Non ho paura di sbagliare, non ho paura
di perdere, non ho paura di dover rinunciare a cio' che ho, non ho
paura del futuro, non ho paura del presente e neanche del passato,
non ho piu' paura dei parenti, non ho paura di cio' che non posso
controllare e neanche di non saper controllare cio' che posso
controllare, non ho paura del giudizio degli altri e neanche del mio.
Non ho paura di nulla.
Ma sono davvero cosi' coraggiosa?
Forse, piu' che coraggio, e' consapevolezza.
Consapevolezza che nulla realmente mi
appartiene, se non l'idea di possedere qualcosa. Si puo' vivere con
la convinzione che la propria vita abbia un unico obiettivo, da noi
definito per scelta o imposizione. Se per causa di forza maggiore non
riuscissimo a raggiungerlo, la prima sensazione sarebbe la
disperazione, dovuta al crollo di cio' che avevamo definito “senso
della nostra vita”. Ma se si riflette, si giunge alla conclusione
che si ha soltanto perso l'idea di raggiungere quell'obiettivo e se
si immagina qualcos'altro allora la vita puo' prendere un'altra
direzione.
Il senso della vita non esiste, ma
esiste il senso della nostra vita perche' siamo noi a definirlo. E se
tale definizione dipende da noi, allora solo noi siamo in grado di
cambiarla se ci impedisce di andare avanti.
Spesso si pensa di possedere anche le
persone e pertanto si diventa gelosi o, nel caso di una madre,
iperprotettivi. A volte, per disgrazia oppure perche' la loro vita
segue un altro percorso, le persone care ci lasciano. E non c'e'
altro modo che accettare il fatto di non possedere piu' l'idea di
stare sempre al loro fianco e se quello era cio' che pensavamo fosse
il senso della nostra vita, allora soltanto il definirne un altro ci
puo' aiutare a sopravvivere.
Non si possiede neanche la propria
vita, ma soltanto l'idea di essa e la prospettiva di una vita
sofferente e' insostenibile e sta a noi trasformarla in una
accettabile.
Quando i medici mi fecero temere di
avere la sclerosi multipla tutto sembro' crollarmi addosso. Non
riuscivo ad immaginare la mia vita senza poter soddisfare il mio
perfezionismo, la mia ambizione di eccellere e, soprattutto, la mia
presunzione di essere autosufficiente. Poi, riflettendoci, una vita
diversa sarebbe stata possibile: sarebbe bastato soltanto cambiare
idea. Smentita la possibilita' di una malattia, cambiai lo stesso. Il
mio punto di vista da allora e' simile a quello che avevo quando ero
ragazzina, quando vivevo usando il mio talento naturale senza
contaminarlo con il pragmatismo, senza l'idea di possederlo
gelosamente, senza sfruttarlo per soddisfare la mia idea di vittoria.
In fondo cosa significa vincere e cosa
perdere?
Mi sentii vincente quando ottenni la
laurea, quando trovai il mio primo impiego, quando arrivai in prima
posizione in graduatoria per avere la borsa di studio al dottorato di
ricerca, quando trovai lavoro come ricercatrice in epidemiologia e
quando mi assunsero qui a Londra. Ma in fondo non si possiede la
vittoria, ma soltanto l'idea di essa, idea che in molti casi svani'
presto, una volta che la situazione si mostro' diversa dalle mie
aspettative.
E allora perche' si ha paura di perdere
quando vittoria o sconfitta dipendono soltanto dalle nostre idee?
Forse sono le idee a spaventarci: si ha paura a sostenerle o a
cambiarle e, di conseguenza, a vivere con esse e poi doverle
abbandonare. Ma se non le sosteniamo, le perdiamo comunque.
Soltanto dopo aver ottenuto i miei
traguardi potei considerare quasi ridicola la presunzione che avevo
in passato di poter possedere la mia vita incanalandola in obiettivi
ben delimitati. Da ragazzina e bambina invece possedevo soltanto
l'idea di poter fare qualsiasi cosa e di poter diventare chiunque. La
mia visione attuale e' molto simile a quest'ultima: diversificare,
anziche' concentrare le energie in un'unica attivita', vivere alla
giornata, mettendo alla prova giorno per giorno il mio talento, senza
preoccuparmi del risultato, ma non per questo non essere produttiva.
Anni fa avrei pensato che vivere in
questa maniera fosse da perdigiorno, da immaturi, da persone che non
hanno le idee chiare sulla loro strada e, soprattutto, che non
possiedono l'”idea dominante”, quella che prevale sulle altre,
quella che non si pone in discussione e che e' aliena ad ogni domanda
esistenziale.
Ma riusciro' a trovarla? Mi imbattero'
in un cammino che una volta raggiunto fino in fondo non mi renda
curiosa di tornare indietro e di vedere cosa c'e' nelle altre
direzioni? Mi illudevo di averlo trovato, anche spinta dall'angoscia
di vivere senza trovarlo.
Adesso pero' non ho piu' paura di
vivere senza possederne l'idea, ma neanche di vivere possedendola e
non abbandonandola. Vivere senza paura e senza meta puo' essere
l'approccio ideale per trovare l'idea dominante.
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