“Schwanden, tornando
al discorso sulle tre dimensioni dell'amore descritte da Osho e la
nostra relazione, se devo essere sincera, non è sempre stato tre,
cioè non siamo sempre stati in sintonia.
All'inizio sicuramente
era un'anima in due corpi. L'avevo raccontato già il nostro incontro
e non ne riparlerò. Andavamo all'università insieme. Eravamo sempre
uno accanto all'altra. Sempre vicini, anche durante le lezioni. Non
potevo chiedere altro: eravamo l'uno per l'altra, in ogni aspetto. Ma
era come un limbo, una magia accademica. Avevamo un obiettivo comune:
laurearci, anche se lo portammo a termine in maniera piuttosto
indipendente. Infatti ognuno studiava per conto suo, con i suoi ritmi
e alla propria maniera. Io studiavo di più perché non avevo il suo
talento naturale per le materie quantitative e perché avevo bisogno
di rivedere le cose una volta in più affinché mi sentissi più
sicura. Mi laureai quasi un anno prima però. Raggiungemmo entrambi
lo stesso risultato, ma con fatiche diverse. Quando finii
l'università, come ho già raccontato, ebbi una crisi e giunsi alla
conclusione che il trinomio competizione, carriera, capital gain non
era nella mia algebra, e quindi difficilmente avrei sfruttato con
profitto la mia laurea. Non che tale trinomio fosse di grado elevato
nella sua, ma erano concetti che lui sentiva. E perciò cominciai a
sentir meno la sintonia. Infatti lui trovò subito lavoro a tempo
indeterminato. Io lavorai qualche mese per poi rifugiarmi nel
dottorato. Nel frattempo andammo ad abitare insieme e via via la
nostra relazione passò dalla terza alla seconda dimensione.
Ci
allontanammo, lui parlava di famiglia io di farfalle. Inseguivo le
mie ricerche, poi lui le sue. Realizzammo che non era possibile
trovare un compromesso tra noi. Le nostre indipendenze non si
incontravano. Lasciò il lavoro per un dottorato a Londra. Io non lo
seguii. Avevo avuto i miei problemi. Ma Schwanden, la storia l'ho già
raccontata … Mi resi conto che ero stata una sciocca: perdere una
relazione per non limitare la mia indipendenza. Lo raggiunsi a
Londra. Ci ri-sintonizzammo, ma non più come all'esordio. Io ero ben
conscia dei miei interessi, valori, obiettivi e questi andavano in
disaccordo con i suoi. Ma stavolta gli venivo incontro. Stavolta non
bocciavo l'idea di un figlio, anche se in fondo ero scettica.
Tornammo in Italia. Lui riprese il suo lavoro. Io tentai la mia
strada e mi impegnai in diverse attività che a lui non interessavano
minimamente. Ma ero entusiasta perché seguivo i miei interessi e
valori. Andammo avanti. La speranza di un figlio era il compromesso
alle nostre libertà.
Quindi non posso dire che precipitammo
nuovamente nella seconda dimensione, ma il mio distacco ideologico
sempre più forte (e sempre più fortemente orientato alla
cooperazione e all'”anticapitalismo”) mi impediva di stabilire
una sincronia “spirituale”. Poi credetti di non poter procreare.
Non c'erano le condizioni fisiche. Ero debilitata. Stavo ancora male
per quell'intervento che mi aveva buttato giù e che aveva minacciano
la mia positività e l'entusiasmo di poter costruire qualcosa in un
paese che decisi di lasciare di nuovo. Ma poi finalmente trovai il
lavoro che cercavo e, a mia insaputa la bimba. La bimba se da una
parte ha impedito un possibile ritorno alla seconda dimensione, e
quindi forse una conseguente rottura, dall'altra ha forzato la
relazione verso la prima dimensione.
Si, Schwanden, hai capito bene.
Il fatto di dover impiegare il tempo “child-free” tra cucina,
pulizie, commissioni e visite d'obbligo, in certi momenti mi ha fatto
quasi vedere la relazione come un inferno e lo stare insieme tra noi
quasi come un'imposizione, come le pulizie, e non un atto troppo
naturale. Perché? Perché avevo bisogno del mio spazio, dei miei
interessi che non potevo coltivare e non mi sentivo più la persona
di prima, ma soprattutto mi mancava il suo appoggio. In settimana mi
sentivo in un cluster con mia figlia ed ero serena. Ma al fine
settimana, forzatamente mi ritrovavo in un cluster da sola, costretta
a dover trascorrere il mio poco tempo con persone tra cui non c'è
nessun “feeling”. Mi sentivo in gabbia. La nostra relazione
rischiava di trasformarsi in un rapporto di convenienza, atto a
tutelare la bimba. Ma io non avrei retto, Schwanden lo sai. Ebbi
persino una sorta di “gravidanza isterica”. Schwanden, seriamente
in certi momenti ho pensato di troncare. L'esempio peggiore che
possiamo dare a un figlio è un genitore depresso o isterico a causa
del legame familiare. Schwanden, lo avrei impedito. Ma per fortuna
che mi ha (o meglio ci ha) salvato l'espatrio. Ora stiamo bene.
Eppure Schwanden sono convinta che tutte queste transizioni,
accompagnate da diverse fasi personali della vita, siano del tutto
fisiologiche, normali per una coppia. Schwanden, in realtà il
sentimento, l'amore non cambia (tra noi non è mai cambiato), ma
cambiano i contesti, cambiano le situazioni che ci consentono di
esprimerlo e che possono inficiarne la sua manifestazione,
impedendo di raggiungerne la vera dimensione. Così come i ruoli che
si creano ci allontanano da ciò che vorremmo esprimere veramente.
Più ci stacchiamo da essi, da etichette, impegni, contingenze e più
ci avviciniamo ai veri sentimenti e quindi all'amore.
Il segreto è
cercare di non rimanere intrappolati nelle convenzioni, nella routine
e nei ruoli. Anche per questo ho preferito rimanessimo una coppia di fatto, senza sposarci. Per fare un altro esempio, cito Ligabue, raccomandando(mi) di stare lontano dallo
schema: “il sabato la spesa, il giorno dopo in chiesa” (che io
adatto con il giorno dopo i “suoceri”).
Schwanden, era una
questione troppo importante per essere celata. Ma chiudo l'argomento.
Devo parlare di questioni più propriamente elvetiche.”
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