venerdì 13 marzo 2015

Gravi-degenza

17.45, 31 settimane + 6 giorni di gravidanza. Ero alla stazione e dovevo ancora prendere il treno. Arrivai a casa intorno alle 19. Fu l'ultima sera che rincasavo col pancione.

Sul treno cominciai a preoccuparmi per quello che mi aveva detto la dottoressa “la bimba è un po' piccina. Sembra che il suo sviluppo sia fermo al settimo mese. Comunque potrei sbagliarmi. Per questo motivo domani ti consiglio di andare a farti vedere.”

In effetti da un po' di tempo non mi sembrava di aver preso peso. Anzi mi vedevo più magra, seppur la pancia fosse sempre uguale o più grossa. In effetti nell'ultimo mese avevo fatto più attività fisica ed ero così distratta dal pensare di aver tutto in ordine in casa che non mi curavo di quanto mangiavo e se mangiavo a sufficienza. Pensavo ormai che la bimba si fosse già formata bene e che quindi non dovevo controllare l'alimentazione. D'altro canto la dottoressa mi aveva detto di pesarmi, ma non mi aveva detto di quanto avrei dovuto aumentare di settimana in settimana per non preoccuparmi e nemmeno mi aveva dato indicazione su quanto avrei dovuto mangiare. Eppure le avevo accennato dei miei disturbi alimentari in passato, ma forse l'avevo convinta (e ne ero convinta anche io) che fosse tutto finito. Ora mi rendevo conto che comunque avevo sempre paura di mangiare più del necessario, ma non di meno. Ero sicura di sapere quanto fosse il necessario?

Avevo giurato a me stessa, quando seppi della gravidanza, che avrei fatto di tutto per non far soffrire mia figlia di problemi di alimentazione né di peso: l'avrei fatta mangiare il giusto a seconda delle tabelle e di più se soltanto lei me lo avesse chiesto. Non le avrei imposto nulla, ma soltanto promosso un'alimentazione corretta. Però forse sottovalutavo che tutto inizia in gravidanza. Dovevo abbandonare quella lotta con me stessa. Adoravo quella pancia perché sapevo che non era grasso, ma forse senza rendermene conto non volevo creare delle riserve solo per me, non destinate cioè a lei. Ma forse quelle riserve dovevo averle. Ma possibile che pur sapendolo e sapendo anche che bastava mangiare un po' di più non l'abbia fatto? Avrei dovuto scrivere una dieta e seguirla. E invece no. Avevo lasciato correre. A volte pur sapendo dove sbagliamo ci lasciamo trasportare dall'errore un po' per sfida, un po' per inerzia, un po' per lassismo o forse per assenza.

Comunque abbandonai i sensi di colpa e i pensieri negativi. Ripensai al sogno. Anche se fosse stato vero, se fosse successo qualcosa, mio padre mi diceva che si sarebbe risolto tutto, anche se … chissà cosa avrei passato. Decisi di non pensarci più e di passare la serata e la notte tranquilla.

La mattina dopo mi recai in ospedale.“In effetti la bimba è molto piccola per l'età gestazionale. Il resto sembra tutto a posto. Io la ricovero perché comunque la sua gravidanza è a rischio.” A rischio di cosa? Non capivo. “Mi ricoverate domani?” “No, subito” “Posso almeno passare a casa a prender la roba?” “No, la roba se la fa portare”. La dottoressa non capiva quanto fosse importante per me non scomodare nessuno e passare a casa, visto che comunque la situazione non mi sembrava così grave. “E quanto tempo dovrei stare?” “Ah non lo so. Ragazza mia, qui si sa quando si entra, ma non quando si esce.”Continuavo a non capire: “Ma se devo seguire qualsiasi dieta giuro di farlo anche a casa. Ho sottovalutato il problema, ma ho già imparato la lezione. Devo ricoverarmi per forza, subito?” “Sì, dobbiamo monitorarla. Prima proviamo con la dieta e vediamo se la bimba cresce. Altrimenti dobbiamo farla nascere e farla crescere fuori. Deve stare qui perché i tracciati ci indicheranno il momento giusto per intervenire. Certo, se le cose vanno bene noi preferiremo che la bimba stia dentro il maggior tempo possibile perché altrimenti ci sarebbe il rischio di problemi respiratori.” Era meglio non far troppe domande per non farsi venire troppe preoccupazioni.

Il mio istinto mi diceva che la bimba non aveva nessun altro problema, se non che fosse piccola e che pesasse poco. In ogni caso non potevo far valerne la presunzione e mi affidai completamente a loro.

Non ero più dipendente ora e non mi sentivo neanche libera. Quindi mi sarei sentita morta. Rimasi incredula. Fino al giorno prima me ne andavo a spasso e adesso non potevo più tornare a casa. Ma contava solo la bimba. L'importante era fare il possibile per lei, anche a costo di morire.

Avvisai il mio compagno del “sequestro” e gli dissi di portare la borsa che avevo già preparato. “Fai pure con comodo. Tanto qui mi sa ci starò per molto.”

Il primo giorno, in mancanza di disponibilità di un letto in una camera normale, mi piazzarono in sala tracciati, una stanza dove tengono le macchine per fare gli esami. Per fortuna non ci furono urgenze e non mi disturbarono. Altrimenti avrei potuto passare giorno e notte con donne che urlavano dal dolore aspettando di entrare in sala parto. Donne che comunque in quel momento avrei invidiato. Tuttavia non mancarono il disagio e il senso di abbandono.

