giovedì 19 marzo 2015

Anestesia

“Lei non ha nessun problema, né disturbo. Forse a volte ha la cattiva abitudine di scherzare col fuoco, ma sa benissimo quando e come smettere. Vedo che ci tiene molto a questa gravidanza”. “Certamente, farei qualsiasi cosa” e poi, pensai, cattive abitudini non significa mica cattive persone.” Pertanto non le prescrivo nessun tipo di psicofarmaco. L'avverto soltanto che il catetere venoso centrale potrebbe darle molto fastidio. Non credo invece che lei possa avere problemi di depressione. Semmai potrebbe sentirsi giù di morale, ma lei ha carattere”. Fu questa la conclusione dello psichiatra.

La soluzione che mi proposero per far crescere la bimba senza danneggiarmi lo stomaco fu quella della nutrizione parenterale, cioè della somministrazione di nutrimento per via endovenosa. In pratica però non si trattava di una normale flebo. Mi portarono nel reparto di anestesia e rianimazione e mi inserirono un catetere in una vena centrale. Partirono dal braccio e sentivo che trafficavano fino al livello del collo. L'inserimento non fu troppo doloroso, ma fu terribile sentire che manovravano con le mie vene e dicevano cose del tipo “ma così terrà?” “aggiustalo un po'” “accorcia di là” … Poi mi fecero una radiografia al torace per vedere se fosse ben posizionato. Dopo un ritocco, il catetere era apposto.

La terapia consisteva in 24 ore su 24 attaccata ad una pompa ad infusione. Per andare in bagno o muovermi un po', potevo staccare la presa dalla corrente, ma avevo un'autonomia di circa 20 minuti. Poi dovevo riattaccarmi.

Dipendevo completamente sia da una flebo che dalla corrente elettrica. Se muovevo troppo il braccio, cosa che succedeva spesso, la pompa si inceppava e dovevo chiedere assistenza.
Oltre a nutrirmi artificialmente, dovevo mangiare regolarmente. I primi giorni stetti un po' male: mi doleva il collo, sudavo, avevo mal di testa e dopo i pasti mi sentivo scoppiare. Poi mi abituai. Fare la doccia completa era impossibile. Mi lavavo a pezzi e per cambiarmi dovevo chiedere se mi staccassero un attimo dalla pompa.

La nutrizionista mi aveva sempre vietato di mangiare l'insalata per evitare il rischio della toxoplasmosi. Però non fece nessuna menzione delle potenziali infezioni mortali che avrei potuto prendere con il catetere né del rischi a cui potevo andar incontro. Se mi avesse danneggiato la vena, la mia vita sarebbe stato un caro ricordo per chi mi conosce. Ma non ci pensai. In questi casi bisogna solo fidarsi, ma fidarsi è bene, rompere è meglio. Gli anestesisti mi avevano detto che mi avrebbero cambiato la medicazione una volta alla settimana e nel reparto avrebbero dovuto farmi il lavaggio due volte al giorno. “Mi raccomando: se nel reparto si dimenticano, glielo ricordi lei.”
Devo confessare che ho dovuto stressare perché altrimenti mi avrebbero trascurato. In effetti capivo che quello non era un reparto dove quotidianamente avevano a che fare con quegli aggeggi. Inoltre bisogna riconoscere che il personale fa turni da 12 ore. Mi chiedo come possano reggere questi ritmi. Penso anche all'incoerenza di promuovere la salute, quando i medici, gli infermieri e operatori sono costretti a stili di vita poco salutari. Così come i nutrizionisti vietano assolutamente di saltare i pasti (ma loro come fanno a mangiare regolarmente con quegli orari?).

Il primo giorno che iniziai la terapia andai in crisi perché, dopo aver ispezionato nella stanza dove stavo quante prese c'erano e aver studiato come muovermi con quell'aggeggio, mi dissero che avrei dovuto cambiare collocazione. Mi avrebbero spostato in una camera con tre letti, anziché due come quella in cui ero. Mi sentii per qualche minuto desolata e smarrita. E purtroppo in quel momento entrarono i medici per la visita. Fui un po' scontrosa e subito accorse la psicologa. “Possibile che non si possa neanche piangere senza bisogno di chiamare la psicologa o di ricorrere a sedativi. A voi non capita mai?” Chiesi se potevo restare per un momento da sola. Poi in un attimo raccattai la mia roba e mi feci aiutare per portarla nell'altra stanza. Le operatrici furono stupite “nessuno è mai stato così veloce come lei” “il segreto è aver poca roba”. Chiesi poi scusa ai medici e tutto si risolse. In fondo i medici ti capiscono, anche se spesso si dimenticano che non è solo la medicina a far star bene un paziente. Il cambio di stanza portò disguidi anche nelle ordinazioni dei pasti. Ma poi non ebbi più inconvenienti, a parte la tortura della flebo.

