ora ero stanca per uscire e
volevo starmene a casa. L'ultimo giorno della trentunesima settimana
andai dal ginecologo. “La bimba sembra un po' piccina, per
sicurezza fatti vedere domani. Ti scrivo un'altra lettera per farti
fare una visita in ospedale.”
Mi recai alla stazione ferroviaria.
Il treno stava per partire. Mi affrettai, ma lo persi. L'altro
passava dopo mezz'ora. Guardai l'orologio della stazione. Erano le
17.45.
In questo post volevo condividere il sogno (vero) sia per liberarmene che per aggiungere alla storia una sorta di mistero. Non vorrei invece incentivare a credere ai sogni e alle premonizioni.
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