domenica 27 novembre 2011

La legge della curva

Da bambina mi chiedevo sempre se fosse possibile prevedere il futuro. Mia madre credeva in ogni espediente: sogni premonitori, chiaroveggenze, oroscopi ed era convinta di avere il cosiddetto "sesto senso". Mi aveva influenzato e di conseguenza anche io pensavo di possederlo e percio' prestavo sempre attenzione a cio' che sognavo la notte precedente, ai presagi ... Molto spesso cio' che pensavo o temevo accadeva, facendomi sentire in colpa per non avere agito tempestivamente al fine di evitarlo.
Mio padre non credeva in nulla che non potesse essere dimostrato razionalmente o scientificamente. Riguardo alla religione, pensava che la fede aiutasse a vivere meglio e quindi a non deprimersi. Questa era la sua spiegazione razionale per accettare l'esistenza di Dio, pur non essendone fermo sostenitore. Pero' considerava i sogni e le premonizioni puramente coincidenze senza nessuna relazione di causa ed effetto con l'evento. Prevalse la sua teoria, sulla visione di mia madre. Pensai che la mia vita sarebbe stata migliore e piu' rilassata se avessi ignorato tutti i presagi irrazionali che mia madre manifestava e che non giustificavano alcuna azione preventiva contro l'evento temuto, poiche' le sue ansie, non avevano nessuna motivazione razionale.
Pero' poter prevedere il futuro e' una questione che mi ha sempre affascinato. E se con le premonizioni non sarei stata credibile all'esterno, ne' tantomeno a mio padre, allora tentai usando la ragione.
E percio' cominciai ad interessarmi ai modelli matematici volti a prevedere il futuro, anche se dovetti accontentarmi di applicazioni riguardanti l'andamento dei mercati finanziari, l'evolversi di un fenomeno demografico o la diffusione di una certa malattia. E pensai che la formazione matematica mi avrebbe consentito di studiare, in maniera analoga, la "legge della curva" della mia vita, ossia la funzione analitica che la descriva quantitativamente per cercarne di prevedere le perdite e i profitti e gli interventi, rispettivamente, per evitarle o incrementarli.
In effetti teoricamente e' molto piu' facile prevedere il proprio futuro che quello dei mercati perche' si dispone di informazioni corrette e veritiere sulla propria personalita', sul modo di reagire agli eventi, sui nostri desideri. Se fossimo in grado di analizzarle razionalmente, evitando approssimazioni a modelli distaccati dalla nostra individualita', potremmo riuscirci. Spesso ho usato quest'approccio, anche se non formalizzando la legge della curva mediante alcuna funzione matematica o con nessun modello astratto, ma cercando di capire il mio modello, il mio schema prescindendo dal luogo comune ed evitando di inquadrare la mia curva in un insieme di traiettorie che seguono soltanto l'andamento sociale.
Finora ho sempre previsto la strada ottimale, migliore condizionatamente alle informazioni che possedevo. Forse se adesso rivalutassi l'albero delle decisioni che ho percorso, realizzerei che le mie scelte non sono state ottimali. Ma all'epoca lo erano perche' possedevo meno informazioni di quelle che possiedo ora e valutavo le mie possibilita' di "vincita" con altri parametri perche' ragionavo in maniera diversa, perseguendo altri obiettivi. Se osservo la mia curva, vedo che spesso, laddove c'e' stato un guadagno in termini economici, c'e' stata una perdita in termini di generosita' o di saggezza. E invece dove poi ho avuto una perdita in termini economici, spesso c'e' stato un guadagno in termini di esperienza, di cultura e soprattutto di saggezza.
Pertanto e' veramente complicato descrivere la legge della curva perche' diverse variabili la determinano. Con gli anni ho capito che il mio "sesto senso" si spiega con la mia sensibilita', la mia perspicacia, il mio intuito e la mia capacita' di immaginazione. Nessun demonio, nessun santo ad influenzarne l'andamento, ma effetti casuali che non si riesce a controllare.
