17.45, 31 settimane
+ 6 giorni di gravidanza. Ero alla stazione e dovevo ancora prendere
il treno. Arrivai a casa intorno alle 19. Fu l'ultima sera che
rincasavo col pancione.
Sul treno cominciai
a preoccuparmi per quello che mi aveva detto la dottoressa “la
bimba è un po' piccina. Sembra che il suo sviluppo sia fermo al
settimo mese. Comunque potrei sbagliarmi. Per questo motivo domani ti
consiglio di andare a farti vedere.”
In effetti da un
po' di tempo non mi sembrava di aver preso peso. Anzi mi vedevo più
magra, seppur la pancia fosse sempre uguale o più grossa. In effetti
nell'ultimo mese avevo fatto più attività fisica ed ero così
distratta dal pensare di aver tutto in ordine in casa che non mi
curavo di quanto mangiavo e se mangiavo a sufficienza. Pensavo ormai
che la bimba si fosse già formata bene e che quindi non dovevo
controllare l'alimentazione. D'altro canto la dottoressa mi aveva
detto di pesarmi, ma non mi aveva detto di quanto avrei dovuto
aumentare di settimana in settimana per non preoccuparmi e nemmeno mi
aveva dato indicazione su quanto avrei dovuto mangiare. Eppure le
avevo accennato dei miei disturbi alimentari in passato, ma forse
l'avevo convinta (e ne ero convinta anche io) che fosse tutto finito.
Ora mi rendevo conto che comunque avevo sempre paura di mangiare più
del necessario, ma non di meno. Ero sicura di sapere quanto fosse il
necessario?
Avevo giurato a me
stessa, quando seppi della gravidanza, che avrei fatto di tutto per
non far soffrire mia figlia di problemi di alimentazione né di
peso: l'avrei fatta mangiare il giusto a seconda delle tabelle e di
più se soltanto lei me lo avesse chiesto. Non le avrei imposto
nulla, ma soltanto promosso un'alimentazione corretta. Però forse
sottovalutavo che tutto inizia in gravidanza. Dovevo abbandonare
quella lotta con me stessa. Adoravo quella pancia perché sapevo che
non era grasso, ma forse senza rendermene conto non volevo creare
delle riserve solo per me, non destinate cioè a lei. Ma forse quelle
riserve dovevo averle. Ma possibile che pur sapendolo e sapendo anche
che bastava mangiare un po' di più non l'abbia fatto? Avrei dovuto
scrivere una dieta e seguirla. E invece no. Avevo lasciato correre. A
volte pur sapendo dove sbagliamo ci lasciamo trasportare dall'errore
un po' per sfida, un po' per inerzia, un po' per lassismo o forse per
assenza.
Comunque abbandonai
i sensi di colpa e i pensieri negativi. Ripensai al sogno. Anche se
fosse stato vero, se fosse successo qualcosa, mio padre mi diceva che
si sarebbe risolto tutto, anche se … chissà cosa avrei passato.
Decisi di non pensarci più e di passare la serata e la notte
tranquilla.
La mattina dopo mi
recai in ospedale.“In effetti la bimba è molto piccola per l'età
gestazionale. Il resto sembra tutto a posto. Io la ricovero perché
comunque la sua gravidanza è a rischio.” A rischio di cosa? Non
capivo. “Mi ricoverate domani?” “No, subito” “Posso almeno
passare a casa a prender la roba?” “No, la roba se la fa
portare”. La dottoressa non capiva quanto fosse importante per me
non scomodare nessuno e passare a casa, visto che comunque la
situazione non mi sembrava così grave. “E quanto tempo dovrei
stare?” “Ah non lo so. Ragazza mia, qui si sa quando si entra, ma
non quando si esce.”Continuavo a non capire: “Ma se devo seguire
qualsiasi dieta giuro di farlo anche a casa. Ho sottovalutato il
problema, ma ho già imparato la lezione. Devo ricoverarmi per forza,
subito?” “Sì, dobbiamo monitorarla. Prima proviamo con la dieta
e vediamo se la bimba cresce. Altrimenti dobbiamo farla nascere e
farla crescere fuori. Deve stare qui perché i tracciati ci
indicheranno il momento giusto per intervenire. Certo, se le cose
vanno bene noi preferiremo che la bimba stia dentro il maggior tempo
possibile perché altrimenti ci sarebbe il rischio di problemi
respiratori.” Era meglio non far troppe domande per non farsi
venire troppe preoccupazioni.
