Dopo 23 giorni, cioè 552 ore, senza uscire all'aria
aperta, mi sembrava strano camminare per strada. Dopo le dimissioni,
passai a casa e poi ritornai all'ospedale dalla bimba. La ferita del cesareo minacciava, ma presto la mia
indifferenza nei suoi confronti la rese innocua.
Arrivavo alla T.I.N.O. (terapia intensiva neonatale
ospedaliera) sempre qualche minuto prima dell'orario in cui erano
ammessi i genitori. Passavo al bagno dell'ospedale e mi cambiavo.
Dovevo indossare o il camice verde usa e getta che fornivano o una
maglia/vestito bianca personale diversa dall'indumento con cui
arrivavo da fuori. Per evitare sprechi, mi portavo il “camice” da
casa. All'ingresso, depositavo borse e giacca nell'armadietto
apposito, indossavo i calzari usa e getta che fornivano, mi lavavo
accuratamente le mani con l'antibatterico. Queste erano le regole
igieniche per essere ammessi. Per fortuna la bimba non era così
delicata da richiedere di indossare la mascherina e la cuffietta. Poi
guardavo sempre le foto, appese alla bacheca, dei bambini che erano
stati lì. Alcuni pesavano alla nascita ancora meno di lei ed erano
poi cresciuti bene e sani. Le foto mi davano speranza. Non credevo
ancora che un giorno sarebbe venuta a casa e che l'avrei cresciuta
io, anche se non c'erano ragioni per pensare diversamente.
Indipendentemente dalla situazione, il fatto di trovarsi in terapia
intensiva è un'esperienza inquietante. Pur essendo discreta nei
confronti degli altri bambini, mi capitava di vedere gravi problemi
di respirazione, problemi neurologici, digestivi … E il fatto che la
bimba condividesse lo spazio con bambini critici ti faceva credere
che potesse condividerne anche i dolori, così come ti faceva
condividere le paure degli altri genitori. Eppure io ero felice
quando la vedevo e felice tornavo a casa perché un altro giorno era
passato e lei cresceva. Purtroppo però ero isolata nella mia
felicità perché spesso vedevo mamme piangere e avrei voluto far
qualcosa per loro. Quasi mi sentivo egoista ad essere così contenta
in un ambiente così triste. Ma poi pensavo che in fondo era lei nel
posto sbagliato, così come io ero stata ricoverata in un reparto non
adatto, anche se poi avevo ricevuto tutte le cure e attenzioni di cui
necessitavo. E così anche lei era seguita molto bene. Mi fidavo dei
medici. Vivevo alla giornata e non chiedevo mai quando l'avrebbero
dimessa. Dipendeva soltanto da lei e stressare il personale sarebbe
stato nocivo per tutti.
Arrivavo alla sua incubatrice. Sbirciavo dalla
tendina e sorridevo apertamente a quella creatura. Poi aprivo la
porticina e infilavo la mano per toccarla. Se era sveglia mi guardava
con quegli occhioni. Ed io mi illuminavo. Se dormiva, la illuminavo
con lo sguardo. In ogni caso, la mia mano le dava conforto e calore
che l'incubatrice non poteva darle. Non mi sentivo una vera madre
perché non avevo libertà di prenderla in braccio quando volevo, di
cambiarla quando ritenevo necessario, di nutrirla quando lei voleva.
Dovevo aspettare gli orari dei pasti e per fare ogni cosa dovevo
chiedere il permesso. “Posso prenderla in braccio.” E
l'infermiera di riferimento me la tirava fuori dall'incubatrice.
Dovevo stare attenta a non tirare i cavi della flebo o dei sensori.
Se la sentivo piangere prima dei pasti, di norma non potevo chiedere
il biberon o provare ad attaccarla al seno. Dovevo aspettare, anche
se chiedevo sempre di poter anticipare e quasi sempre, se non erano
troppo occupati, mi davano ascolto. Prima di attaccarla al seno
dovevo chiedere di fare la “doppia pesata” ossia la
verifica del peso prima e dopo la poppata, per vedere quanto latte
aveva bevuto.
Erano informazioni che registravano in cartella.
All'inizio notai qualche resistenza ogni volta che chiedevo di
attaccarla al seno “ma è troppo piccola. Non riesce a succhiare.”
