E mi sento “appesa”, formalmente
legata ancora all'attuale contratto di lavoro, ma di fatto gia'
inoccupata.
L'importante e' finire, concentrarsi
sul lavoro da portare a termine, senza poterne iniziare uno nuovo. Il
capo gia' di fatto non mi considera piu' come sua dipendente: non si
preoccupa se vengo in ufficio o se lavoro da casa, se partecipo alle
riunioni o meno.
D'altro canto, non posso giustificare
la mia assenza, ma nemmeno dimostrare la mia presenza.
E resto immobile, nel dubbio.
Certamente la ricerca nell'unita' di
terapia intensiva dell'ospedale andra' avanti, quando me ne saro'
andata. E allora, qual e' stato il mio contributo?
Ho portato a termine degli studi che
dovrebbero essere pubblicati. Ma il mio scetticismo e il mio distacco
dal lavoro svalutano, o addirittura annullano, il valore aggiunto
frutto di tale esperienza.
Mi sembra di non aver contribuito
soltanto perche' non ho realizzato le mie aspettative, pur avendo
esaudito le richieste del capo. E le mie aspettative vanno oltre le
prestazioni professionali.
Torno in Italia essenzialmente per
riprendermi la mia vita e per poter anche trascorrere il mio tempo
con gli amici, che mi mancano parecchio. Torno in Italia per poter
riprendere cio' che i miei obiettivi scolastici, e in seguito le mie
disgrazie familiari, hanno distrutto: la mia predisposizione a voler
aiutare gli altri e a voler collaborare per migliorare la societa' e
non soltanto per ottenere riconoscimenti personali e titoli.
Infatti mi sembra di possedere soltanto
titoli, sebbene ottenuti con sacrificio e determinazione. Ma il
sacrificio non aggiunge valore al risultato, al contrario di cio' che
credevo in passato. Il sacrificio, cosi' come la devozione,
costituiscono soltanto il prezzo pagato per ottenere i risultati, ma
non aggiungono valore a cio' che si possiede.
Che ne e' rimasto del mio perfezionismo
negli studi? Soltanto il ricordo del riconoscimento e dei complimenti
ricevuti dai docenti. Ma una volta che il prezzo e' gia stato pagato
e il corrispettivo ricevuto, rimane il valore che attribuiamo a cio'
che possediamo.
Ed e' per questo che adesso ho la
sensazione di avere soltanto un titolo di studio, privo di qualsiasi
altro valore da me riconosciuto. Un titolo che spesso non mi consente
di ottenere soddisfazione dal mio lavoro e di esprimere la mia
personalita'. Un titolo, di cui dubito la professionalita'. Un titolo
che invece i miei ex compagni di studi universitari, seppur taluni
con una votazione inferiore alla mia, hanno saputo valorizzare. Ho
voluto ottenere quel titolo perche' presentava vantaggi competitivi
sul mondo del lavoro. Ma trascuravo il fatto che tale vantaggio si
annulla se non si sfruttano le occasioni per usufruirne. Quindi serve
a poco studiare per avere piu' possibilita' professionali se poi
quelle opportunita' non si sfruttano, per predisposizione o per
mancanza di interesse.
E resto nel dubbio se riusciro' a
trovare un impiego che oltre al mio titolo sfrutti anche le capacita'
che voglio sfruttare. Le seconde sono piu' importanti delle prime per
ottenere soddisfazione personale. Ma l'importante e' iniziare,
iniziare una nuova carriera, e forse una nuova vita, muovendosi nella
direzione della novita', uscendo, anche solo temporaneamente dal
dubbio, dal buio, dall'incognito che seduce, ma trascina
nell'ignoranza, rendendoci inermi, inflessibili, incapaci di prendere
alcuna decisione.
Ma ancora per tre settimane saro'
appesa alla vita londinese che, dopo aver ottenuto una casa, un
lavoro, un conto in banca, e' stata imperniata sull'attesa.
Attesa
per iniziare a lavorare, attesa per i dati da analizzare, attesa per
concludere un lavoro di fatto per me gia' concluso. Attesa, perche' la cultura inglese e'
basata sulle attese: file allo sportello, nei negozi, nei locali,
alle fermate del bus, ovunque. Attese, per evitare di lottare per
ottenere.
Ma io preferisco lottare per
conquistare, piuttosto che aspettare il mio turno affinche' cio' che
desidero arrivi da me.
Anche l'attesa, come il dubbio, paralizza. Finche' rimarro' nella “filosofia del dubbio” e
nell'attesa, saro' immobile, non potro' far progressi nel pensiero e
nel movimento: un sasso a riva, che aspetta l'onda per essere portato
via.
Banksy Graffiti Bristol |
"To choose doubt as a philosophy of life is akin to choosing immobility as a means of transportation." Yann Martel - Life of Pi
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