E purtroppo per questi dobbiamo usare dei modelli astratti, delle approssimazioni che spesso rendono la curva particolarmente irregolare, in modo tale da confondere, da rendere impossibile l'isolamento dei fattori che invece possiamo controllare (le cosiddette "variabili endogene"). Spesso di fatto si tende a descrivere la legge della curva soltanto con "variabili esogene", con il caos che non possiamo controllare, evitando la complessita' di considerare tutte le informazioni che possediamo per accontentarci di semplificazioni dettate dal luogo comune.
E cosi' come evitare il luogo comune ci consente di poter descrivere e capire la legge della nostra curva, cercare di descrivere nella maniera piu' accurata e trasparente possibile le informazioni in nostro possesso ci consente di poter capire e prevedere l'andamento dei mercati finanziari o dei fenomeni epidemiologici, demografici o sociali.
Il motivo per cui spesso i modelli usati per descrivere la realta' non sono accurati consiste nell'uso di informazioni incomplete, superficiali, obsolete o addirittura inesatte. Forse e' anche questa la ragione per la mia perdita di interesse nella matematica e di fede nel suo potere di descrivere cio' che ci circonda.
Essere matematici applicati spesso vuol dire limitarsi a descrivere la realta' o in maniera troppo astratta oppure seguendo le tendenze attuali, imposte dai canoni di ricerca in voga. In altri termini, essere matematici significa o descrivere il mondo estraniandosi oppure attraverso il luogo comune, anche se elitario. Ma in ogni caso non si analizzano le informazioni in maniera completa.
Nel primo caso c'e' un rifiuto nei confronti della societa' ed una rinuncia a descriverla perche' l'isolamento non consente di possedere tali informazioni. Nel secondo caso invece c'e' omerta' nei confronti dei modelli esistenti e tendenza a voler semplificare o approssimare per poter ottenere dei risultati. Pertanto in entrambi i casi si commettono errori dovuti all'inadeguatezza dei modelli alla realta' e cio' puo' causare perdite economiche, sociali oppure di conoscenza.
L'errore e' analogo a quello che commetterebbe l'individuo se prendesse le decisioni riguardo alla sua vita o ragionando in termini astratti oppure ragionando con le regole dettate dal luogo comune.
Quali persone incontrero' o rincontrero' inaspettatamente? Che direzione seguira' la mia carriera? Mi radichero' definitivamente o ritornero' a fare la "nomade"? E' tutto gia' determinato, ma non si possiedono abbastanza informazioni sugli eventi futuri oppure e' tutto dovuto al caso, alle coincidenze?
La mia vita e' gia' segnata nel nascere ed io la scopro pian piano oppure prende forma istante per istante? Entrambe le filosofie possono essere giustificate perche' entrambe sono espedienti per giustificare l'ignoranza dovuta all'incertezza e alla mancanza di informazioni sul futuro.
Anni fa ero ossessionata dal voler prevedere e controllare tutto, dal voler influenzare la legge della curva in modo tale da identificarmi con essa. Il mio approccio e' cambiato: il caos e la casualita' non mi spaventano piu' e quindi lascio loro la liberta' di esprimersi. Forse e' l'unico modo per poterli osservare e in un certo senso controllare, moderandone gli effetti negativi e devastanti che la loro repressione comporterebbe nella mia vita.
Il mio intuito mi suggerisce che rivedro' alcune persone o alcuni luoghi, anche se adesso non riesco ad immaginare come cio' possa accadere. Quest'elemento di casualita' rende piu' interessante la mia vita, aggiungendo curiosita' che la mera previsione annienterebbe.
In fondo dubito sempre che la matematica sia il mio mestiere. 

