venerdì 27 febbraio 2015

La nausea

“Chi è che sta così male.” “Le do' un indizio” e mi avvicinai al banco mostrando la tessera sanitaria. “Inizi subito stasera la terapia con la prima iniezione.”

Quelle iniezioni mi buttarono a terra, ma debellarono quella terribile infezione alle vie urinarie.
Quando mi ripresi un po', ecco che ritornarono la nausea e l'acidità, molto simili a quelle che avevo avuto l'anno passato in seguito all'intervento di colecistectomia. Mi alzavo al mattino e la giornata aveva l'amaro in bocca. Andai dal medico. Feci i primi esami, ma nulla. Presi antiacidi e antireflusso, ma nulla. Poi tornarono i dolori che provai a calmare con gli antidolorifici solo dopo esser arrivata alla disperazione. Mi si gonfiò il seno, ma dall'ecografia nessuna neoplasia.

Ad un certo punto decisi di lasciare perdere farmaci e visite (se avessi continuato, una bella gastroscopia me l'avrebbero fatta solo per farmi star zitta). Come dice anche Battiato, “non servono tranquillanti o terapie, ci vuole un'altra vita”. Ed allora mi convinsi che la nausea fosse un effetto psicosomatico del continuare a vivere in Italia. Decisi di non provare a chiedere ed aspettare mesi per il rinnovo di una collaborazione che mi scadeva. Un altro progetto, da me concepito e a cui tenevo veramente, non venne finanziato. “E' ora di partire di nuovo, one way.” Ma andare dove?

Sognavo di andar lontano, forse per non esser poi tentata di ritornare, un posto fuori dall'Europa. Un posto dove avrei avuto possibilità di esser coinvolta in qualche progetto innovativo. Un posto però diverso dagli Stati Uniti. Il Canada, pensai. Cominciai a veder le procedure per entrare. Troppa burocrazia! Troppi documenti. Troppo difficile stabilizzarsi in un paese che ti rispedisce a casa scaduto il permesso di soggiorno per lavoro. Troppi soldi per farsi un viaggetto di perlustrazione e troppo freddo : le previsioni nella norma davano 19 gradi sottozero. Avrei superato ogni troppo, ma non quello di sentirmi troppo stronza per non poter facilmente tornare a far visita alle mie sorelle in caso di necessità. Troppo lontano da loro. E avevo anche troppa nausea per poter mandare documenti e aspettare una firma per partire. Avevo già perso troppo tempo in attese e ora volevo partire il prima possibile.

Volevo andare in un paese dove non c'è burocrazia, diverso dagli UK per non cadere di nuovo negli stessi errori e per vivere in un posto nuovo. L'idea di dover imparare un'altra lingua mi intrigava, ma dovevo andare in un paese dove ti accolgono anche se inizialmente parli solo inglese. Dovevo anche andare in un paese dove avrei voluto stabilizzarmi.

Il Paese ideale dove trasferirsi deve avvicinarsi all'ideale del Paese dove si vorrebbe vivere. Infatti quando andai in UK non mi posi il problema perché quando partii non ero nauseata e non cercavo un'isola felice, ma soltanto raggiungevo il mio compagno e tutto il resto era da scoprire. Ora invece era diverso. Ero stanca di far l'anima in pena e poi sarebbe costato caro, soprattutto al mio compagno che avrebbe perso un posto a tempo indeterminato, fare un'altra avventura senza pensare al futuro. Probabilmente se fossi stata da sola sarei partita subito senza pensarci troppo per fuggire dalla nausea, ma convenivo che la nausea sarebbe prima o poi ricomparsa, una volta finita la curiosità iniziale, se fossi andata nel posto sbagliato.

