giovedì 13 maggio 2021

La "terza quarantena"

Ho sempre pensato che l'isolamento fosse una questione individuale. Non avrei mai immaginato che potesse diventare anche un problema collettivo, sociale. Perché in effetti, chiedere a tutte le persone di isolarsi, è in contraddizione con il concetto stesso di società. E non credevo ciò potesse accadere, Ma così avvenne nell'epoca della mia “terza quarantena”.

Le mie “prime quarantene” furono per studiare, prima degli esami scolastici ed universitari. Ore, giorni in casa per evitare il “virus” della non conoscenza. Persino mia madre pregava tutti i santi. E mio padre, quando ancora era vivo, mi diceva “ma lascia perdere, se devi arrivare fino a questo punto”. Eppure non mollavo, finché non ottenevo ciò che volevo. Anche se non avessi potuto uscire veramente, non sarebbe cambiato nulla. Adesso invece mi sembrerebbe quasi eccessivo, ingiustificato resistere alla bellezza del sole e della natura o all'invito di chi ti chiede: “vieni c'è una festa”. Festa? Eppure all'epoca, mi interessava solo raggiungere il mio obiettivo, reale di fatto soltanto per me: avere quel titolo, quel titolo determinante per la carriera, e quindi, per la vita. Perciò vivevo quel periodo di “quarantene” in cui sacrificavo il mio presente e i miei bisogni per il mio futuro.

Dopo anni, si verificò la “seconda quarantena”, avvenuta per il bene e il futuro di un'altra vita: mia figlia, e per salvarla dal “virus” della prematurità.  Dopo una visita di controllo prenatale, mi sequestrarono in ospedale. Mancavano ancora due mesi al parto. Si impegnarono abbastanza per rendermi quel periodo peggiore di quel che avrebbe potuto essere, senza rendersi conto che forse sarebbe bastato un atteggiamento più umano. “Posso passare un attimo a casa prima di essere ricoverata?” “Vuol scherzare? Non ha capito, la sua gravidanza è a rischio.” “Sì, ma io sto bene e sento la bambina. Quanto dovrò stare?” “AAAAh! Qui si sa quando si entra e non quando si esce.” Mi tennero lì 21 giorni. E ogni giorno era un'incertezza. Avrei tanto desiderato poter stare a casa tranquilla finché mia figlia non fosse nata. In ospedale invece non riuscivo neanche a dormire e anche di giorno mi disturbavano in continuazione con controlli, prelievi, tracciati. “E lasciatemi in pace”, pensavo e forse lo lasciavo intendere al punto che una dottoressa mi disse: “Guardi che la gravidanza è a rischio, forse lei sta sottovalutando la questione”. “Io sento muovere mia figlia e sono serena.” Quando furono chiari il percorso e il fine e capii l'importanza di quel ricovero non chiesi più quando sarebbe finito. Ma feci di tutto perché la bimba crescesse il più possibile. Stetti 15 giorni 24 ore su 24 con una flebo. Avevo poca autonomia di movimenti, legata alla presa a cui dovevo attaccare la flebo. Per il resto, anche se avevano tentato con ogni mezzo, non erano riusciti a spaventarmi: pensavo che sarebbe andato tutto bene perché sentivo mia figlia. E se proprio non fosse andato così, non vedevo il motivo perché avrei dovuto preoccuparmene prima: quello che potevo fare lo stavo facendo. E mia figlia nacque, piccola, estremamente sottopeso (come già raccontato in post precedenti) ma senza nessun problema.

La "terza quarantena" fu in Svizzera,in un luogo dove, a parte gli arcani medici, ho sempre vissuto bene, con la sensazione di sicurezza, e di protezione in un mondo pulito, sano, senza problemi, dove tutto funziona e non ci sono attese e incertezze. E invece quel virus arrivò anche qui. E la Svizzera non divenne più un'isola felice nel deserto europeo, ma un insieme di persone isolate che cercano di continuare la propria vita in salute.

Fu incredibile, una quarantena collettiva. Milioni di persone a cui venne chiesto di mettersi in malattia per evitare di ammalarsi. Ma non si arrivò mai alla dittatura di rinchiudere in casa nessuno. E questo permise a molte persone di mantenersi in forma e godere del sole, seppure limitando al minimo imposto di persone con cui incontrarsi.

Tutto però cominciò dal giornale: cronaca estera. Immagini dalla Cina. Gente che passeggiava con le mascherine. Gente rinchiusa in casa per evitare di essere contagiata e di contagiare a sua volta e gente meno fortunata che muore.  “Oh poveracci.” Quelle immagini mi sembravano tanto lontane quanto vicine. Lontane perché distanti chilometri, vicine perché la gente ormai viaggia ovunque verso ovunque. Infatti, pochi giorni dopo, apparve la notizia sulla cronaca locale di alcune persone rimaste in quarantena dopo essere ritornate in Svizzera da un viaggio in Cina.