La mia non e' una critica negativa nei confronti del settore della ricerca scientifica, che comunque e' fondamentale per il progresso di un paese. Vorrei soltanto evidenziarne i limiti, imposti dalle esigenze del mercato e che il ricercatore non puo' superare, analizzando i dati che riceve, scegliendo il modello migliore e assumendo che tali informazioni siano veritiere.
Rinunciare alla ricerca soltanto perche' non si crede nella correttezza dei suoi risultati e' analogo a evitare di leggere i giornali e di informarsi perche'si pensa che tali informazioni siano corrotte. Pertanto occorre un atto di fede. La fede aiuta a vivere meglio. Ma non bisogna approfittare della fede per imbrogliare il pubblico, a cui spesso vengono divulgate informazioni parziali approfittando della loro ignoranza.

domenica 20 novembre 2011

La filosofia del dubbio


E mi sento “appesa”, formalmente legata ancora all'attuale contratto di lavoro, ma di fatto gia' inoccupata.
L'importante e' finire, concentrarsi sul lavoro da portare a termine, senza poterne iniziare uno nuovo. Il capo gia' di fatto non mi considera piu' come sua dipendente: non si preoccupa se vengo in ufficio o se lavoro da casa, se partecipo alle riunioni o meno.
D'altro canto, non posso giustificare la mia assenza, ma nemmeno dimostrare la mia presenza.
E resto immobile, nel dubbio.
Certamente la ricerca nell'unita' di terapia intensiva dell'ospedale andra' avanti, quando me ne saro' andata. E allora, qual e' stato il mio contributo?
Ho portato a termine degli studi che dovrebbero essere pubblicati. Ma il mio scetticismo e il mio distacco dal lavoro svalutano, o addirittura annullano, il valore aggiunto frutto di tale esperienza.
Mi sembra di non aver contribuito soltanto perche' non ho realizzato le mie aspettative, pur avendo esaudito le richieste del capo. E le mie aspettative vanno oltre le prestazioni professionali.
Torno in Italia essenzialmente per riprendermi la mia vita e per poter anche trascorrere il mio tempo con gli amici, che mi mancano parecchio. Torno in Italia per poter riprendere cio' che i miei obiettivi scolastici, e in seguito le mie disgrazie familiari, hanno distrutto: la mia predisposizione a voler aiutare gli altri e a voler collaborare per migliorare la societa' e non soltanto per ottenere riconoscimenti personali e titoli.
Infatti mi sembra di possedere soltanto titoli, sebbene ottenuti con sacrificio e determinazione. Ma il sacrificio non aggiunge valore al risultato, al contrario di cio' che credevo in passato. Il sacrificio, cosi' come la devozione, costituiscono soltanto il prezzo pagato per ottenere i risultati, ma non aggiungono valore a cio' che si possiede.
Che ne e' rimasto del mio perfezionismo negli studi? Soltanto il ricordo del riconoscimento e dei complimenti ricevuti dai docenti. Ma una volta che il prezzo e' gia stato pagato e il corrispettivo ricevuto, rimane il valore che attribuiamo a cio' che possediamo.
Ed e' per questo che adesso ho la sensazione di avere soltanto un titolo di studio, privo di qualsiasi altro valore da me riconosciuto. Un titolo che spesso non mi consente di ottenere soddisfazione dal mio lavoro e di esprimere la mia personalita'. Un titolo, di cui dubito la professionalita'. Un titolo che invece i miei ex compagni di studi universitari, seppur taluni con una votazione inferiore alla mia, hanno saputo valorizzare. Ho voluto ottenere quel titolo perche' presentava vantaggi competitivi sul mondo del lavoro. Ma trascuravo il fatto che tale vantaggio si annulla se non si sfruttano le occasioni per usufruirne. Quindi serve a poco studiare per avere piu' possibilita' professionali se poi quelle opportunita' non si sfruttano, per predisposizione o per mancanza di interesse.
E resto nel dubbio se riusciro' a trovare un impiego che oltre al mio titolo sfrutti anche le capacita' che voglio sfruttare. Le seconde sono piu' importanti delle prime per ottenere soddisfazione personale. Ma l'importante e' iniziare, iniziare una nuova carriera, e forse una nuova vita, muovendosi nella direzione della novita', uscendo, anche solo temporaneamente dal dubbio, dal buio, dall'incognito che seduce, ma trascina nell'ignoranza, rendendoci inermi, inflessibili, incapaci di prendere alcuna decisione.
Ma ancora per tre settimane saro' appesa alla vita londinese che, dopo aver ottenuto una casa, un lavoro, un conto in banca, e' stata imperniata sull'attesa. 
Attesa per iniziare a lavorare, attesa per i dati da analizzare, attesa per concludere un lavoro di fatto per me gia' concluso. Attesa, perche' la cultura inglese e' basata sulle attese: file allo sportello, nei negozi, nei locali, alle fermate del bus, ovunque. Attese, per evitare di lottare per ottenere.
Ma io preferisco lottare per conquistare, piuttosto che aspettare il mio turno affinche' cio' che desidero arrivi da me.
Anche l'attesa, come il dubbio, paralizza. Finche' rimarro' nella “filosofia del dubbio” e nell'attesa, saro' immobile, non potro' far progressi nel pensiero e nel movimento: un sasso a riva, che aspetta l'onda per essere portato via. 
Banksy Graffiti Bristol

