mercoledì 1 aprile 2015

Vivere la TINO

Dopo 23 giorni, cioè 552 ore, senza uscire all'aria aperta, mi sembrava strano camminare per strada. Dopo le dimissioni, passai a casa e poi ritornai all'ospedale dalla bimba. La ferita del cesareo minacciava, ma presto la mia indifferenza nei suoi confronti la rese innocua. 

Arrivavo alla T.I.N.O. (terapia intensiva neonatale ospedaliera) sempre qualche minuto prima dell'orario in cui erano ammessi i genitori. Passavo al bagno dell'ospedale e mi cambiavo. Dovevo indossare o il camice verde usa e getta che fornivano o una maglia/vestito bianca personale diversa dall'indumento con cui arrivavo da fuori. Per evitare sprechi, mi portavo il “camice” da casa. All'ingresso, depositavo borse e giacca nell'armadietto apposito, indossavo i calzari usa e getta che fornivano, mi lavavo accuratamente le mani con l'antibatterico. Queste erano le regole igieniche per essere ammessi. Per fortuna la bimba non era così delicata da richiedere di indossare la mascherina e la cuffietta. Poi guardavo sempre le foto, appese alla bacheca, dei bambini che erano stati lì. Alcuni pesavano alla nascita ancora meno di lei ed erano poi cresciuti bene e sani. Le foto mi davano speranza. Non credevo ancora che un giorno sarebbe venuta a casa e che l'avrei cresciuta io, anche se non c'erano ragioni per pensare diversamente. 

Indipendentemente dalla situazione, il fatto di trovarsi in terapia intensiva è un'esperienza inquietante. Pur essendo discreta nei confronti degli altri bambini, mi capitava di vedere gravi problemi di respirazione, problemi neurologici, digestivi … E il fatto che la bimba condividesse lo spazio con bambini critici ti faceva credere che potesse condividerne anche i dolori, così come ti faceva condividere le paure degli altri genitori. Eppure io ero felice quando la vedevo e felice tornavo a casa perché un altro giorno era passato e lei cresceva. Purtroppo però ero isolata nella mia felicità perché spesso vedevo mamme piangere e avrei voluto far qualcosa per loro. Quasi mi sentivo egoista ad essere così contenta in un ambiente così triste. Ma poi pensavo che in fondo era lei nel posto sbagliato, così come io ero stata ricoverata in un reparto non adatto, anche se poi avevo ricevuto tutte le cure e attenzioni di cui necessitavo. E così anche lei era seguita molto bene. Mi fidavo dei medici. Vivevo alla giornata e non chiedevo mai quando l'avrebbero dimessa. Dipendeva soltanto da lei e stressare il personale sarebbe stato nocivo per tutti.

Arrivavo alla sua incubatrice. Sbirciavo dalla tendina e sorridevo apertamente a quella creatura. Poi aprivo la porticina e infilavo la mano per toccarla. Se era sveglia mi guardava con quegli occhioni. Ed io mi illuminavo. Se dormiva, la illuminavo con lo sguardo. In ogni caso, la mia mano le dava conforto e calore che l'incubatrice non poteva darle. Non mi sentivo una vera madre perché non avevo libertà di prenderla in braccio quando volevo, di cambiarla quando ritenevo necessario, di nutrirla quando lei voleva. Dovevo aspettare gli orari dei pasti e per fare ogni cosa dovevo chiedere il permesso. “Posso prenderla in braccio.” E l'infermiera di riferimento me la tirava fuori dall'incubatrice. Dovevo stare attenta a non tirare i cavi della flebo o dei sensori. Se la sentivo piangere prima dei pasti, di norma non potevo chiedere il biberon o provare ad attaccarla al seno. Dovevo aspettare, anche se chiedevo sempre di poter anticipare e quasi sempre, se non erano troppo occupati, mi davano ascolto. Prima di attaccarla al seno dovevo chiedere di fare la “doppia pesata” ossia la verifica del peso prima e dopo la poppata, per vedere quanto latte aveva bevuto.
Erano informazioni che registravano in cartella. 

All'inizio notai qualche resistenza ogni volta che chiedevo di attaccarla al seno “ma è troppo piccola. Non riesce a succhiare.” In effetti a volte era difficile persino darle il biberon. Solo una volta le misero il sondino e fu l'unica volta che piansi. Poi mangiò senza problemi. Però al seno succhiava poco e prendeva poco. Non potevo tenerla attaccata per più di mezz'ora perché bisognava rispettare l'orario del pasto. Infatti, qualora non avesse mangiato a sufficienza, bisognava integrare col latte artificiale. Lei sembrava volesse stare attaccata molto di più. Forse non aveva fame, ma cercava conforto e poi si assopiva. E con l'esperienza avrei detto che probabilmente, se avesse succhiato a richiesta e senza orari, non ci sarebbero stati problemi, anche se in effetti era ancora un po' piccola.