In Italia il virus inizialmente fu un pretesto per discriminare e fare battute. Si pensava di non essere abbastanza globali o di essere al sicuro. Ma a volte è proprio perché ci si sente sicuri che ci si espone maggiormente ai pericoli. Il virus entra indisturbato anche in Italia, cogliendo tutti impreparati. La gente va in panico. Assalta i medici, il pronto soccorso. Vivo la situazione dell’Italia da lontano, dai continui allarmi giornalistici, di cui ho sempre diffidato e da cui non mi sono mai fatta condizionare.

Cerco di comprendere come gente che conosco e che stimo sia improvvisamente cambiata. “Non è una dittatura, sono provvedimenti necessari”. Ma percepisco che sono spaventati, condizionati da ciò che sentono dire, piuttosto che concentrati da ciò che provano e sentono dentro. Han paura di morire ad ogni costo, anche a quello di rinunciare a vedere i propri cari, di rinunciare al proprio lavoro, alle proprie passioni, a ciò che motiva ad andare avanti, a vivere.

Non vogliono accettare il fatto che in fondo è la Natura che decide. E così come arrivano i virus, che all’inizio possono essere molto pericolosi, col tempo possono scomparire. In passato ho lottato con diversi virus e batteri. Ho avuto delle infezioni che stavano diventando complicate, anche dovute a prescrizioni antibiotiche eccessive e non sempre appropriate. Ma poi col tempo si sono risolte.

La massa invece non vuole prendere coscienza sulla propria salute. La massa preferisce finire drogata da farmaci prescritti, anche se spesso bastano semplici cambiamenti del proprio stile di vita per guarire. La massa per curarsi si affida ciecamente ai medici. Poi ci sono invece i meno istruiti che cadono in balia degli sciamani o dei ciarlatani. E allora, per semplificare, la gente si divide in “sostenitori della scienza” e “complottisti”. Ma soltanto chi si occupa veramente di scienza e non di politica sa che non esistono verità assolute, dicotomie, e tutto si rimette in discussione. I conflitti di interesse purtroppo esistono nel settore scientifico. Ed è per questo che da ricercatrice dubito sempre di realtà che non conosco. E temo un governo "sanitario" che afugga a questioni etiche e costituzionali.

Ci sono molti dubbi su questo virus, ancora non chiariti, ma non posso parlarne con nessuno. La gente è ipnotizzata: tutto si risolverà col vaccino. In mancanza, ogni restrizione è lecita.

Impossibile il dialogo anche con i “sostenitori della scienza”. Che scienza sostengono? Una scienza dove non è possibile valutare, e nemmeno chiedersi, quanto siano utili le restrizioni e quali costi per ottenere dei benefici?

Nella prima quarantena, la malata ero io: vedevo solo il mio obiettivo ed ero intransigente. Non ascoltavo altre ragioni, come se fossi in autoipnosi.

Nella seconda quarantena, la malata ero io, perché anche se il mio intuito mi rassicurava e non si sbagliava, in fondo ero ricoverata in ospedale e avevo bisogno di aiuto e cure per far nascere la bambina, che apparentemente, non sarebbe potuta nascere in buona salute con parto spontaneo.

Nella terza quarantena, mi spiace, la malata non sono io, ma chi ascolta solo i media ed esegue senza mettere in dubbio, senza introspezione. Chi non capisce come ci si possa sentire privati dell’espressione facciale e della funzione del naso e della bocca, tutti incartati in una mascherina. Chi non vede neanche le conseguenze ambientali e non prova il minimo disgusto nella vastità di spazzatura prodotta da guanti, mascherine e siringhe. Chi non lascia spazio a chi la pensa diversamente. Chi è insensibile alla differenza tra un mondo sano e uno medicalizzato.

Sarebbe stato per me preferibile sentirmi malata anche in questa quarantena. Sarebbe stato risolvibile se il problema fosse stato soltanto mio. Col tempo ho imparato a curarmi. Ma poiché la vera malattia riguarda l’esterno, mi sento impotente, posso solo guardare senza intervenire, aspettando che la gente guarisca, che riprenda coscienza della propria vita, se mai ce l’ha avuta, e se non vuole avercela, che almeno consenta agli altri di poterla avere.

C’è stato un periodo in cui ho avuto come l’impressione di aver perso tutti in Italia, vittime di una paura inquantificabile. Per fortuna le cose stanno migliorando, anche se l’incantesimo del virus è stato sostituito da un altro sortilegio: quello del vaccino.

In fondo non ho perso nessuno. La gente si è solo rifugiata dove doveva rifugiarsi e dove si è sempre rifugiata: nella massa. L’errore di fatto sono io. Eppure questa volta non riesco proprio a concepirmi come un errore, ma soltanto come un’eccezione.

Non ho perso nessuno allora. Quando ritornerò a far visita in Italia forse saranno tutti come li ricordavo.

 Solo una persona non vedrò mai più: una delle mie due sorelle. Morta soffocata, non dal virus, ma da questa vera malattia sempre più severa, sempre più sottovalutata: la disumanizzazione.

 


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