sabato 12 novembre 2011

Il momento giusto

“Sei troppo giovane per fare certe cose.” “Alla tua eta’, giocavo ancora”. “Trent’anni? Ormai e’ tardi … Dovresti sposarti e metter su famiglia.”
Consigli e suggerimenti dettati dal luogo comune, provengono spesso dalla famiglia, ma anche dalle persone che ci conoscono poco. Cio’ dovrebbe far dubitare della profondita’ di tali giudizi.
Quante volte ci si sente dire. “Ormai e’ tardi”, oppure, “E’ ancora troppo presto”. Ma io vivo adesso e come e’ possibile che sia tardi o presto per i miei desideri se essi vengono concepiti in questo momento?
Il “Tardi” o “Presto” dell’Altro e’ relativo alla vita vissuta da una persona che rientra nella “media”, cioe’ alla vita, influenzata dalla scienza e dalla tecnologia, che viene definita dagli usi e costumi sociali e formalizzata dalla statistica con considerazioni del tipo: “L’eta’ media al matrimonio e’ di 30 anni per le donne e 33 per gli uomini”. Ma la mia vita non e’ un dato. E’ interessante studiare i fenomeni sociali per capire la realta’ che mi circonda, ma per vivere devo conoscere e capire me stessa, analizzando la mia persona e i miei desideri.
Solo vivendo in sintonia con la propria personalita’ e le proprie esigenze, e non in subordinazione alla “normalità” definita dalla statistica, si puo’ raggiungere la felicita’. La felicita’ e’ una sensazione naturale, soggettiva e non puo’ che provenire soltanto dall’esperienza della nostra vita e non di quella artificialmente piallata dalla societa’ o dalla famiglia.
Ogni mattina, sono io a sentire il “peso” di alzarmi dal letto. La collettivita’ puo’ condividere la sensazione, ma non puo’ viverla al posto mio. La collettivita’ puo’ salvarmi l’attuale esistenza, ma non il mio futuro divenire. Quando mi guardo allo specchio, devo vedere me stessa, non il riflesso della popolazione. Io, soltanto io, sono la persona che sa cosa e’ meglio fare, che sa qual e’ la strada giusta perche’ soltanto io mi conosco veramente o, perlomeno, sono la persona che possiede maggiori informazioni sulla mia vita rispetto a qualsiasi altra persona. Cosi’ come sono l‘artefice della mia rovina, sono anche la fonte della mia salvezza.
Non bisogna trascurare nessun particolare della propria vita per cercare di capire chi si e’ e cosa e’ meglio fare. Spesso si ha difficolta’ ad analizzare tali informazioni ed allora si preferisce il luogo comune. Ma se ci si conosce, si ha la sicurezza di dire “Ecco, adesso e’ il momento giusto per fare una cosa perche’ adesso ne sento la priorita’. La mia mente non pensa ad altro. Non e’ in pace fintanto che non l’avra’ ottenuta”.
Non sempre si puo’ sapere a priori che cosa si fara’ nell’immediato e quale sara’ la prossima direzione. Spesso cio’ dipende dalle circostanze e se l’occasione si presenta, come possiamo dire che e’ troppo tardi o troppo presto?  Forse e’ quello il momento giusto. Ma le opportunita’ capitano se siamo nella strada giusta che le scaturisce.
L’unico modo per poter prendere il treno e’ recarsi in stazione. Se poi passa in ritardo non dipende da noi. Ma siamo noi che decidiamo se vale la pena aspettarlo, sulla base delle nostre necessita’ e aspettative.
A volte il treno si perde, ma non bisogna dimenticare che c’e’ sempre un mezzo alternativo per raggiungere la destinazione, anche se magari e’ scomodo.
Non temiamo la fatica, una volta raggiunta la meta capiremo che ne e’ valsa la pena.

