“Lei non ha nessun
problema, né disturbo. Forse a volte ha la cattiva abitudine di
scherzare col fuoco, ma sa
benissimo quando e come smettere. Vedo che ci tiene molto a questa
gravidanza”. “Certamente, farei qualsiasi cosa” e poi, pensai,
cattive abitudini non significa mica cattive persone.” Pertanto non
le prescrivo nessun tipo di psicofarmaco. L'avverto soltanto che il
catetere venoso centrale potrebbe darle molto fastidio. Non credo
invece che lei possa avere problemi di depressione. Semmai potrebbe
sentirsi giù di morale, ma lei ha carattere”. Fu questa la
conclusione dello psichiatra.
La soluzione che mi
proposero per far crescere la bimba senza danneggiarmi lo stomaco fu
quella della nutrizione parenterale, cioè della somministrazione di
nutrimento per via endovenosa. In pratica però non si trattava di
una normale flebo. Mi portarono nel reparto di anestesia e
rianimazione e mi inserirono un catetere in una vena centrale.
Partirono dal braccio e sentivo che trafficavano fino al livello del
collo. L'inserimento non fu troppo doloroso, ma fu terribile sentire
che manovravano con le mie vene e dicevano cose del tipo “ma così
terrà?” “aggiustalo un po'” “accorcia di là”
… Poi mi fecero una radiografia al torace per vedere se fosse ben
posizionato. Dopo un ritocco, il catetere era apposto.
La terapia consisteva
in 24 ore su 24 attaccata ad una pompa ad infusione. Per andare in
bagno o muovermi un po', potevo staccare la presa dalla corrente, ma
avevo un'autonomia di circa 20 minuti. Poi dovevo riattaccarmi.
Dipendevo
completamente sia da una flebo che dalla corrente elettrica. Se
muovevo troppo il braccio, cosa che succedeva spesso, la pompa si
inceppava e dovevo chiedere assistenza.
Oltre a nutrirmi
artificialmente, dovevo mangiare regolarmente. I primi giorni stetti
un po' male: mi doleva il collo, sudavo, avevo mal di testa e dopo i
pasti mi sentivo scoppiare. Poi mi abituai. Fare la doccia completa
era impossibile. Mi lavavo a pezzi e per cambiarmi dovevo chiedere se
mi staccassero un attimo dalla pompa.
La nutrizionista mi
aveva sempre vietato di mangiare l'insalata per evitare il rischio
della toxoplasmosi. Però non fece nessuna menzione delle potenziali
infezioni mortali che avrei potuto prendere con il catetere né del
rischi a cui potevo andar incontro. Se mi avesse danneggiato la
vena, la mia vita sarebbe stato un caro ricordo per chi mi conosce.
Ma non ci pensai. In questi casi bisogna solo fidarsi, ma fidarsi è
bene, rompere è meglio. Gli anestesisti mi avevano detto che mi
avrebbero cambiato la medicazione una volta alla settimana e nel
reparto avrebbero dovuto farmi il lavaggio due volte al giorno. “Mi
raccomando: se nel reparto si dimenticano, glielo ricordi lei.”
Devo confessare che
ho dovuto stressare perché altrimenti mi avrebbero trascurato. In
effetti capivo che quello non era un reparto dove quotidianamente
avevano a che fare con quegli aggeggi. Inoltre bisogna riconoscere
che il personale fa turni da 12 ore. Mi chiedo come possano reggere
questi ritmi. Penso anche all'incoerenza di promuovere la salute,
quando i medici, gli infermieri e operatori sono costretti a stili di
vita poco salutari. Così come i nutrizionisti vietano assolutamente
di saltare i pasti (ma loro come fanno a mangiare regolarmente con
quegli orari?).
Il primo giorno che
iniziai la terapia andai in crisi perché, dopo aver ispezionato
nella stanza dove stavo quante prese c'erano e aver studiato come
muovermi con quell'aggeggio, mi dissero che avrei dovuto cambiare
collocazione. Mi avrebbero spostato in una camera con tre letti,
anziché due come quella in cui ero. Mi sentii per qualche minuto
desolata e smarrita. E purtroppo in quel momento entrarono i medici
per la visita. Fui un po' scontrosa e subito accorse la psicologa.
“Possibile che non si possa neanche piangere senza bisogno di
chiamare la psicologa o di ricorrere a sedativi. A voi non capita
mai?” Chiesi se potevo restare per un momento da sola. Poi in un
attimo raccattai la mia roba e mi feci aiutare per portarla
nell'altra stanza. Le operatrici furono stupite “nessuno è mai
stato così veloce come lei” “il segreto è aver poca roba”.
