Arrivammo portando la neve. Ma nulla fu scomodo o
disagevole. La casa temporanea che ci assegnarono era fantastica,
spaziosa. La cosa che più mi piaceva era la vista sul lago di
Zurigo. Anche mia figlia ne era affascinata. I primi giorni però la
piccola si sentì smarrita. Sulle strade svizzere era guardinga e non
voleva camminare. Ma sul passeggino non protestava e guardava
incuriosita. Poi si abituò, anche se fino a quando non consegnarono
le cose che ci portammo da casa si sentì confusa e nervosa. In
particolare non riusciva a mangiare in un seggiolone diverso dal suo.
Aspettammo circa dieci giorni per riaverlo, insieme a tutti i nostri
effetti personali. Ci fu infatti un malinteso con la compagnia del
trasloco.
Ma a parte questo, tutto filò liscio.
Il giorno seguente il nostro arrivo, avevamo
appuntamento con G. che ci accompagnò al comune a registrare il
nostro avvento. La pratica fu perfezionata da una “simpatica
tassa”, anche se edulcorata con l'invito alla festa di benvenuto
per tutti i nuovi arrivati nella città.
Fu utile la presenza di G.,
ma soprattutto la sua mediazione linguistica. Lei infatti parlava
inglese fluente, ma in molti uffici non tutti sono propensi a parlare
inglese, anche se in compenso tantissimi conoscono l'italiano. Tutti
i documenti, le lettere, le ricevute che ci diedero infatti erano
scritte in tedesco. Lo stesso giorno G. ci accompagnò in banca per
aprire un conto corrente. Ci fecero accomodare in una sala riunioni
confortevole, offrendoci caffè, cioccolatini e giochi per
intrattenere la bambina.
Tuttavia non mi sentii a disagio. In tutto questo
“lusso” c'era comunque informalità e nessun dress code, a parte
i banchieri. Apprezzai il fatto che G. venne a prenderci non con auto
privata, ma con auto del servizio “car sharing.” Non parcheggiò
davanti la banca per non farci bagnare sotto la neve, ma, dopo aver
trovato parcheggio, scendemmo tutti a piedi senza ombrello sotto la
neve e lei non disse nulla che una donna tipica italiana avrebbe
potuto dire “Oh ma la piccola si prenderà sicuramente un
raffreddore”, anche se facemmo soltanto non più di cinquanta metri
senza ripararci. Poi fu divertente quando G. rovesciò il caffè di
fronte al consulente bancario, distratta dalla bimba che, non reggeva
più di star lì dentro e si stava abbassando i pantaloni.
Non mi stupirebbe poi se quel caffè
fosse stato equo solidale, visto che in questo paese l'etica sociale
e ambientale sono molto più sentite, a scapito dei prezzi
naturalmente.
In seguito partecipammo ad una festa a casa del
responsabile dell'ufficio dove lavora il mio compagno. Nulla di
formale. Catering in grossa parte autoprodotto, casual dress code, ma
soprattutto niente scarpe.
E ora veniamo ad una riflessione che balenò in quei
giorni e che si estrinsecò in una domanda posta al mio compagno:
“Scusa, ma in cambio di tutti questi servizi e benefit, cosa ti
chiederanno? Non è che c'è qualche postilla strana o devi fermarti
a lavorare anche di notte?”.
No. Quando iniziò a lavorare scoprimmo che non c'era
nessuna richiesta strana o “antifamiliare”. In questo paese non
sfruttano la gente, anche se non regalano nulla in cambio e se non
sei produttivo però possono licenziarti senza problemi. In altri
termini, a stipendio dignitoso deve corrispondere anche lavoro svolto
dignitosamente. Trovare casa e ambientarci non sarebbe stato semplice
e veloce senza aiuto. Pertanto se si tiene all'efficienza e alla
produttività dei lavoratori, un'azienda dovrebbe favorirle. E in
concreto offrirci aiuto per la nostra sistemazione ne era un esempio
di promozione. E poi tutte quelle distinzioni di trattamento dei
dipendenti “alla Fantozzi”, a seconda del grado e della gerarchia
aziendale occupata, qui non esistono. Pertanto ricevemmo lo stesso
trattamento, o quasi, che ricevette il suo capo a sua volta quando si
trasferì. Inoltre l'azienda è un ambiente internazionale dove si
parla inglese.
Potevamo stare nella casa assegnataci, a loro spese,
non più di due mesi. Era incluso nel gratis anche un servizio di
pulizia ogni due settimane.
Cercammo quindi casa definitiva. G. ci proponeva
annunci e se ci convincevano organizzava per noi una visita
all'appartamento e ci accompagnava. La procedura per trovare casa qui
è piuttosto complessa. Visiti una casa, se ti piace compili un
foglio dove ti fanno l'interrogatorio sui tuoi mezzi di
sostentamento, chiedendo garanzie e referenze. Riveli un sacco di
informazioni a perfetti sconosciuti e poi attendi che ti scelgano tra
un mazzo di altri candidati. Un po' come cercare lavoro in Italia. Solo che qui
a differenza i soldi non te li danno, ma te li chiedono. E quanti.
(Non voglio essere volgare, ma qui per un appartamento il minimo che
si può spendere al mese è sui 1500 o 2000 franchi per una
famiglia). Qui le case sono possedute in maggior parte da grandi
aziende e gestite da agenzie. Poche persone possiedono la casa dove
vivono.
Noi siamo stati fortunati a trovare casa rapidamente.
Fu durante la terza visita, a seguito di un annuncio da me trovato,
che vidi per la prima volta Schwanden, nella sua lucente verzura, e
capii che quello era il posto che cercavo e dove avrei voluto vivere.
Fu l'unico appartamento a cui mandammo la richiesta e l'accolsero
subito rapidamente. G. compilò per noi tutte le informazioni e
chiese le referenze al datore di lavoro del mio compagno. Il cambiamento di residenza, seppur nella stessa città, comportò il pagamento di un'altra simpatica tassa, anche se ridotta e stavolta senza festa.
E così, ci trasferimmo vicino al bosco.
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