domenica 6 novembre 2011

L'idea dominante

Non ho paura di sbagliare, non ho paura di perdere, non ho paura di dover rinunciare a cio' che ho, non ho paura del futuro, non ho paura del presente e neanche del passato, non ho piu' paura dei parenti, non ho paura di cio' che non posso controllare e neanche di non saper controllare cio' che posso controllare, non ho paura del giudizio degli altri e neanche del mio. Non ho paura di nulla.
Ma sono davvero cosi' coraggiosa? Forse, piu' che coraggio, e' consapevolezza.
Consapevolezza che nulla realmente mi appartiene, se non l'idea di possedere qualcosa. Si puo' vivere con la convinzione che la propria vita abbia un unico obiettivo, da noi definito per scelta o imposizione. Se per causa di forza maggiore non riuscissimo a raggiungerlo, la prima sensazione sarebbe la disperazione, dovuta al crollo di cio' che avevamo definito “senso della nostra vita”. Ma se si riflette, si giunge alla conclusione che si ha soltanto perso l'idea di raggiungere quell'obiettivo e se si immagina qualcos'altro allora la vita puo' prendere un'altra direzione.
Il senso della vita non esiste, ma esiste il senso della nostra vita perche' siamo noi a definirlo. E se tale definizione dipende da noi, allora solo noi siamo in grado di cambiarla se ci impedisce di andare avanti.
Spesso si pensa di possedere anche le persone e pertanto si diventa gelosi o, nel caso di una madre, iperprotettivi. A volte, per disgrazia oppure perche' la loro vita segue un altro percorso, le persone care ci lasciano. E non c'e' altro modo che accettare il fatto di non possedere piu' l'idea di stare sempre al loro fianco e se quello era cio' che pensavamo fosse il senso della nostra vita, allora soltanto il definirne un altro ci puo' aiutare a sopravvivere.
Non si possiede neanche la propria vita, ma soltanto l'idea di essa e la prospettiva di una vita sofferente e' insostenibile e sta a noi trasformarla in una accettabile.
Quando i medici mi fecero temere di avere la sclerosi multipla tutto sembro' crollarmi addosso. Non riuscivo ad immaginare la mia vita senza poter soddisfare il mio perfezionismo, la mia ambizione di eccellere e, soprattutto, la mia presunzione di essere autosufficiente. Poi, riflettendoci, una vita diversa sarebbe stata possibile: sarebbe bastato soltanto cambiare idea. Smentita la possibilita' di una malattia, cambiai lo stesso. Il mio punto di vista da allora e' simile a quello che avevo quando ero ragazzina, quando vivevo usando il mio talento naturale senza contaminarlo con il pragmatismo, senza l'idea di possederlo gelosamente, senza sfruttarlo per soddisfare la mia idea di vittoria.
In fondo cosa significa vincere e cosa perdere?
Mi sentii vincente quando ottenni la laurea, quando trovai il mio primo impiego, quando arrivai in prima posizione in graduatoria per avere la borsa di studio al dottorato di ricerca, quando trovai lavoro come ricercatrice in epidemiologia e quando mi assunsero qui a Londra. Ma in fondo non si possiede la vittoria, ma soltanto l'idea di essa, idea che in molti casi svani' presto, una volta che la situazione si mostro' diversa dalle mie aspettative.
E allora perche' si ha paura di perdere quando vittoria o sconfitta dipendono soltanto dalle nostre idee? Forse sono le idee a spaventarci: si ha paura a sostenerle o a cambiarle e, di conseguenza, a vivere con esse e poi doverle abbandonare. Ma se non le sosteniamo, le perdiamo comunque.
Soltanto dopo aver ottenuto i miei traguardi potei considerare quasi ridicola la presunzione che avevo in passato di poter possedere la mia vita incanalandola in obiettivi ben delimitati. Da ragazzina e bambina invece possedevo soltanto l'idea di poter fare qualsiasi cosa e di poter diventare chiunque. La mia visione attuale e' molto simile a quest'ultima: diversificare, anziche' concentrare le energie in un'unica attivita', vivere alla giornata, mettendo alla prova giorno per giorno il mio talento, senza preoccuparmi del risultato, ma non per questo non essere produttiva.
Anni fa avrei pensato che vivere in questa maniera fosse da perdigiorno, da immaturi, da persone che non hanno le idee chiare sulla loro strada e, soprattutto, che non possiedono l'”idea dominante”, quella che prevale sulle altre, quella che non si pone in discussione e che e' aliena ad ogni domanda esistenziale.
Ma riusciro' a trovarla? Mi imbattero' in un cammino che una volta raggiunto fino in fondo non mi renda curiosa di tornare indietro e di vedere cosa c'e' nelle altre direzioni? Mi illudevo di averlo trovato, anche spinta dall'angoscia di vivere senza trovarlo.
Adesso pero' non ho piu' paura di vivere senza possederne l'idea, ma neanche di vivere possedendola e non abbandonandola. Vivere senza paura e senza meta puo' essere l'approccio ideale per trovare l'idea dominante.