Il tempo e la distanza filtrano le emozioni e gli stati d'animo, lasciandoti solo il ricordo dell'esperienza vissuta e il senso di mancanza per ciò che hai lasciato. Per esempio spesso vien voglia di ritrovarsi con gli ex-compagni di scuola indipendentemente dal fatto che ci fosse stata o no simpatia. Perché? Soltanto perché si sente la mancanza di una parte di noi che in un certo senso abbiamo lasciato a loro. E così quando ti trovi all'estero ti dimentichi della nausea per il tuo Paese, del disagio che provavi e del disprezzo per alcuni atteggiamenti dei suoi abitanti e ti affiora alla mente soltanto il ricordo di tutta la vita che hai lasciato: la famiglia, gli amici, le strade, i locali, le scuole, l'università. Allora decidi di ritornare nel tuo Paese per riprenderti la tua vita e una volta tornato ti ricordi della “scappatella” che hai vissuto nell'altro Paese e ti dimentichi del senso di vuoto che avevi, ricordandoti solo dell'avventura che ti ha cambiato perché si è presa una parte di te.

Dopo tutte queste considerazioni e pensando all'ideale di Paese dove avrei voluto vivere, decisi di partire per la Danimarca. Infatti, informandomi sulla sua cultura e società, i punti in comune con il mio ideale sono: forte fiducia e rispetto per il sistema pubblico, le politiche “green” in particolare l'uso diffuso della bicicletta come mezzo di trasporto, l'informalità nell'ambiente di lavoro, ma anche nelle relazioni in genere, il non essere maniaci del lavoro e il non stagnare in ufficio per far credere di lavorare di più, l'apertura mentale …

Inoltre la Danimarca è stato il primo posto dove hanno introdotto i diari dei pazienti come supporto di cura per i malati in terapia intensiva (uno dei miei forti interessi di ricerca).
Pertanto iniziai a contattare le persone che avevano fatto questi studi per farmi conoscere e chiedere se c'era possibilità di collaborazione. Non funzionò e allora iniziai a vedere sui portali web annunci e bandi in centri di ricerca e università. Dagli annunci in inglese sembravano esserci poche offerte, ma risposi a tutte le poche interessanti. Mandai la mia candidatura anche alle aziende farmaceutiche che cercavano statistici (in realtà avrei preferito il settore no profit, ma avevo troppa nausea dell'Italia per pormi troppe questioni morali). 

Poi scoprii un mondo di annunci interessanti, ma scritti in danese. Superai la barriera linguistica (mi bastò il traduttore di google) e mandai la mia candidatura in inglese (ammettendo però di non conoscere ancora il danese).

Dopo tante “application” mandate ricevetti due inviti, da parte di centri di ricerca, per colloquio via skype e uno per un colloquio telefonico. Ad un certo punto mi ritrovai davanti alla webcam con persone sconosciute e l'intervista fu spontanea. Mi fecero i complimenti (i danesi non sono cosìi “polite” come i british e quindi ne fui soddisfatta) e ci mancò poco che non mi assunsero (penso perché alla fine scelsero un candidato che a parità di competenze sapeva anche il danese).

Pensai che avrei avuto molte più possibilità e credibilità se fossi andata direttamente lì a cercar lavoro e intanto frequentare la scuola di danese gratuita per gli stranieri. Di sicuro avrei trovato qualcosa e mi sarebbe anche piaciuto chiedere ospitalità in cambio di lavoro (mentre cercavo il vero lavoro). Visto che il mio compagno non voleva lasciare il suo posto senza esser sicuro che almeno uno dei due ne avesse uno “serio”, ma considerato che io non potevo più rimanere in questa situazione, pensai di partire per qualche mese da sola (lui mi avrebbe raggiunto dopo).

Ad un certo punto però ebbi dei capogiri, poi mi tornarono i disturbi della minzione e una lieve infezione. Erano situazioni piuttosto imbarazzanti ed il bagno mi sembrava sempre più lontano della Danimarca. Era grottesco: all'inizio sognavo il Canada ma alla fine non potevo far altro che restare in-continente.



1 commento:

  1. Il fatto che in Danimarca ci sia meno formalità che negli UK lo si vede anche dalle "application form" per candidarsi ad un posto di lavoro. In UK bisogna compilare uno schema rigido, che dipende dall'azienda o dall'istituzione che lo richiede, dove quasi vien fatto il terzo grado relativamente a esperienze di lavoro, titolo di studio, motivazioni ... Chiedono anche religione e orientamento sessuale (anche se non sono informazioni che usano per discriminare). In Danimarca invece basta inviare il cv (schema libero) e lettera motivazionale.

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