Alla fine, vista la mia insistenza nel tentare l'allattamento al seno, le infermiere mi vennero tutte incontro. Cercarono di fare il possibile per farmi sentire meno a disagio, dato che dovevo allattare in uno spazio stretto con sottofondo di suoni di macchinari e voci interrotte che distraevano la bambina. Mi procuravano comodi cuscini e cercavano di non mettermi fretta. “Se vede che la bimba non succhia però le consiglio di andare a tirarsi il latte. In ogni caso, stimoli il seno ogni tre-quattro ore.” Però di fatto era difficile gestire la situazione con gli orari e con il fatto che non volevo passare tutto il giorno lì dentro, senza poter tenerla in braccio. 

Pertanto, per essere sicura di darle il mio latte, spesso mi trovavo costretta a scegliere tra tirarmelo subito e darglielo col biberon o tentare di allattarla direttamente. E' un po' come se a un uomo venisse detto “scegli se fecondare tramite relazione o con aggeggi per estrazione e poi introduzione.” Cosa fareste? In quel momento per me contava molto di più la relazione che il semplice nutrimento, visto che avrebbero comunque provveduto artificialmente. Pertanto tentavo di allattarla anche con il rischio di non riuscire ad avere il tempo per estrarre tutto il latte. A casa non avevo il tiralatte e non lo comprai subito perché ero stanca di raccogliere dopo essere stata tutto il giorno in ospedale, ma soprattutto non avevo la motivazione. Mi sembrava davvero solo "masturbazione" dopo un'intensa giornata di “approcci”, dal momento che ti dicevano pure “a casa si rilassi e usi una foto della bimba per migliorare la performance”. Inoltre ciò che raccoglievo a casa, doveva prima essere depositato alla banca del latte. 

Alla TINO al massimo riuscivo a raccogliere 20-30 ml a volta. Depositavo il tutto in un contenitore sterile sul quale scrivevo il nome della bimba, la data e l'ora. Purtroppo non potevo evitare di notare il "raccolto" di altre madri. Sui loro contenuti avrei scritto “più giorni” e non perché il mio latte durava di più, ma perché ci avrei impiegato più giorni a raccogliere quelle quantità. “Signora, non importa: tutto quello che riesce a dare, anche se poco, è prezioso” mi incoraggiavano le infermiere Ed allora io mi sentivo sollevata. E raccoglievo il più possibile. E se anche la bimba succhiava poco al seno, ero contenta. 

Le infermiere apprezzarono la mia determinazione e la costanza con la quale approcciavo l'allattamento, anche se difficoltoso. “Possiamo farle una foto? La mostreremo ai seminari come esempio che allattare alla TINO è possibile. E poi la sua dolcezza, il modo in cui guarda e sorride alla sua piccola ... Si vede proprio che la bimba si sente in pace con lei. E le sorride già”. Ero soddisfatta che qualcuno mi apprezzava e non mi giudicava solo dal latte che producevo. Ciò mi faceva sentire più madre e meno impotente. Devo ammettere che non tutte le infermiere erano empatiche. Una mi smontò una volta, dopo la “doppia pesata.” “Ma signora è la bimba che non succhia o è lei che non ha latte?” Comunque cercai di non badarci. In fondo lavorare lì dentro è stressante.

Quando la bimba raggiunse il peso di 1600 g, fu spostata dall'incubatrice in una culla normale nell'altro lato dell'open space. L'ultima fase fu la migliore, ma vedevo che lei era sempre più curiosa del mondo esterno e non ne poteva più di star lì.

Quando raggiunse 1800 g scarsi, fu dimessa. La portammo a casa in autobus. Solo da quel momento dissi a tutti i conoscenti che ero diventata madre.
Prima infatti ero spaventata e non riuscivo a parlarne, se non con pochissime persone. 

Stette 23 giorni e mezzo (circa 560 ore). “Continui con allattamento ad orari” mi fu suggerito al momento della dimissione “ed aumenti le dosi di latte ogni 2-3 giorni.” Fu quella la condanna. Di fatto la mia libertà era ancora condizionata.




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