Il mio istinto mi
diceva che la bimba non aveva nessun altro problema, se non che fosse
piccola e che pesasse poco. In ogni caso non potevo far valerne la
presunzione e mi affidai completamente a loro.
Non ero più
dipendente ora e non mi sentivo neanche libera. Quindi mi sarei
sentita morta. Rimasi incredula. Fino al giorno prima me ne andavo a spasso e
adesso non potevo più tornare a casa. Ma contava solo la
bimba. L'importante era fare il possibile per lei, anche a costo di
morire.
Avvisai il mio
compagno del “sequestro” e gli dissi di portare la borsa che
avevo già preparato. “Fai pure con comodo. Tanto qui mi sa ci
starò per molto.”
Il primo giorno, in
mancanza di disponibilità di un letto in una camera normale, mi
piazzarono in sala tracciati, una stanza dove tengono le macchine per
fare gli esami. Per fortuna non ci furono urgenze e non mi
disturbarono. Altrimenti avrei potuto passare giorno e notte con
donne che urlavano dal dolore aspettando di entrare in sala parto.
Donne che comunque in quel momento avrei invidiato. Tuttavia non
mancarono il disagio e il senso di abbandono.
La sera prima di
cena, dopo un'intera giornata di confusione e smarrimento, riuscii
per pochi istanti a rilassarmi e a leggere un libro. Ad un certo
punto guardai l'ora. Avrebbe dovuto arrivare il pasto, ma non
arrivava. Passò quasi
un'ora. Poi uscii fuori e vidi già i carrelli vuoti. Chiesi alle
donne delle altre stanze se avevano già mangiato e mi risposero
affermativamente. Mi venne il nervoso: "vogliono che stia qui, anziché
a casa per mangiare e vedere quanto mangio e poi non mi portano la
cena?" Andai a bussare in cucina.
“Ci scusi è che
nella lista dei pasti non c'era il letto in sala tracciati e ce ne
siamo dimenticati. Le porto subito la cena.” Dopo un po' arrivò
col vassoio. Era abbastanza freddo. Non riuscii a terminare il pasto,
pur sforzandomi, perché solitamente non riesco a mangiar la carne se
non è ben calda. Piansi.
Mi sentivo
sconfortata: chissà quanti giorni avrei dovuto passare così. Pensai
a quanto sia inutile parlare con nutrizionisti e psicologi quando non
mangiare e stare male è dovuto a scarsa collaborazione del personale
dello stesso reparto. Il vassoio rimase lì. Mi dava fastidio sentire l'odore di quella roba,
ma l'ostetrica mi aveva detto che sarebbero passate le operatrici a
portarlo via. Ma non passava nessuno.
Decisi di alzarmi e
farmi valere. Presi il vassoio e bussai in cucina: “Riporto questo.
Potevate almeno scaldarmelo visto che vi eravate dimenticate di
portarmelo.” L'operatrice mi guardò con una faccia stupita. “Ma
io l'ho scaldato”. Io la guardai come per dire “Voglio vedere se
a casa tua lo scaldi così”. Poi dissi qualcosa come “e poi
pretendono che mangi.” Tornai in camera. Pensai che avrebbero
potuto portarmi un formaggio in alternativa. Per compensare, bevvi un
intero integratore sostitutivo del pasto. Me l'aveva dato la
nutrizionista, anche se mi aveva detto di provare con qualche sorso.