In effetti a volte era difficile persino darle il biberon. Solo una
volta le misero il sondino e fu l'unica volta che piansi. Poi mangiò
senza problemi. Però al seno succhiava poco e prendeva poco. Non
potevo tenerla attaccata per più di mezz'ora perché bisognava
rispettare l'orario del pasto. Infatti, qualora non avesse mangiato a
sufficienza, bisognava integrare col latte artificiale. Lei sembrava
volesse stare attaccata molto di più. Forse non aveva fame, ma
cercava conforto e poi si assopiva. E con l'esperienza avrei
detto che probabilmente, se avesse succhiato a richiesta e senza
orari, non ci sarebbero stati problemi, anche se in effetti era
ancora un po' piccola.
Alla fine, vista la mia insistenza nel tentare
l'allattamento al seno, le infermiere mi vennero tutte incontro.
Cercarono di fare il possibile per farmi sentire meno a disagio, dato
che dovevo allattare in uno spazio stretto con sottofondo di suoni di
macchinari e voci interrotte che distraevano la bambina. Mi
procuravano comodi cuscini e cercavano di non mettermi fretta. “Se
vede che la bimba non succhia però le consiglio di andare a tirarsi
il latte. In ogni caso, stimoli il seno ogni tre-quattro ore.” Però
di fatto era difficile gestire la situazione con gli orari e con il
fatto che non volevo passare tutto il giorno lì dentro, senza poter
tenerla in braccio.
Pertanto, per essere sicura di darle il mio
latte, spesso mi trovavo costretta a scegliere tra tirarmelo subito e
darglielo col biberon o tentare di allattarla direttamente. E' un po'
come se a un uomo venisse detto “scegli se fecondare tramite
relazione o con aggeggi per estrazione e poi introduzione.” Cosa
fareste? In quel momento per me contava molto di più la relazione
che il semplice nutrimento, visto che avrebbero comunque provveduto
artificialmente. Pertanto tentavo di allattarla anche con il rischio
di non riuscire ad avere il tempo per estrarre tutto il latte. A casa
non avevo il tiralatte e non lo comprai subito perché ero stanca di
raccogliere dopo essere stata tutto il giorno in ospedale, ma
soprattutto non avevo la motivazione. Mi sembrava davvero solo
"masturbazione" dopo un'intensa giornata di “approcci”, dal momento
che ti dicevano pure “a casa si rilassi e usi una foto della bimba
per migliorare la performance”. Inoltre ciò che raccoglievo a casa,
doveva prima essere depositato alla banca del latte.
Alla TINO al
massimo riuscivo a raccogliere 20-30 ml a volta. Depositavo il tutto
in un contenitore sterile sul quale scrivevo il nome della
bimba, la data e l'ora. Purtroppo non potevo evitare di notare il "raccolto"
di altre madri. Sui loro contenuti avrei scritto “più giorni” e
non perché il mio latte durava di più, ma perché ci avrei
impiegato più giorni a raccogliere quelle quantità. “Signora, non importa: tutto quello che riesce a dare, anche se poco, è
prezioso” mi incoraggiavano le infermiere Ed allora io mi sentivo
sollevata. E raccoglievo il più possibile. E se anche la bimba
succhiava poco al seno, ero contenta.
Le infermiere apprezzarono la
mia determinazione e la costanza con la quale approcciavo
l'allattamento, anche se difficoltoso. “Possiamo farle una foto? La
mostreremo ai seminari come esempio che allattare alla TINO è
possibile. E poi la sua dolcezza, il modo in cui guarda e sorride
alla sua piccola ... Si vede proprio che la bimba si sente in pace
con lei. E le sorride già”. Ero soddisfatta che qualcuno mi
apprezzava e non mi giudicava solo dal latte che producevo. Ciò mi
faceva sentire più madre e meno impotente. Devo ammettere che non
tutte le infermiere erano empatiche. Una mi smontò una volta, dopo
la “doppia pesata.” “Ma signora è la bimba che non succhia o è
lei che non ha latte?” Comunque cercai di non badarci. In fondo
lavorare lì dentro è stressante.
Quando la bimba raggiunse il peso di 1600 g, fu
spostata dall'incubatrice in una culla normale nell'altro lato
dell'open space. L'ultima fase fu la migliore, ma vedevo che lei era
sempre più curiosa del mondo esterno e non ne poteva più di star
lì.
Quando raggiunse 1800 g scarsi, fu dimessa. La
portammo a casa in autobus. Solo da quel
momento dissi a tutti i conoscenti che ero diventata
madre.
Prima infatti ero spaventata e non riuscivo a
parlarne, se non con pochissime persone.
Stette 23 giorni e mezzo
(circa 560 ore). “Continui con
allattamento ad orari” mi fu suggerito al momento della dimissione
“ed aumenti le dosi di latte ogni 2-3 giorni.” Fu quella la
condanna. Di fatto la mia libertà era ancora condizionata.