La nuova stanza era comunque dotata di prese comode. In una attaccavo la pompa, nell'altra il computer. Il bagno invece era più piccolo e scomodo e dovevo fare un po' più fatica ad entrare. Tuttavia preferivo quella stanza perché la finestra si affacciava sul cortile, da cui si vedeva bene la collina. Sembrava una cartolina che cambiava colore solo a seconda del tempo meteorologico e dell'ora. Infatti non si vedevano persone, né auto, nulla che si muoveva. Ciò si intonava di più con il mio stato d'animo. La mia vita sembrava in anestesia. Ferma, svuotata di tutte le esperienze che aveva avuto, ma che attendeva soltanto il risveglio per riprendere daccapo e farne di nuove.

Esteriormente mi stavo riempendo, la pancia cresceva, così come il mio peso, ma internamente mi svuotavo. Non ero nulla e non mi importava di nulla tranne che quella terapia servisse a far crescere la bimba. I medici mi vedevano rifiorire: il mio colorito era più roseo e il mio aspetto migliore. Ma dentro mi sentivo marcire. Ammazzavo il tempo. Non riuscivo a leggere, né a scrivere. Dovevo solo prendere nota di ciò che mangiavo, che ricopiavo dalla lista scritta ad ogni pasto che mi portavano. Avrei potuto scrivere un romanzo in tutto quel tempo trascorso, ma riuscii solo a scrivere questa frase “Tu crescevi e nessuno si accorgeva di te. Dal momento in cui tutti han cominciato ad osservarti, allora hai smesso di crescere.” Nemmeno guardare film mi consolava: se erano comici non mi facevano ridere, se erano drammatici mi facevano stare ancora peggio.

Quando arrivavano i parenti delle mie compagne di stanza che avevano partorito, avrei voluto infossarmi. E invece non potevo neanche uscire dalla camera. Il corridoio era pieno di gente e non c'era un posto tranquillo dove potermi sedere con accanto una presa di corrente elettrica. Ed allora stavo a letto, ascoltando la musica, tutta coperta con le lenzuola per non farmi vedere che piangevo. Piangevo perché mi sentivo diversa, aliena a tutto quello, aliena alla vita e diversa perché non avevo ancora tra le braccia la mia piccola.

Volevo stare isolata perché l'isolamento è spesso un rifugio per non sentirsi diversi in mezzo agli altri. Stare isolati non vuol dire necessariamente star da soli. Infatti si può star isolati insieme a tante persone che condividono la tua sensazione di diversità (ad esempio i ghetti di persone immigrati in altri paesi). Penso che, a differenza di ciò che si crede, tutti vivano isolati in gruppi, Anche la famiglia è una sorta di isolamento. Pochi però riescono a star da soli, che è diverso da stare isolati.

Purtroppo non potevo permettermi di stare da sola e allora volevo stare isolata. Ero anche isolata quando parlavo con le altre pazienti che dovevano ancora partorire. Infatti avevamo in comune la gravidanza,anche se la mia situazione era diversa. Una volta che partorivano, invece nulla più ci accomunava.

Quando il mio compagno veniva a trovarmi, non volevo che si fermasse troppo a lungo. In primo luogo perché rispettavo il suo tempo. In secondo luogo perché non permettevo che condividesse il mio isolamento. Infatti lui faceva parte della mia vita e allora preferivo che andasse a casa a preservare il luogo dove sarei ritornata a vivere con lui e la bimba. Avrei gradito, al risveglio della mia “anestesia”, ritrovare tutto nello stesso ordine e stato in cui era prima del ricovero.

Dopo dieci giorni di terapia mi fecero l'ecografia per valutarne i benefici. Ero contenta, i risultati erano positivi: la bimba aveva ripreso a crescere. Tuttavia c'era qualcos'altro che adesso allarmava i medici.


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