mercoledì 2 novembre 2011

Manualita'

Il pensiero frena o addirittura annienta l’esecuzione di comandi provenienti dall’esterno. L’esecuzione invece frena o annienta il pensiero. Pensare consente di porre al vaglio della propria ragione i comandi che giungono dall’esterno.
Il pensiero valorizza l’individuo, anteponendolo al mondo esterno, mentre l’esecuzione lo annienta, assoggettandolo al mondo esterno.
Erroneamente, spesso si crede o ci si autoinganna, che la distinzione tra pensiero ed esecuzione coincida con la distinzione tra lavoro mentale e lavoro manuale. Ma in entrambe i casi si parla di lavoro e quindi di esecuzione di comandi. E allora perche’ si attribuisce maggior prestigio al lavoro mentale rispetto a quello manuale? Si pensa forse che l’uno sia lavoro da uomo e l’altro da scimmia? Fare un lavoro che impegna la mente infatti non vuol dire necessariamente pensare mentre fare un lavoro manuale non vuol dire solo muoversi ed eseguire. Ci sono lavori mentali che annientano il pensiero e l’individuo mentre lavori manuali che lo valorizzano.
Si pensi ad un impiegato di ufficio che tutti i giorni si limita a lavorare con i fogli di calcolo elettronici: schiaccia un pulsante che esegue un programma e poi “copia e incolla” i risultati ottenuti in una tabella. Non e’ mica diverso dalla catena di montaggio. La routine, l’alienazione e la spersonalizzazione sono le stesse. Solo che in fabbrica ci si spacca la schiena, mentre in ufficio il cervello. E’ un lavoro che non richiede nessuna elaborazione di pensiero. Anzi, se pensi ti distrai e quindi sbagli, rimettendoci personalmente. Eppure per essere impiegati in ufficio occorre spesso la laurea, anche se poi le proprie conoscenze teoriche non vengono applicate, ma sotterrate per sempre. Eppure un genitore si sente soddisfatto del proprio figlio se ha un impiego stabile, ben pagato e se il lavoro richiede per immagine giacca e cravatta, anche se poi in definitiva fa un lavoro alienante e con l’anzianita’ lavorativa perde la capacita’ di pensare. Pero’ il genitore non sarebbe altrettanto fiero del figlio se lavorasse in fabbrica perche’ farebbe un lavoro manuale, guadagnerebbe meno, andrebbe in giro mal vestito e rimarrebbe “schiavo” per tutta la vita, dovendo soltanto eseguire ordini. Ma l’impiegato e’ davvero libero? E’ vero che le possibilita’ di carriera ci sono, fino a diventare capo ufficio, ma spesso diventare responsabili significa soltanto mettere una firma sul lavoro altrui. E non vuol dire affatto pensare, ma piuttosto ordinare di fare agli altri le stesse cose che in passato hanno ordinato a te. E le stesse possibilita’ di carriera ci sono anche in fabbrica. Anche li’ si puo’ diventare capi. Percio’ non e’ vero che l’operaio e’ piu’ schiavo dell’impiegato.
Consideriamo ora un lavoro manuale come la parrucchiera. Il cliente arriva e desidera una nuova immagine: un taglio diverso o un nuovo colore.