Un altro
inconveniente fu il bagno. Nella sala tracciati c'era, ma era chiuso
a chiave perché riservato al personale. Di giorno avevo chiesto se
potevo usarlo, ma mi avevano risposto negativamente. Dovevo recarmi
al bagno della camera di fronte, disturbando le pazienti ricoverate e
i loro bimbi. In più avevo il contenitore puzzolente delle urine
delle 24 ore dove dovevo trasferirvi ciò che facevo. Provai a
dormire, ma con quel contenitore sotto il naso fu molto difficile.
Entrò un'ostetrica che sembrava comprensiva. Mi chiese come stavo.
Le raccontai l'episodio della cena e mi capì. Poi vide il
contenitore. “Devi dormire pure con quell'affare. In effetti, non
saprei dove spostartelo”. Colsi la palla al balzo. “Vorrei
chiederle se fosse possibile, solo per questa notte, avere le chiavi
di quel bagno. Spesso mi alzo per urinare. Mi spiace entrare a
svegliare e disturbare le pazienti e i bambini della camera di
fronte. In più c'è anche il rischio di portare batteri trasportando
questo affare. Io ci sto attenta, ma potrebbe cadermi di notte,
perché per non disturbare non accenderei neanche la luce.” Convinsi
l'ostetrica. “Adesso vedo cosa posso fare.” Arrivò con le chiavi
e così lasciai il contenitore in bagno. Ero soddisfatta. Le mie
richieste erano state ascoltate.
Riuscii a dormire
due ore. Poi mi svegliarono per prendere qualcosa nella sala. Alle
tre di notte feci un giro del reparto. Le foto dei bambini nel corridoio mi facevano
piangere anche se mi sollevava leggere che qualcuno di quei
bellissimi bimbi alla nascita pesava sotto i due chili. Mi toccavo la
pancia. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei.
Il giorno dopo mi
diedero un letto in una camera normale. Fu molto meglio.
La routine
giornaliera fu sempre la stessa: notte insonne con sottofondo di pianti
che coprivo con la musica in cuffia. Poi, quando riuscivo ad
addormentarmi mi svegliavano: “Ragazze avete messo il termometro?”
E no che non l'avevo messo: dormivo. Misuravano la pressione, il
peso, il battito del bimbo. Arrivava
la colazione. Mi lavavo. Poi iniziavo con il primo tracciato. La visita
dei medici. Pranzo. Poi estranei in camera (visita parenti). Secondo tracciato. Poi termometro. Di nuovo estranei in camera. Cena. Tracciato. Poi sonno-veglia sonno-veglia sonno-veglia.
Le mie consolazioni
delle giornate iniziali furono: le visite del mio compagno, la
musica, la doccia, le passeggiate in corridoio e negli altri piani,
il computer e internet che mi facevo portare da casa, i film, libri,
la settimana enigmistica. Era comunque insopportabile farsi servire,
aspettare sempre gli operatori, i medici, le ostetriche, ma
soprattutto non sapere nulla né sul parto, né sulle dimissioni.
Alla data presunta
del parto mancavano ancora poco meno di 8 settimane. Rischiava di
diventare veramente eterna quella degenza.
Dopo circa cinque
giorni mi abituai anche a dormire. Ormai, le urla e i pianti non mi
disturbavano più. Non ebbi più problemi a mangiare e finivo tutto.
Gli integratori proteici invece mi davano fastidio. Procedeva tutto
bene, ma bisognava intervenire diversamente. Non avrei potuto
mangiare di più per non avere problemi di stomaco. Pertanto
trovarono un'altra soluzione per nutrire direttamente la bambina. Una
soluzione che richiese il coinvolgimento del reparto di anestesia e
rianimazione. Mi fu allora perfettamente chiaro il sogno e la parola “Anestesia.”
Nessun commento:
Posta un commento