La sera prima di cena, dopo un'intera giornata di confusione e smarrimento, riuscii per pochi istanti a rilassarmi e a leggere un libro. Ad un certo punto guardai l'ora. Avrebbe dovuto arrivare il pasto, ma non arrivava. Passò quasi un'ora. Poi uscii fuori e vidi già i carrelli vuoti. Chiesi alle donne delle altre stanze se avevano già mangiato e mi risposero affermativamente. Mi venne il nervoso: "vogliono che stia qui, anziché a casa per mangiare e vedere quanto mangio e poi non mi portano la cena?" Andai a bussare in cucina.

“Ci scusi è che nella lista dei pasti non c'era il letto in sala tracciati e ce ne siamo dimenticati. Le porto subito la cena.” Dopo un po' arrivò col vassoio. Era abbastanza freddo. Non riuscii a terminare il pasto, pur sforzandomi, perché solitamente non riesco a mangiar la carne se non è ben calda. Piansi.

Mi sentivo sconfortata: chissà quanti giorni avrei dovuto passare così. Pensai a quanto sia inutile parlare con nutrizionisti e psicologi quando non mangiare e stare male è dovuto a scarsa collaborazione del personale dello stesso reparto. Il vassoio rimase lì. Mi dava fastidio sentire l'odore di quella roba, ma l'ostetrica mi aveva detto che sarebbero passate le operatrici a portarlo via. Ma non passava nessuno.

Decisi di alzarmi e farmi valere. Presi il vassoio e bussai in cucina: “Riporto questo. Potevate almeno scaldarmelo visto che vi eravate dimenticate di portarmelo.” L'operatrice mi guardò con una faccia stupita. “Ma io l'ho scaldato”. Io la guardai come per dire “Voglio vedere se a casa tua lo scaldi così”. Poi dissi qualcosa come “e poi pretendono che mangi.” Tornai in camera. Pensai che avrebbero potuto portarmi un formaggio in alternativa. Per compensare, bevvi un intero integratore sostitutivo del pasto. Me l'aveva dato la nutrizionista, anche se mi aveva detto di provare con qualche sorso.

Un altro inconveniente fu il bagno. Nella sala tracciati c'era, ma era chiuso a chiave perché riservato al personale. Di giorno avevo chiesto se potevo usarlo, ma mi avevano risposto negativamente. Dovevo recarmi al bagno della camera di fronte, disturbando le pazienti ricoverate e i loro bimbi. In più avevo il contenitore puzzolente delle urine delle 24 ore dove dovevo trasferirvi ciò che facevo. Provai a dormire, ma con quel contenitore sotto il naso fu molto difficile. Entrò un'ostetrica che sembrava comprensiva. Mi chiese come stavo. Le raccontai l'episodio della cena e mi capì. Poi vide il contenitore. “Devi dormire pure con quell'affare. In effetti, non saprei dove spostartelo”. Colsi la palla al balzo. “Vorrei chiederle se fosse possibile, solo per questa notte, avere le chiavi di quel bagno. Spesso mi alzo per urinare. Mi spiace entrare a svegliare e disturbare le pazienti e i bambini della camera di fronte. In più c'è anche il rischio di portare batteri trasportando questo affare. Io ci sto attenta, ma potrebbe cadermi di notte, perché per non disturbare non accenderei neanche la luce.” Convinsi l'ostetrica. “Adesso vedo cosa posso fare.” Arrivò con le chiavi e così lasciai il contenitore in bagno. Ero soddisfatta. Le mie richieste erano state ascoltate.

Riuscii a dormire due ore. Poi mi svegliarono per prendere qualcosa nella sala. Alle tre di notte feci un giro del reparto. Le foto dei bambini nel corridoio mi facevano piangere anche se mi sollevava leggere che qualcuno di quei bellissimi bimbi alla nascita pesava sotto i due chili. Mi toccavo la pancia. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei.

Il giorno dopo mi diedero un letto in una camera normale. Fu molto meglio.

La routine giornaliera fu sempre la stessa: notte insonne con sottofondo di pianti che coprivo con la musica in cuffia. Poi, quando riuscivo ad addormentarmi mi svegliavano: “Ragazze avete messo il termometro?” E no che non l'avevo messo: dormivo. Misuravano la pressione, il peso, il battito del bimbo. Arrivava la colazione. Mi lavavo. Poi iniziavo con il primo tracciato. La visita dei medici. Pranzo. Poi estranei in camera (visita parenti). Secondo tracciato. Poi termometro. Di nuovo estranei in camera. Cena. Tracciato. Poi sonno-veglia sonno-veglia sonno-veglia.

Le mie consolazioni delle giornate iniziali furono: le visite del mio compagno, la musica, la doccia, le passeggiate in corridoio e negli altri piani, il computer e internet che mi facevo portare da casa, i film, libri, la settimana enigmistica. Era comunque insopportabile farsi servire, aspettare sempre gli operatori, i medici, le ostetriche, ma soprattutto non sapere nulla né sul parto, né sulle dimissioni.

Alla data presunta del parto mancavano ancora poco meno di 8 settimane. Rischiava di diventare veramente eterna quella degenza.

Dopo circa cinque giorni mi abituai anche a dormire. Ormai, le urla e i pianti non mi disturbavano più. Non ebbi più problemi a mangiare e finivo tutto. Gli integratori proteici invece mi davano fastidio. Procedeva tutto bene, ma bisognava intervenire diversamente. Non avrei potuto mangiare di più per non avere problemi di stomaco. Pertanto trovarono un'altra soluzione per nutrire direttamente la bambina. Una soluzione che richiese il coinvolgimento del reparto di anestesia e rianimazione. Mi fu allora perfettamente chiaro il sogno e la parola “Anestesia.”


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