E’ un lavoro creativo dove bisogna pensare, capire e soddisfare le esigenze delle persone, ma anche muoversi. E allora perche’ nessuna madre o padre, a meno che uno dei due non sia parrucchiere, incoraggerebbe la figlia ad intraprendere tale carriera se la figlia dimostrasse talento? Meglio annientare la creativita’ e il talento prendendosi una laurea dove si e’ studiato a memoria il minimo necessario per avere il titolo e per poi ottenere un lavoro apparentemente piu’ prestigioso, ma di fatto alienante. Annientare il proprio talento per cosa? Per uno stipendio maggiore? Ma se e’ persino un luogo comune dire che i soldi non fanno la felicita’ allora perche’ spesso, anche in maniera indiretta, si trasmette ai figli o agli studenti che l’unico obiettivo nella vita sia guadagnare? I soldi perdono il loro valore se non ci piace il modo attraverso il quale li guadagniamo. E allora li spendiamo con noncuranza, eliminando l’unico lato positivo della professione svolta.
Un discorso a parte merita la professione dell’insegnante. E’ un lavoro mentale, creativo che richiede il pensiero, ma anche l’uso del proprio corpo per comunicare agli studenti: la voce, la postura, il modo di muoversi in classe … Se decenni fa era considerato prestigioso, adesso invece e’ quasi una disgrazia, avendovi attribuito il sinonimo di frustrazione, precarieta’ e inettitudine.
Ma a parte la precarieta’, penso che la professione abbia perso prestigio perche’ il docente non ha piu’ lo stesso potere in classe che aveva una volta: non puo’ piu’ comandare ne’ punire gli studenti in alcun modo perche’ l’intervento dei genitori o degli studenti stessi, a seconda se si tratti o meno di scuola dell'obbligo, si tradurrebbe nell’applicazione della legge del contrappasso. Inoltre spesso l’insegnamento viene percepito come un ripiego per ovviare alla propria incapacita’ o al proprio rifiuto di svolgere una professione pratica e maggiormente remunerata.
Insegnare e imparare sono i due ponti del processo formativo. Spesso dal successo dell'uno dipende il successo dell'altro. La formazione implica anche lo sviluppo del pensiero, ma non sempre cio' accade se si studia come se si stesse recitando il rosario o si insegna come se si stesse celebrando messa. Pertanto dipende dal soggetto, dalle proprie capacita', dalla sua motivazione e dagli stimoli che riceve dall'ambiente esterno. Quindi cosi' come la formazione puo' essere vissuta e percepita come pura esecuzione di comandi, e quindi come svolgimento di un lavoro, anche il lavoro, a sua volta, puo' essere percepito come formazione.
Ma il prestigio di un mestiere non dipende dalle vere esigenze dell'individuo, ma da quelle imposte dalla societa'. Tali elementi sono: l'elevato guadagno (elevato rispetto alla media collettiva), l'immagine esteriore, il potere di comandare e influenzare gli altri, ma non la possibilita’ di pensare e manifestare il proprio pensiero. Ed allora perche’ si preferisce il lavoro mentale a quello manuale? Perche' di fatto non si da' all'educazione fisica la stessa importanza che si da' alle altre materie scolastiche? L'unica ragione e' forse perche' tra i due viene considerato piu' prestigioso fare un lavoro fisicamente meno stancante. Ma e' meglio “vendere” l'anima o il corpo?
Se pensi non lavori, se lavori non pensi. E continuo a domandarmi quale sara' la mia futura occupazione.