Chiesi poi scusa ai medici e tutto si risolse. In fondo i medici ti
capiscono, anche se spesso si dimenticano che non è solo la medicina
a far star bene un paziente. Il cambio di stanza portò disguidi
anche nelle ordinazioni dei pasti. Ma poi non ebbi più
inconvenienti, a parte la tortura della flebo.
La nuova stanza era
comunque dotata di prese comode. In una attaccavo la pompa,
nell'altra il computer. Il bagno invece era più piccolo e scomodo e
dovevo fare un po' più fatica ad entrare. Tuttavia preferivo quella
stanza perché la finestra si affacciava sul cortile, da cui si
vedeva bene la collina. Sembrava una cartolina che cambiava colore
solo a seconda del tempo meteorologico e dell'ora. Infatti non si
vedevano persone, né auto, nulla che si muoveva. Ciò si intonava di
più con il mio stato d'animo. La mia vita sembrava in anestesia.
Ferma, svuotata di tutte le esperienze che aveva avuto, ma che
attendeva soltanto il risveglio per riprendere daccapo e farne di
nuove.
Esteriormente mi stavo
riempendo, la pancia cresceva, così come il mio peso, ma internamente mi
svuotavo. Non ero nulla e non mi importava di nulla tranne che quella
terapia servisse a far crescere la bimba. I medici mi vedevano
rifiorire: il mio colorito era più roseo e il mio aspetto migliore.
Ma dentro mi sentivo marcire. Ammazzavo il tempo. Non riuscivo a
leggere, né a scrivere. Dovevo solo prendere nota di ciò che
mangiavo, che ricopiavo dalla lista scritta ad ogni pasto che mi
portavano. Avrei potuto scrivere un romanzo in tutto quel tempo
trascorso, ma riuscii solo a scrivere questa frase “Tu crescevi e
nessuno si accorgeva di te. Dal momento in cui tutti han cominciato
ad osservarti, allora hai smesso di crescere.” Nemmeno guardare
film mi consolava: se erano comici non mi facevano ridere, se erano
drammatici mi facevano stare ancora peggio.
Quando arrivavano i
parenti delle mie compagne di stanza che avevano partorito, avrei
voluto infossarmi. E invece non potevo neanche uscire dalla camera.
Il corridoio era pieno di gente e non c'era un posto tranquillo dove
potermi sedere con accanto una presa di corrente elettrica. Ed allora
stavo a letto, ascoltando la musica, tutta coperta con le lenzuola
per non farmi vedere che piangevo. Piangevo perché mi sentivo
diversa, aliena a tutto quello, aliena alla vita e diversa perché
non avevo ancora tra le braccia la mia piccola.
Volevo stare isolata
perché l'isolamento è spesso un rifugio per non sentirsi diversi in
mezzo agli altri. Stare isolati non vuol dire necessariamente star da
soli. Infatti si può star isolati insieme a tante persone che
condividono la tua sensazione di diversità (ad esempio i ghetti di
persone immigrati in altri paesi). Penso che, a differenza di ciò
che si crede, tutti vivano isolati in gruppi, Anche la famiglia è
una sorta di isolamento. Pochi però riescono a star da soli, che è
diverso da stare isolati.
Purtroppo non potevo
permettermi di stare da sola e allora volevo stare isolata. Ero anche
isolata quando parlavo con le altre pazienti che
dovevano ancora partorire. Infatti avevamo in comune la
gravidanza,anche se la mia situazione era diversa. Una volta che
partorivano, invece nulla più ci accomunava.
Quando il mio
compagno veniva a trovarmi, non volevo che si fermasse troppo a
lungo. In primo luogo perché rispettavo il suo tempo. In secondo
luogo perché non permettevo che condividesse il mio isolamento.
Infatti lui faceva parte della mia vita e allora preferivo che
andasse a casa a preservare il luogo dove sarei ritornata a vivere
con lui e la bimba. Avrei gradito, al risveglio della mia
“anestesia”, ritrovare tutto nello stesso ordine e stato in cui
era prima del ricovero.
Dopo dieci giorni di
terapia mi fecero l'ecografia per valutarne i benefici. Ero contenta,
i risultati erano positivi: la bimba aveva ripreso a crescere.
Tuttavia c'era qualcos'altro che adesso allarmava i medici.
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